La nonna fu la più coraggiosa di tutte e tre… la mamma ed io potemmo capire dalla sua reazione in quali condizioni versavi. La borsa di pelle color cuoio, a bauletto e con i manici rigidi, le scivolò in terra, si portò le mani al viso e poi si coprì gli occhi mentre copiose lacrime le bagnarono le guance, scendendo sin sotto al mento.
Compresi, così, davanti a quella scena di profonda angoscia, che non ci sarebbe stata più vita da vivere con te accanto. Anche la mamma quando ti vide trattenne a stento le lacrime ed io… io ero ancora lì, dietro l’angolo, potevo scorgere la nonna e la mamma ma non te, non ti avrei voluto vedere in quel letto che non era il tuo, ma la mamma mi trascinò vicino a sé e così ti vidi anch’io.
Ti vidi anch’io…poi i tuoi occhi si spalancarono all’improvviso e con un gesto della mano tentasti di chiedere dell’acqua, limitandoti, però, ad indicare solo il bicchiere sul comodino: fu la mamma che esaudì la tua richiesta. Scusami nonno, ma non accettai l’idea che quella persona attaccata per un millimetro solo alla vita eri proprio tu, il mio consigliere, il mio maestro, la mia fonte di forza e di coraggio, la mia enciclopedia vivente, la mia stella polare, il mio vanto, il mio orgoglio, il geloso custode dell’immenso amore che ancora oggi nutro per te. Credo che la mia inaspettata reazione, quel mattino in ospedale, rimanga il mio peccato più grande. Dunque io stetti lì, in piedi, a debita distanza dal tuo letto e proprio nell’istante in cui la mamma si chinò su di te, l’infermiera ci pregò di uscire dal reparto.
La nonna ti baciò sulla guancia, la mamma strinse le tue mani tra le sue ed io non ti salutai neanche. Proprio mentre le nostre gambe ci stavano portando via da te, e noi eravamo seguite a ruota dall’infermiera, io ebbi un impeto di disprezzo verso me stessa e mi chiesi che cosa avessi fatto e pensato mai, quanto grande sarebbe stato il mio rimorso se tu fosti morto di lì a poco, senza un mio sorriso, un mio bacio, una mia stretta di mano, un mio abbraccio.
In cosa mi stava trasformando la sofferenza? Cosa mai significava quel senso di estraneità che provai davanti al tuo letto? Tu eri sempre tu, il mio grande nonno ed io ero sempre io, tua nipote, la tua bella bambina. Nulla avrebbe potuto spazzare via quei meravigliosi 28 anni trascorsi al tuo fianco. Ebbi l’impeto di girarmi, di invertire il mio percorso e di correre verso di te, per chiederti scusa per la mia vigliaccheria, per il mio egoismo, per abbracciarti e stringermi a te, ma non mi fu possibile perché la nostra presenza in quella corsia, a quell’ora, era incompatibile con il lavoro degli operatori sanitari.
Implorai di poter tornare da te, ma nessuno riuscì ad esaudire la mia richiesta.
Mi rimase solo una cosa da fare: recarmi in gran fretta nella cappella dell’ospedale, inginocchiarmi e pregare Dio affinché avessi un’altra opportunità, una sola, per poterti vedere il pomeriggio stesso e dirti che non era cambiato nulla, che né la malattia né la morte avrebbero potuto trasformare quel nostro rapporto così speciale in qualcosa di superficiale, di intercambiabile, di scontato.