L’Alfabeto dei Ricordi-Lettera C

Ecco arrivare la C, C come CARNEVALE: prima ancora dei famosi personaggi degli attuali cartoni animati  e prima ancora delle varie fate e principesse degli anni ’80 e ’90 con i loro sontuosi abiti, ecco arrivare, sospinti dalla grande fantasia dei piccoli di tantissimi anni fa, lenzuola bianche che non si usavano più in casa,  cappelli da cowboy fatti in cartone, penne lasciate in terra da qualche animale da cortile messe “strategicamente” sulla testa per vestirsi da indiani…sembra di vederli questi bambini che, con pochissimi mezzi, riuscivano a trasformare un momento dell’anno in attimi preziosi, da trascorrere con gli amici, con i quali non facevano a gara per il  vestito più bello perché a vincere era sempre e soltanto lei: la fantasia che aveva ispirato e guidato la creazioni dei loro singolari abiti di Carnevale…

L’Alfabeto dei Ricordi-Lettera B

oggi tocca alla B, B come BICICLETTA, mezzo di locomozione per eccellenza in un’ Italia che ancora non aveva conosciuto la grandissima diffusione dell’automobile. Protagonista del memorabile film neorealista del 1948 diretto da Vittorio De Sica, “Ladri di biciclette”, una pellicola, questa, dal sapore dolceamaro, negli anni ’60, invece, la stessa bicicletta divenne il simbolo, per molti bambini, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e non c’era cosa più bella che incontrarsi con gli amici e darsi appuntamento per una sana pedalata insieme o per qualche “ardimentosa sfida di velocità”. Possederne una significava essere “diventati grandi”, perché quando la mamma ti chiedeva di andare a prendere il pane o il latte nell’alimentari vicino casa, si inforcava la bicicletta e la si pedalava come se fosse un trofeo…un trofeo di libertà, una libertà che faceva rima con felicità…

L’Alfabeto dei Ricordi- Lettera A

Oggi partiamo dalla A, A come ALLEGRIA: e parlando di allegria cosa viene in mente se non il saluto di Mike Bongiorno, nome, questo legato al primo quiz della televisione italiana andato in onda nel novembre del 1955: “Lascia o Raddoppia”. Erano tempi, quelli, in cui di televisori, nelle case degli italiani, ve ne erano ancora pochissimi e così ciascuno portava con sé la sedia della propria cucina nell’appartamento di qualche fortunato vicino o nel bar di fronte per assistere, tutti insieme, a quello che sarebbe diventato un appuntamento irrinunciabile. Persino i cinema sospendevano la programmazione prevista per trasmettere il quiz. ALLEGRIA ovunque palpabile, ALLEGRIA per una nuova era che si era lasciata alle spalle le macerie, non solo reali, della guerra…e ALLEGRIA sembrava essere diventato davvero il motto di un’Italia speranzosa, che guardava al futuro con ottimismo, un ottimismo che avrebbe condotto dritto al “Miracolo Economico”…

Il Lago di Carezza…semplicemente lui…

 

 

Il percorso che, per 25 chilometri, conduce da Bolzano al Lago di Carezza, ti fa già assaporare lo spettacolo che ti attende proprio lì, ai piedi del massiccio del Latimar che ogni mattino saluta il nuovo giorno specchiandosi nelle acque del lago, a 1534 metri di altitudine.

Il Lago di Carezza (Foto di Lorenza Fiorilli)

Giunti sullo spiazzale dove è allestito il parcheggio delle auto, si transita per un passaggio, usciti dal quale non puoi fare a meno di chiederti se sei diventata, senza nemmeno accorgertene, Alice nel Paese delle Meraviglie.

Gli alberi che incorniciano lo specchio d’acqua (Foto di Lorenza Fiorilli)

Eccolo…è lì, sembra attenderti e tu, ammaliata come Ulisse dal canto delle Sirene, ti spingi il più possibile vicino a lui per ammirarlo, per farti rapire da cotanta bellezza: le acque che passano dal verde smeraldo al blu intenso, il Catinaccio e il Latimar che scorgi in lontananza, ma che sembrano così vicini, quegli abeti che fanno da corona a questo lago incastonato tra gli alberi e i monti…

Rimani immobile per decine di minuti,  sino a quando non ti incammini per il sentiero che abbraccia l’intera circonferenza del lago.

Un particolare delle acque del lago (Foto di Lorenza Fiorilli)

Ma poi…poi ti fermi nuovamente e allora cominci a credere che le leggende non siano poi tali…e, così, ripensi alle storia che hai letto sul lago di Carezza: la bellissima Ninfa Ondina che abitava le acque e della quale lo stregone Latimar era perdutamente innamorato. Un giorno, per attirarla a sé, fece comparire sul lago uno straordinario arcobaleno che rapì l’attenzione di Ondina, la quale, dopo essersi accorta della presenza di Latinar, fuggì via impaurita. E così, lo stregone, in preda alla disperazione, prese l’arcobaleno, lo fece in mille pezzi e lo gettò nelle acque del lago che, da allora, riflettono i colori trasformandoli in un magico incanto, non solo per gli occhi, ma anche per l’animo.

Uno scorcio del sentiero che corre lungo il lago (Foto di Lorenza Fiorilli)

No…non vorresti andar più via… ti allontani, ma poi ti volti nuovamente verso il lago, poi ti incammini, ma non puoi fare a meno  di ammirarlo ancora e ancora…e quando sei ormai in macchina e lasci il parcheggio, quello spicchio di lago che puoi ancora scorgere, già strugge il cuore di malinconia…

Lo spicchio di lago che ti saluta mentre si va via (Foto di Lorenza Fiorilli)

Alessandra Fiorilli

L’Alfabeto dei Ricordi

Carissimi lettori della rivista EmozionAmici, dopo il lusinghiero successo ottenuto con la pubblicazione a puntate del mio romanzo “Arri Arri Cavalluccio”, con il quale ho esordito nel 2008, da domani troverete un singolare tuffo indietro nel tempo realizzato attraverso le lettere del nostro alfabeto, ciascuna delle quali offrirà uno spunto per ricordare ed emozionarsi. Il titolo di questo nuovo appuntamento prende il nome dall’omonimo mio libro, “L’Alfabeto dei Ricordi”, pubblicato nel 2017.

A domani carissimi lettori di EmozionAmici!

 

“Di nuovo, la mia vita…”: la testimonianza di Chiara

 

Mi ha contattato: “Buongiorno, sono Chiara. Vorrei raccontare la mia esperienza…o meglio le mie emozioni…quello che si prova dopo che ci si riappropria della vita, dopo che arriva quell’esito negativo tanto sperato…dopo che si riprende tutto con una nuova carica di entusiasmo”.

Un’Immagine simbolo di quello che Chiara non ha apprezzato per tanto tempo: una splendida giornata di sole, quella che tante volte lei non aveva apprezzato ( Foto di Lorenza Fiorilli)

E così ho ascoltato la storia di Chiara, la quale mi ha chiesto di scriverla come un breve racconto: è quello che ho fatto.

Chiara: una vita tra famiglia e lavoro, impegni quotidiani, il traffico in città, qualche chilo di troppo che fa tirare i jeans sulla pancia, la ruga ai lati della bocca e quel colorito che non è più quello dei venti anni…

E poi un giorno, un giorno come tanti…e Chiara che, invece di recarsi al lavoro, va dal medico: un controllo di routine.

Entra nella stanza dello specialista, spiega il motivo del controllo:” Nessun sintomo e nessuna familiarità”.

Fa quello che il medico le dice di fare nella semioscurità della stanza.

Quel gel freddo procura a Chiara quasi una vertigine…

Il medico è in silenzio, non dice nulla, è lei che chiede se va tutto bene.

“C’è un nodulo…non è molto grande…le dico tutto terminata l’ecografia”.

Chiara è lì, sdraiata sul lettino e mentre sta fissando il soffitto di quella stanza, ripensa ai giorni precedenti: ai jeans che tiravano sulla pancia, alla scoperta di quella ruga ai lati della bocca, al colorito che non è più quello dei venti anni…ma pensa anche ai viaggi mancati, a tutto quello che non appezzava da troppo tempo, come quel sole splendente che l’aveva accompagnata sino allo studio medico, quel mattino, e che l’avrebbe accolta quando sarebbe uscita da lì.

 

“Può rivestirsi”, le dice il medico e quella camicia bianca le sembra già l’abito di un malato.

Lo specialista le spiega tutto in maniera accurata tutto e fissa un appuntamento per un ago aspirato “Solo questo potrà dirci se il nodulo è maligno o benigno. Purtroppo ha delle caratteristiche che non ne escludono la malignità, anche se ce ne sono altre che potrebbero suggerire la benignità”.

Intanto il marito la chiama per telefono: “Chiara, tutto bene?”

“Ne parliamo a casa” risponde lei…lei che intanto si rimette nel traffico…lei che piange per tutto quello che non ha visto in quegli anni, che ha dato per scontato.

La notte non dormirà, la notte sarà affollata di interrogativi…

Il giorno dopo, al lavoro, non è più lei: non parla con nessuno e avrebbe solo voglia di piangere, quello che farà nei giorni successivi, sino a quell’ago aspirato, quando, sdraiata sul lettino dell’ambulatorio, le sembrerà che quell’ago le stia aspirando anche un po’ di sé, e di quella vita che non ha apprezzato a sufficienza.

I giorni che la separano dalla risposta del referto sembrano procedere così lenti, così lenti, così lenti…

Poi quella risposta e la vita cambia, di nuovo, forse per sempre: “Negativo”.

Il sole che splende sul mare: il simbolo della rinascita di Chiara (Foto di Lorenza Fiorilli)

Chiara esce dall’ambulatorio sventolando quel referto in aria, con  i jeans che le tirano sulla pancia, con la ruga ai lati della bocca, con quel colorito che, però,  oggi è diverso, perché Chiara è rinata: non ha più 39 anni oggi, ne ha 13, al massimo 14…e una vita, nuova, davanti.

Alessandra Fiorilli

Quando il bullismo non aveva questo nome: la storia di Franca

 

“Un istante, un solo istante e la vita vira, modifica la sua rotta. Tutto cambia…specie per chi rimane e deve continuare. E così diventai, un mattino di settembre, orfana di padre a causa di un incidente sul lavoro. Mia madre dovette andare a servizio e mi ritrovai a dover accudire i miei due fratelli più piccoli. Io ero la più grande…ma avevo appena dieci anni…dieci anni ed ero diventata la capofamiglia: pulivo casa, preparavo il pranzo e la cena, lavavo i panni di tutti”.

Ancora tanto il dolore nelle parole di Franca, oggi donna di 50 anni, madre di tre figli e prossima a diventare nonna.

Quello che è successo durante la sua infanzia, ce lo racconta lei stessa, davanti ad un ottimo ciambellone.

Frequentavo la quinta elementare quando mio padre morì e, oltre al dolore, allo sconcerto, arrivarono anche le difficoltà economiche. I miei genitori stavano costruendo una casetta in campagna, dove ci saremmo trasferiti l’anno successivo ma, con la scomparsa di papà, dovemmo bloccare tutto. Fummo persino costretti a lasciare l’appartamento dove eravamo in affitto per andare in un sottoscala umido e dal quale vedevamo soltanto le scarpe delle persone che passavano in strada”.

Non furono le privazioni e le restrizioni ad abbattere Franca, quanto quello che dovette sopportare a scuola.

Cominciarono a farmi pesare le mie scarpe vecchie, il fatto che non avevo più un diario, perché tutto, in quel momento, anche pochi spicci, facevano la differenza tra mangiare o restare digiuni. Meno che mai potevo acquistare gli album delle figurine che tanto andavano di moda in quegli anni. E la mia merenda non era più il pezzo di pizza rossa acquistata al forno vicino scuola, ma una fettina di pane con un formaggino. Fu così che i miei compagni di classe cominciarono a farmi sentire diversa, a prendermi di mira, a chiamarmi “la pezzentella”. Nessuno più voleva venire a casa mia, anche se io, di tempo da dedicare alle compagne di classe, ne avevo sempre pochissimo”.

Un disegno di Franca realizzato in quinta elementare: un albero con choime di fuoco viola, un sole nero, delle nuvole blu, dei lampi e quella casa sbiadita, disegnata e cancellata più volte…

Quando un giorno l’insegnante formò i gruppi per la consegna di un cartellone di geografia, nessuno la volle nel proprio, adducendo il fatto che i suoi abiti puzzassero di chiuso.

“Nessuno voleva sedersi accanto a me al banco, nonostante l’amorevole intervento della maestra la quale decise, un giorno, di  farmi mettere vicino alla cattedra  con banchetto singolo,  ma questo non migliorò la situazione, tanto che i miei compagni si divertivano, appena l’insegnante si voltava per scrivere alla lavagna, a lanciarmi, con la biro di plastica, dei pezzetti di carta. Fu  un anno durissimo, e di questo non potevo ovviamente parlare con mia madre, già oberata di lavori pesanti e sfiancanti”.

Poi le cose lentamente migliorarono quando i nonni materni decisero, l’anno successivo all’incidente, di trasferirsi da loro, riuscendo a finire anche i lavori di quella casa tanto agognata; nel frattempo, la madre ottenne un lavoro fisso da operaia in fabbrica.

“Eppure, ancora oggi sento addosso  quel disprezzo che mi vomitavano addosso tutti i giorni i miei compagni di classe. Era bullismo… anche se all’epoca non aveva questo nome. E quando oggi leggo storie di bambini vittime dei bulli mi sento impotente e triste, perché sono cose che rimangono impresse a fuoco nell’anima, per sempre”.

Franca ha parlato per tutto il tempo con la voce rotta da dolore antico eppur presente, stringendo le mani, una nell’altra, in maniera ritmica. E, nonostante  oggi la sua casa sia piena di luce, con un bel terrazzo pieno di piante che cura lei personalmente, e nonostante i tre figli e il nipotino che arriverà tra breve, dentro di sé quelle ferite, di quando per gli altri era “la pezzentella”,  urlano ancora nella notte dei ricordi con la loro voce stridula, sgradevole, perché dal bullismo non si guarisce mai completamente, perché il passato torna, anche se a chiamarlo è un minuscolo, impercettibile dettaglio.

Alessandra Fiorilli

 

 

La famiglia Pinto: con le loro ceramiche da Vietri sul Mare in tutto il mondo

Difficile, quasi impossibile andare via da Vietri sul Mare, delizioso borgo della costiera amalfitana  a pochi chilometri da Salerno, senza aver acquistato l’immancabile souvenir in ceramica.

Tra i tanti negozi che si snodano lungo le viuzze del centro storico, c’è né uno che non è solo una semplice rivendita di oggetti realizzati nella tipica ceramica vietrese, ma una fabbrica vera e propria che è riuscita ad attraversare secoli di storia e che parla di ben tre generazioni di un’unica famiglia, quella dei Pinto. Nell’ omonimo palazzo su Corso Umberto a Vietri sul Mare, sono esposte le loro opere su una superficie di 400 metri quadrati, prodotte nei 1000 metri quadri dove nascono le famose piastrelle e tutti i complementi di arredo e l’oggettistica, tutti rigorosamente firmate con la dicitura “V.PINTO-VIETRI” che ne garantisce l’autenticità.

Una foto d’epoca della sede della Ceramica Pinto (Archivio Pinto per gentile concessione)

Entrare all’interno della loro attività è, al tempo stesso, un tuffo del passato e un lancio nel futuro, perché ogni singolo lavoro esposto parla di quest’antica passione per la lavorazione della ceramica che li ha portati ad esportare  i loro prodotti in tutto il mondo.

Un momento della lavorazione delle famose piastrelle vietresi in una foto d’epoca (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Oggetti dai più minuti a dei veri e propri capolavori : ecco quello che la famiglia Pinto offre a coloro i quali visitano il Palazzo che sembra esso stesso un’opera d’arte.

Ma iniziamo il racconto da quel lontano 1870 quando, proprio a Vietri sul Mare, Vincenzo Pinto inizia la propria attività nella frazione di Molina di Vietri, dove apre una fabbrica di cotto. Gli affari vanno bene e decide, così, di espandersi: prende in affitto  una fabbrica posta al piano terra del Palazzo Pizzicara, che prenderà poi, dopo l’acquisto della proprietà da parte di Vincenzo, il nome di  Palazzo Pinto.

Uno scorcio di Positano in uno dei pannelli in ceramica (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Negli anni ’20 il nome della famiglia arriverà fino in Europa, grazie alla famose piastrelle prodotte dai Pinto, così come ci dice  Giovanni Alessandro, marito di Rosaura Pinto,  rappresentante della terza generazione: “La fabbrica nasce da artigiani che lavorano la ceramica. La produzione più importante è legata, però alla famose piastrelle e ai complementi di arredo. Ovviamente, abbiamo anche una ricca esposizione di oggetti, dai piatti ai complementi di arredo, dalle statue alla piccola oggettistica”.

Un pannello raffigurante uno scorcio da Ravello (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Negli anni ’30 un salto di qualità: Vincenzo Pinto chiama a dirigere la fabbrica il Professor Renato Rossi che fonda nella vicina Salerno la Scuola di Ceramica.

Un altro pannello raffigurante scene di vita quotidiana (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Gli anni ’50 vedono un altro nome importante affiancare la famiglia Pinto nella produzione di manufatti in ceramica: la direzione artistica viene affidata allo scultore ungherese Amerigo Tot, il quale elabora bozzetti che diventeranno il bassorilievo che decora ancora oggi il fronte della Stazione Termini di Roma.

(Archivio Pinto, per gentile concessione)

Sul finire degli anni ’60 la fabbrica Pinto si amplia con la costruzione di due nuovi edifici. Intanto la fornace a legno viene sostituita con un forno a tunnel a gasolio.

Anche i Miti nei pannelli di Pinto (Archivio Pinto, per gentile concessione)

La fabbrica Pinto è pronta a decollare sulle ali del boom economico degli anni ’60: la produzione delle loro ormai famose mattonelle,  grazie all’innovazione introdotta, aumenta notevolmente e, sempre in quel decennio a Vietri, presso Palazzo Pinto, arriva Giovannino Carraro, importante artista vietrese del 1900, che realizza il pannello che ricopre il Palazzo.

La loro capacità di attraversare secoli di storia risiede: “Nel saper  tener fede a ciò che siamo e al nostro lavoro che non è legato ad un singolo artigiano, ma è un grande lavoro d’equipe”.

Il deposito delle terracotte (Archivio Pinto, per gentile concessione)

 

E le piastrelle, quelle dal quale tutto è iniziato dal lontano 1800, continuano ad essere un elemento di spicco della produzione firmata Pinto :” La decorazione è ancora fatta manualmente”, ci tiene a sottolineare Giovanni Alessandro-“ Così come manuale è la preparazione dello smalto con il quale si garantisce l’elevata resistenza all’abrasione, la morbidezza e la lucentezza di quel bianco particolare, che è noto proprio con il nome di bianco Vietri”.

Sempre Giovanni Alessandro ci illustra il percorso che dalla materia prima giunge al manufatto:” Si parte dall’argilla impastata con l’acqua. L’argilla, poi, viene essiccata e si procede con una prima cottura e diventa, così, terracotta. Si prosegue con la smaltatura e il tutto viene completato dalla decorazione e con una seconda cottura”.

C’è un motivo per cui la lavorazione della ceramica nasce e si sviluppa proprio a Vietri, in questo borgo a picco sulla costiera amalfitana:” A due chilometri dalla città di Salerno ci sono delle cave di argilla. La presenza di uno sbocco a mare, in modo particolare il porto e la vicinanza con Napoli, e l’influenza della Chiesa, tanto che qui vicino c’è l’Abbazia Benedettina di Cava dei Tirreni, hanno reso possibile il grande sviluppo dell’industria della ceramica vietrese. Oggi, purtroppo, l’artigianato sta vivendo una fase difficile, ma noi continuiamo con una forza che ci giunge dal lontano 1800, da quando il nostro Avo Vincenzo iniziò questa attività”.

Alessandra Fiorilli

 

Il Ristorante Carignano di Torino ha ottenuto la sua prima Stella Michelin. Marco  Miglioli, Chef de Cuisine, ci svela la “ricetta” di questo locale nel cuore di Torino.

La prima Stella Michelin per il Ristorante Carignano arriva nello stesso anno in cui anche l’Hotel dal quale dipende, il Grande Hotel Sitea a Torino, ha visto coronare la sua lunga storia con l’agognata quinta Stella. Il 2018 è, dunque, un anno da ricordare, anche se il riconoscimento giunto al Carignano è solo un punto di partenza, come ci conferma lo Chef de Cuisine Marco Miglioli, fortemente voluto dall’Executive Chef Fabrizio Tesse, con il quale Miglioli ha già lavorato in precedenza.

Da sinistra: lo storico Resident Chef Ruggero Rolando, l’Executive Chef Fabrizio Tesse e lo Ched de Cuisine Marco Miglioli (foto per gentile concessione del Grand Hotel Sitea , Torino)

La giovane promessa del Carignano arriva a Torino dopo una lunga esperienza:”Conseguito il diploma all’Istituto Alberghiero, ho avuto il privilegio di andare a lavorare a Villa Crespi , dello Chef  Antonino Cannavaciuolo, per 2 anni, per passare poi al ristorante Trussardi di Milano, per un anno”. Mignoli vola poi anche a Londra,  a Montecarlo e a Dubai.  Nonostante tutte le brillanti esperienze all’estero, il suo cuore e la sua anima appartengono a quei ricordi da bambino, che ancora oggi sono la sua “Stella Polare” in cucina: “Provengo da un famiglia in cui il buon cibo, possibilmente a km 0, è stato sempre l’elemento più importante. Non è un caso che al mattino, la spesa l’andiamo a fare  al mercato giornaliero a Porta Palazzo, a Torino, preferendo anche  prodotti di nicchia.” Marco Miglioli,  l’aria della cucina l’ha respirata sin da adolescente:  “Avevo 13 anni e aiutavo la nonna al bar nel preparare i caffè”.

Il giovane chef è poi riuscito a volare in alto “Non solo grazie alla passione, ma anche ad un pizzico di fortuna e al fatto di essere, come si suol dire, al posto giusto nel momento giusto”.

Presso il Ristorante Carignano, che ha appena cinque tavoli ed è aperto a cena, la parola d’ordine è:” Tradizione e innovazione. Rispettiamo, infatti, le tecniche basilari delle nostra migliori tradizioni, cercando di aggiungere, ovviamente, qualcosa di noi”.

La prima Stella Michelin: “Viene assegnata sulla base di un insieme di elementi, quali la location, la cantina, il servizio. Questo ambito riconoscimento ci ha cambiato mentalmente perché si riparte verso nuovi traguardi. Questa stella è solo una partenza”.

Alessandra Fiorilli

Pietro Fusella ci racconta la singolare storia del Chiaja Hotel de Charme a Napoli  immerso in un’aria di antica nobiltà e di “donnine allegre” del secolo scorso.

 

 

Napoli è così: sospesa, come lei sa fare, tra “sacro” e profano” e questa fusione tra due facce della stessa medaglia, è visibile ovunque poggi lo sguardo. E così, in uno dei tanti vicoli, puoi trovare la statua della Madonnina, oggetto di devozione “sacra”, gelosamente custodita in un’edicola ornata di fiori,  e poi, qualche metro più in là, decine e decine di persone con i numeri da giocare, per la devozione “profana” che il popolo di Napoli ha per il lotto. E poi c’è il “sacro” rito del pranzo domenicale, con il famoso “rrau’ ch’adda ppippià”, e il “profano” strett-food che coinvolge tutti: bambini, adolescenti, giovani, anziani…perché mangiare in strada il famoso “cuopp” di terra o di mare, la pizza a portafoglio, la sfogliatella, non è placare lo stomaco, ma fare un regalo all’ anima.

E poi, ancora, c’è il “sacro” delle vie dello shopping  elegante e della movida, e il “profano” dei “vasci” nei Quartieri Spagnoli…

In questa perfetta mistura s’inserisce anche la storia singolare del “Chiaja Hotel de Charme”, situato nell’omonima via di Napoli. E così, in un “sacro” palazzo nobiliare del 1700, il palazzo Giroux, l’intero primo piano ha visto fondersi un appartamento appartenuto al Marchese  Lecaldano  Sasso la Terza con il “profano” di una ex casa di tolleranza chiusa con la legge Merlin. Ma entriamo insieme in questo stabile: ad accoglierci c’è un maestoso portone che, di sera, viene chiuso e il cui accesso è consentito da una porticina ricavata all’interno  del portone stesso. Nel cortile d’ingresso c’è ancora il portinaio nella sua stanzetta e,  dopo essere saliti sulla scala in stile vanvitelliano, si accede nell’ albergo, nato nel 2001 proprio da una commistione, appunto, di “sacro” e di “profano”.

Pietro Fusella, Direttore del Chiaja Hotel de Charme, e il suo avo nel dipinto che si trova nella Sala d’ingresso della struttura (foto per gentile concessione di Pietro Fusella)
Il ritratto del Marchese Lecaldano Sasso La Terza  nell’ingresso dell’appartamento nobiliare (per gentile concessione di Pietro Fusella, archivio Gallery dell’Hotel)

Gli ospiti di quest’albergo possono, così, trovarsi immersi in due atmosfere completamente diverse tra loro ma che i proprietari hanno saputo fondere. Alcune camere si trovano, infatti, nell’antica Casa Lecaldano Sasso la Terza, che fu abitata tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 proprio dal Marchese Nicola, altre, invece, sono ubicate nello storico “Casino di Salita S. Anna di Palazzo”, chiuso nel 1958 dalla legge Merlin. Come è avvenuta questa fusione tra il “sacro” e “profano”, ce lo svela direttamente Pietro Fusella, pronipote del Marchese Lecaldano, nonché Direttore del Chiaja Hotel de Charme. Era l’anno 2001 e Napoli non viveva un momento felice e non si presentava come oggi, con la grande area pedonale di via Chiaia  e  via Toledo. C’era, inoltre, una crisi degli alloggi e la proprietà immobiliare  della nostra famiglia si stava degradando, così venne l’idea di procedere ad una ristrutturazione e di adibire l’appartamento al primo piano di palazzo Giroux ad uso ufficio, ma io proposi di farne un albergo, in un momento dove le strutture recettive di Napoli si trovavano solo sul lungomare Caracciolo e nei pressi della stazione ferroviaria. La ristrutturazione non riguardò solo l’appartamento, ma anche quei mobili e quelle suppellettili che sono attualmente ospitate nell’ingresso con il camino e nelle varie stanze. In tutto furono ricavate 14 camere: il nostro albergo era una vera bomboniera: piccolo e molto curato negli ambienti e con l’atmosfera di una casa nobiliare di fine 1800. Le cose andarono talmente bene che, dopo appena un anno di attività, decidemmo di ingrandire la struttura, acquistando un appartamento adiacente al nostro, che ci avrebbe consentito di occupare l’intero primo piano di Palazzo Giroux.  Solo quando entrammo ci accorgemmo che si trattava, in realtà, di una casa di tolleranza chiusa dalla legge Merlin del 1958, il cui ingresso non era su via Chaia, ma sulla traversa accanto, strategicamente posta nel vicolo Sant’Anna di Palazzo. Così come avevamo fatto per l’appartamento del nostro avo, procedemmo alla ristrutturazione, puntando su tappezzerie dai colori carichi, mantenendo intatta la bellissima vetrata liberty, lasciando altresì, in bella vista, il tariffario dell’epoca.

Un particolare dell’antico camino (per gentile concessione di Pietro Fusella, archivio Gallery dell’Hotel)
…e dell’ingresso(per gentile concessione di Pietro Fusella, archivio Gallery dell’Hotel)

 

La vetrata in stile liberty nell’ala della  casa di tolleranza chiusa dalla legge Merlin del 1958, poi incorporata negli anni 2000 dall’albergo (per gentile concessione di Pietro Fusella, archivio Gallery dell’Hotel)

Chiedo a Pietro Fusella in che modo fu accolta questa fusione: “Con grande e vivo interesse, nonché con curiosità. Alcune  signore  emiliane, ad esempio,  ci chiedono, espressamente, al momento della prenotazione della stanza, che la stessa sia ubicata nell’ex casa di tolleranza. Moltissimi sono incuriositi dai vecchi oggetti originali esposti nel corridoio. Resistenza fiera solo da una coppia di giovani francesi che,  trovatisi di fronte a questa novità, si rifiutarono categoricamente di soggiornare in una di quelle stanze e chiesero, quindi, di essere trasferiti nella parte della casa del Marchese Lecaldano”.  Oltre a questa inusuale commistione, un’altra particolarità del Chiaja Hotel de Charme è che ogni stanza ha un nome proprio: nell’appartamento del Marchese ci sono, tra le altre,  la stanza “e don Nicola”, la stanza “e Zi Checchina”,  mentre nel vecchio casino, si trova quella intitolata a Anastasia ‘a Friulana, Mimì do’ Vesuvio, Dorina da Sorrento.  Questa struttura alberghiera al centro di Napoli è strettamente legata anche alla vita culturale della città, come ci dice il Direttore Pietro Fusella: “Un giorno di tanti ani fa, in una Napoli che ancora sonnecchiava, incontrai un amico, al quale chiesi: “Che vogliamo fare?”.  E così nacque l’idea di organizzare, nel mio albergo,  qualche incontro di poesia. Da allora non è mai venuto meno l’interesse per questa che è diventata una manifestazione patrocinata dal Comune di Napoli. Quest’anno abbiamo festeggiato i 10 anni di “Poetè”, questo il nome dell’evento, e da novembre ad aprile abbiamo un fitto calendario di eventi, tanto che alcune sere sono previste le presentazioni di due libri”.

Napoli è così: piena di storie da raccontare…

 

Alessandra Fiorilli