Cibi congelati e surgelati: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista

Congelare e surgelare, nell’accezione comune, vengono talvolta erroneamente usati come sinonimi: è necessario fare chiarezza su queste due modalità di conservazione del cibo e sulle loro caratteristiche. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione: :” Procediamo con un primo distinguo: tra cibo congelato e cibo surgelato ci sono delle differenze e le più rilevanti riguardano le temperature e il tempo necessario per raggiungerle”.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (Foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Vediamole in dettaglio :”  Un alimento congelato raggiunge in media i -5/-15°C con tempi lunghi, i cristalli di acqua che si formano sono grandi e al momento dello scongelamento fanno perdere parte dei valori nutrizionali. Gli alimenti surgelati raggiungono, invece,  i -18°C rapidamente e i cristalli che si formano preservano l’alimento”.

Inoltre :” Il congelamento è tipicamente domestico, la surgelazione avviene solo a livello industriale”.

Il discorso sulla temperatura è di rilevante importanza: “ E’ sicuramente il parametro principale quando si parla di sicurezza alimentare. La formazione di cristalli di ghiaccio rende inaccessibile l’acqua ai microrganismi, impedendone la proliferazione. Bisogna sapere però che le basse temperature non uccidono i batteri ma li inattivano; questi, infatti,  rimarranno “ibernati” fino allo scongelamento”.

C’è una tendenza diffusa a congelare un alimento acquistato fresco e a congelarlo, ma in molti si chiedono se questa procedura possa in qualche modo alterare le qualità organolettiche e le proprietà nutritive: Il cibo nel congelatore indubbiamente  conserva vitamine e minerali meglio e più a lungo rispetto a quello che viene lasciato per giorni nel frigorifero, con il rischio, poi di doverlo gettarlo via.  C’è da aggiungere, però, come le tempistiche lunghe che consentono la formazione di cristalli di acqua di grandi dimensioni, possono rompere le cellule e modificare la struttura dell’alimento, alterandone le proprietà nutritive e organolettiche”.

C’è chi, per motivi di tempo, cuoce le verdure per congelarle e tirarle via dal freezer al momento del bisogno: Alcune tipologie di verdure come spinaci, bieta, fagiolini, broccoli, carote, asparagi, verza si prestano ad essere congelate dopo essere state sbollentate un paio di minuti e raffreddate”.

 In molti, però,  si chiedono se ad essere congelate possono esserlo anche le verdure fresche e persino la frutta: E’ necessario prestare attenzione  alla frutta e alla verdura che si sceglie: alimenti ricchi di acqua come lattuga, cetrioli, cipolla, ananas, cocomero, durante il congelamento andranno incontro a rottura delle pareti cellulari, perdendo, una volta scongelati, sapore e proprietà nutritive”.

Congelare in modo corretto significa anche controllare bene la data di scadenza del prodotto che si vuole mettere in freezer :” Secondo le Direttive europee, nonché del Ministero della Salute, carni in prossimità della scadenza non dovrebbero essere congelate  perché c’è il rischio che si sia verificata già la proliferazione batterica: quindi si congela un alimento già contaminato. Il modo migliore potrebbe essere cuocere gli alimenti e successivamente congelarli per ridurre al minimo la possibile contaminazione batterica.”

Importante anche porre attenzione alle dimensioni del cibo da congelare:” Preferire quelle piccole mentre il pesce :”Va sempre prima eviscerato”.

Importante anche la temperatura del cibo che si intende congelare: Gli alimenti possono essere congelati se freddi o a temperatura ambiente. Non si possono congelare alimenti ancora caldi, questo è deleterio sia per l’alimento che per il freezer. Un cibo introdotto caldo abbassa la temperatura del freezer e rischia di compromettere la conservabilità di tutto ciò che è congelato”.

Da osservare scrupolosamente il tempo massimo nel quale poter consumare i prodotti congelati in casa:” E’ buona norma  farlo entro 3 mesi dalla loro preparazione, anche se per alcuni si può arrivare fino a 1 anno”.

Pure il modo di confezionamento deve essere corretto: Se l’alimento non è confezionato ermeticamente, l’aria penetra al suo interno e ne favorisce la disidratazione. La superficie che è entrata in contatto con l’aria assume un colore grigiastro”.

Diverso il discorso per i cibi surgelati che acquistiamo al supermercato: “I prodotti surgelati, come specificato anche dal Ministero della Salute, sono “teoricamente” non deperibili, a patto che venga mantenuta la catena del freddo, quindi il prodotto può essere consumato anche oltre la data riportata sulla confezione (non supererei un paio di mesi), anche se possono esserci delle alterazioni a livello di sapore e/o consistenza”.

Di vitale importanza  rispettare la catena del freddo : Come sostiene anche il Ministero della Salute, è assolutamente sconsigliato ricongelare il cibo scongelato. E tale pratica è ammessa solo nel caso in cui il cibo, prima di essere ricongelato, sia stato cotto. Il motivo è che ricongelare il cibo scongelato farebbe proliferare i batteri, e la cottura, invece, ne bloccherebbe la crescita arrivando ad ucciderli.

Una curiosità sulle uova: Le uova intere con il guscio non possono essere congelate, perché il freddo lo farebbe esplodere, con un rischio   di contaminazione  molto elevato. È, pertanto,   necessario separare albume e tuorlo. L’albume può essere conservato tal quale e durare 3-5 mesi. I tuorli andranno sbattuti e si dovrà aggiungere 1-2g di zucchero per tuorlo se saranno utilizzate per un dolce, oppure di sale se serviranno per una preparazione  salata. Questo eviterà che il tuorlo diventi granuloso”.

                                             Alessandra Fiorilli

Sindrome dell’ovaio policistico: ne parliamo con la Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa

La sindrome dell’ovaio policistico, con un’incidenza tra il 10 e il 15%, è di tipo:  Endocrino- metabolica e presenta i seguenti elementi: caratteristiche ecografiche di ovaio micropolicistico, irregolarità mestruali ed eccesso di ormoni androgeni, ovvero maschili,  (proprio per questo motivo le donne che soffrono di tale sindrome possono soffrire di alopecia, quindi perdita di capelli nella parte centrale del capo),  acne,  irsutismo (ossia presenza di peluria in zone tipicamente maschili quali il volto, il collo, l’addome, la schiena). Tra questi, il sintomo che maggiormente preoccupa le donne, in quanto influisce sulla sfera della fertilità, è rappresentato dalle irregolarità mestruali causate da un difetto ovulatorio che può comportare cicli mestruali sporadici (oligoamenorrea) o assenti (amenorrea)”.

 A parlare è la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana, la quale ci tiene a sottolineare una differenza di fondamentale importanza: ”Si parla spesso di ovaio policistico, termine questo con il quale si indica un ovaio che, all’esame ecografico, appare con un numero aumentato di follicoli rispetto alla norma (oltre 12 per ovaio). Tali follicoli, con un diametro che va dai 2 agli 8 millimetri, sono tipicamente disposti a corona di rosario, quindi verso la superficie esterna delle ovaie, mentre la superficie interna dell’ovaio (stroma) rimane compatta. L’ovaio con tali caratteristiche non sempre si associa alla vera e propria “sindrome dell’ovaio policistico” (PCOS), condizione ben più complessa dal punto di vista clinico”.

La Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa (Foto per gentile concessione della Dottoressa Sagnella)

La definizione di “sindrome dell’ovaio policistico”: “ Fu introdotta nel 1935 dai dottori Stein e Leventhal ed è stata oggetto di studi per decenni; trattandosi, infatti, di una sindrome con caratteristiche eterogenee e non sempre coesistenti, è stato difficile trovare un accordo in ambito scientifico  per delinearne i criteri diagnostici. Oggi la definizione viene posta in base ai criteri proposti nel 2003 a Rotterdam, in base ai quali si parla di PCOS se coesistono almeno due dei tre elementi che la caratterizzano, ovvero: ovaie con aspetto policistico, iperandrogenismo clinico o biochimico, irregolarità mestruali). Proprio perché si tende a parlare di sindrome anche quando la donna presenta soltanto le caratteristiche ecografiche dell’ovaio policistico, la percentuale di chi ne è veramente affetta è sovrastimata. Un aspetto non meno importante della sindrome è rappresentato dall’ obesità centrale, anche se quest’ultimo non rientra, a rigor scientifico, negli elementi diagnostici. L’obesità centrale si associa ad un’alterazione del metabolismo glucidico ( insulinoresistenza/ iperinsulinemia) presente nel 70% circa delle pazienti con PCOS”.

Tale sindrome, come abbiamo già detto, si accompagna spesso a segni quali acne, alopecia, irsutismo e sovrappeso pertanto: “Può creare un disagio psicologico particolarmente forte nelle adolescenti”.

L’inquadramento corretto della donna affetta da tale sindrome: “Richiede l’esecuzione di esami sia metabolici che ormonali. Tra quelli metabolici è fondamentale la curva glicemica e insulinemica dopo carico glucidico, ovvero il test che va a misurare la concentrazione della glicemia e dell’insulina nel sangue, a seguito di un carico standard (75g) di glucosio. Il pancreas, infatti, in presenza di insulinoresistenza,  produce quantità eccessive di insulina che favorisce l’accumulo di grasso, responsabile di sovrappeso e obesità centrale, tipica degli uomini. La presenza di grasso viscerale, inoltre, rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare e si associa a livelli elevati di colesterolo e trigliceridi e, talvolta ad alterazioni del fegato (steatoepatite)”.

Alla luce di ciò: “La perdita di peso dell’8/10%,  coadiuvata da una regolare attività fisica unita alla dieta, può alleviare la sintomatologia, inducendo un miglioramento non soltanto metabolico, ma anche della funzionalità ovarica e pertanto della fertilità”.

Per tale sindrome: Non esiste una terapia unica e definitiva ma molteplici strategie terapeutiche per gestire i sintomi e le esigenze della paziente.  Mi spiego meglio. La ragazza che ha il ciclo irregolare e problemi di acne e/o irsutismo, ad esempio, può beneficiare di una terapia estroprogestinica specifica (pillola) per qualche anno; va però sottolineato che, una volta sospesa l’assunzione della pillola, nel giro di qualche mese i sintomi tendono a ripresentarsi. Talvolta, invece, invece, va gestito farmacologicamente il disordine metabolico, anche attraverso la prescrizione di farmaci per controllare l’insulinoresistenza. Nella donna desiderosa di prole, invece, possono essere di aiuto farmaci che inducano l’ovulazione, per superare il problema dell’infertilità. Ribadisco però che lo stile di vita sano, quindi una corretta alimentazione e un’adeguata attività fisica, rappresentano la terapia di prima linea per queste donne”.

Per chi soffre di tale sindrome la menopausa non significa la cessazione delle problematiche ad esse connesse:  Le donne con PCOS hanno un aumentato rischio di sviluppare un diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari ed endometriali (ispessimento della mucosa che riveste la cavità uterina  e rischio di tumori più elevato a causa proprio dell’iperplasia)”.

La sindrome dell’ovaio policistico è:  “Una malattia multifattoriale, esiste quindi una predisposizione a svilupparla ma intervengono, su questa, molteplici fattori ambientali”.

Ringrazio la Dottoressa Francesca Sagnella per la grande chiarezza che mostra nel parlare di temi comunque complessi.

E sempre la Dottoressa ci tiene a sottolineare come: Oltre all’ovaio policistico, esiste un quadro ecografico simile, ma clinicamente differente e meno complesso, che è  l’ovaio multifollicolare. Dal punto di vista funzionale rappresenta un ovaio per certi aspetti “immaturo”, che spesso si associa a irregolarità mestruali ma, a differenza del policistico, si caratterizza per un numero inferiore di follicoli che non hanno la tipica disposizione “a coroncina”. L’ovaio con aspetto multifollicolare è molto comune nelle adolescenti, ma lo si può  riscontrare anche in  donne adulte che praticano un’eccessiva attività fisica, che soffrono di anoressia nervosa o in periodi di forte stress”.

                                                 Alessandra Fiorilli

“Arezzo Città Del Natale” è pronta ad accogliere i turisti dal 18 Novembre. Parliamo di quest’evento con l’Assessore Simone Chierici.

8 anni fa la decisione di voler donare una rinascita ad Arezzo, la città toscana con gli affreschi di Pier della Francesca, il Crocifisso di Cimabue, la casa del Vasari.

 8 anni fa la prima edizione di quella che sarebbe diventato uno degli appuntamenti natalizi tra i più apprezzati nel panorama italiano durante le Festività, con il Mercatino Tirolese in Piazza Grande, il gioco di luci sui palazzi che si affacciano sulla stessa, il Parco cittadino “Prato” addobbato a festa.

Un particolare del gioco di luci sui palazzi di Piazza Grande (Foto di Lorenza Fiorilli)

8 anni di un appuntamento che ha rilanciato la città natale del Vasari, l’artefice del Palazzo degli Uffizi a Firenze, e l’ha resa simbolo del periodo più magico dell’anno.

8 anni fa la nascita di “Arezzo Città del Natale”.

La ruota panoramica installata nel parco comunale “Il Prato” (Foto di Lorenza Fiorilli)

Un appuntamento, questo, che ha subito il forzato stop solo nel dicembre 2020, l’anno della pandemia: “Siamo ripartiti subito l’anno successivo, con un po’ di timore a causa di tutto quello che avevamo vissuto. Invece l’edizione 2021, anche se più breve del solito, ha registrato un successo inaspettato. Mentre lo scorso anno, sino ad ora, è stato quello della consacrazione della rassegna” ci dice Simone Chierici, Assessore al Turismo nonché Presidente della Fondazione “Arezzo Intour”, ovvero “Il Braccio Operativo della città per quanto attiene al turismo, alla promozione della destinazione e agli appuntamenti che la città offre nel corso dell’anno, non solo a Natale”.

L’Assessore al Turismo del Comune di Arezzo, Simone Chierici (foto per gentile concessione dell’Assessore Simone Chierici)

Uno dei simboli di Arezzo, durante le festività più attese dell’anno, è il Mercatino Tirolese : “Un’iniziativa che fu proposta dall’Associazione Commercianti di Arezzo, che organizza e gestisce Piazza Grande in quel periodo, con il patrocinio del Comune. La prima edizione fu prodromica a ciò che poi è diventata “Arezzo città del Natale”; dal mercatino in Piazza Grande, con le tipiche casette in legno dove si potevano degustare specialità tirolesi o acquistare  prodotti tipici  del Tirolo si è passati poi alla rassegna odierna. Ancora oggi, il mercatino nella piazza principale e più pittoresca della città, è organizzato da Confcommercio”.

Dalla Fondazione Arezzo InTour sono invece gestite le attrazioni che animano “Il Prato”, ovvero il più grande parco cittadino che, dall’alto, domina la città: “Qui si trovano gli stand che offrono prodotti  enogastronomici e dell’artigianato prevalentemente locali”.

Sempre sul Prato si trovano installazioni a led che, dal tramonto, si sposano in un tripudio di luci, con la ruota panoramica:”Non solo una delle attrazioni più apprezzate, ma il simbolo della rassegna stessa. Il Prato, infatti è il punto più alto della città, quindi immaginiamo lo spettacolo che regala la ruota dai suoi circa 30 metri d’altezza, specie dall’imbrunire, quando si assiste al gioco di luci da quel punto di vista privilegiato”.

Un’organizzazione, quella di “Arezzo Città del Natale” che inizia appena si archivia l’edizione dell’anno in corso :” Si inizia a pianificare il tutto già nel mese di febbraio e in quello  di settembre ci si attiva per l’affitto delle casette al Prato, dove è sempre nostra intenzione offrire la qualità e la sapienza artigianale del nostro territorio.”

Oltre all’allestimento che si trova al Prato, un altro simbolo della città nel periodo natalizio è il mapping sui palazzi che si affacciano su Piazza Grande: “Quest’anno ci sarà una novità: il gioco di luci avverrà anche sul bosco della Fortezza che si affaccia proprio sul Prato”.  

Particolare del mapping sui palazzi che si affacciano su Piazza Grande (Foto di Lorenza Fiorilli)

Un programma vastissimo, quello dell’edizione 2023 che: Inizierà sabato 18 Novembre e terminerà il 7 Gennaio”.

Le attrazioni che animeranno le vie e le piazze della città del Vasari sono, come sempre: “In itinere, perché molto dipende anche dalle condizioni atmosferiche che nel tempo ci hanno costretto a modificare i programmi”

Con un pizzico di sano orgoglio aretino, l’Assessore Chierici ci tiene a sottolineare la presenza degli Sbandieratori della Città di Arezzo:” Le loro esibizioni lasciano sempre tutti a bocca aperta: non è un caso che siano considerati i più bravi di tutta Italia” e del Gruppo Musici della Giostra “Anch’essi particolarmente apprezzati nelle loro uscite in centro, sia dai turisti che dagli stessi aretini che si riconoscono nel suono delle loro chiarine”.

“Arezzo Città del Natale” si conferma essere un appuntamento al quale decine e decine di migliaia di persone non vogliono mancare:” Nell’edizione scorsa le strutture ricettive del Comune di Arezzo hanno registrato, nel periodo natalizio, circa 70000 presenze, alle quali si vanno ad aggiungere coloro i quali hanno trascorso nella nostra città solo una giornata e coloro che hanno soggiornato in camper. Quindi possiamo affermare, con approssimazione forse in difetto, che ad Arezzo nel periodo tra fine Novembre, Dicembre ed inizi di Gennaio siano arrivati circa 100000 persone.  L’edizione scorsa, quella del 2022, è andata ben oltre le più rosee aspettative. E’ una grande soddisfazione per tutta la città, per le istituzioni locali e per la Fondazione che presiedo.  Ma il successo di un’edizione ci fa alzare ancora di più l’asticella per quella dell’anno successivo”.

La soddisfazione più grande: ”E’ comunque quella di essere riusciti a far conoscere e a far apprezzare Arezzo  anche quando Natale è archiviato, con tutte le sue luci. Possiamo affermare che “Arezzo Città del Natale” è solo la ciliegina sulla torta se consideriamo un dato: nel 2022 le presenze complessive nelle strutture ricettive sono state circa 503000. Se a  questo lusinghiero dato andiamo a sottrarre le 70000 presenze del periodo natalizio, ebbene, più di 430000 persone hanno visitato la città durante i restanti mesi dell’anno. La gente sta tornando ad apprezzarla, con nostra grande gioia e soddisfazione”.

Un’immagine dell’edizione del 2022 che ha consacrato Arezzo “Città del Natale” (Foto di Lorenza Fiorilli)

Ad Arezzo, inoltre, si svolge, ogni prima domenica del mese e il sabato precedente, la “Fiera dell’Antiquariato” che solitamente si tiene in Piazza Grande ma che, nel periodo natalizio, si sposta in un’altra location:  “Anche quest’appuntamento, lo scorso anno, ha registrato il “tutto esaurito”   tra novembre ed i primi di gennaio”.

E così, dal 18 Novembre, Arezzo è pronta a cullare  i turisti con le sue luci, i suoi sapori, i suoi palazzi, le sue chiese, le sue piazze e  la sua storia tutta da scoprire.

                              Alessandra Fiorilli

Il Dottor Lino Cavedon, Psicologo e Psicoterapeuta, ci parla degli IAA, Interventi Assistiti con gli Animali , delle Linee Guida e del Centro di Referenza Nazionale

Intervistare il Dottor Lino Cavedon è un viaggio nella psicologia umana, in quelle ferite invisibili dell’animo che pochi riescono a scorgere, ma è anche un cammino che, attraverso un’intuizione, la passione per il proprio lavoro e conoscenze scientifiche, ha condotto agli IAA, gli Interventi Assistiti con gli Animali.

Laureato in Psicologia clinica presso l’Università degli Studi di Padova, specializzato in Psicoterapia, il Dottor Lino Cavedon, dopo esperienze lavorative che lo hanno visto ricoprire ruoli di Responsabile in Consultori familiari, nonché di consulente nel campo della procreazione medico-assistita, ha contribuito alla stesura delle Linee Guida Nazionali per gli Interventi Assistiti con gli Animali.

Il Dottor Lino Cavedon con Shana (Foto per gentile concessione del Dottor Lino Cavedon)

La storia professionale del Dottor Lino Cavedon, Psicologo affascinato dal ruolo dell’animale in campo terapeutico, è un viaggio emozionante ed emozionale che inizia da lontano :” La moderna pet-therapy è nata nel 1953 da una grande intuizione del neuropsichiatra infantile Boris Levinson che aveva in cura un ragazzino di 9 anni affetto da autismo con il quale non riusciva a stabilire nessun tipo di rapporto. Casualmente, un giorno il bambino incontrò Jingles, il cane che il Dottor Levinson aveva adottato un po’ di tempo prima e fu così che potette constatare come, per la prima volta, il piccolo paziente  fosse riuscito a stabilire uno scambio affettivo intenso e coinvolgente”.

Percorriamo ora, grazie al Dottor Cavedon il cammino che lo ha condotto alla stesura delle Linee Guida IAA: “ Ho svolto, per molti anni, attività di Psicologo in Consultori Familiari e nel Servizio Tutela Minori, nel quale ci si occupa di bambini o adolescenti che hanno subito maltrattamenti o abusi. Un giorno ebbi a che fare proprio con il trauma di una bambina abusata dal proprio padre.   quindi dalla figura protettiva che avrebbe dovuto, invece, proteggerla. Ebbene, in questa situazione ho pensato di ricorrere all’aiuto del cane: ho immaginato che una bambina con un tale trauma  si potesse abbandonare all’abbraccio del cane, creando il ponte con la propria affettività ferita.”

Dopo questa intuizione:” Decisi di intraprendere, insieme ad un gruppo di professionisti dell’Unità socio-sanitaria dell’Alto Vicentino, nel 2006, una sperimentazione nel campo della pet-therapy, creando un’equipe da me diretta con il sostegno del Direttore, il quale mi chiese di portargli in visione, dopo 6 mesi, i risultati che avremmo ottenuto”.

I risultati non solo arrivarono, ma nel 2009 :” Grazie all’allora  Sottosegretario di Stato al Ministero della Salute, fu istituito il Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali, il primo in Europa”.

Il Dottor Lino Cavedon, in qualità di membro del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali , ricoprendone il ruolo di Direttore, non si è fermato, ma ha deciso di proseguire lungo la strada già lastricata di successi, decidendo, così, di stendere le Linee Guida Nazionali degli IAA :” Tali Linee Guida rappresentano la legittimazione e il riconoscimento delle aspirazioni di quanti credono nel valore pregnante della relazione con l’animale domestico. Nel campo degli IAA devono operare professionisti validi, adeguatamente formati che credono nel lavoro d’equipe”.

Approvate nel marzo 2015 in Conferenza Stato Regioni: “Sono state recepite da tutte le Regioni e dalle Province Autonome Italiane”.

Gli animali scelti: “Devono garantire requisiti di idoneità, occorre, pertanto che anche essi siano adeguatamente preparati, monitorati, rispettati nei loro vissuti e nelle loro predisposizioni relazionali. Accanto a un animale valido ci deve essere un coadiutore che sappia muoversi in seduta con delicatezza ed incisività, perché negli IAA l’animale è risorsa innovativa, che offre pertanto un plusvalore non presente in altre discipline”.

Sempre le Linee Guida nazionali contemplano gli ambiti di attuazione degli IAA: “Nella scuola il coniglio, il gatto e il cane sono i più idonei. Per quanto attiene invece alle strutture ospedaliere, alcuni regioni italiane hanno approvato norme che autorizzano la visita al paziente ricoverato da parte del suo animale, in modo particolare il cane . E’ una legge che riconosce il valore dell’attaccamento reciproco persona-animale e viceversa: infatti il distacco, specie se prolungato, produce l’effetto lutto. Anche i pazienti più piccoli, specie quelli ricoverati nei reparti oncologici, apprezzano la presenza dell’animale”.

Nella Residenze per Anziani, invece: “La proposta dell’incontro con l’animale domestico risulta essere particolarmente emozionante: anche sguardi persi nel vuoto vengono catturati non appena si entra con l’animale nello spazio abitativo dell’anziano. Risulta gesto frequente l’allungare il braccio per toccare il cane, per accarezzarlo e così il viso si riattiva, diventa vivo, luminoso”.

Nelle comunità di recupero per tossicodipendenti “E’ stato avviato l’allevamento dei cavalli da corsa e dei cani dei quali i giovani in fase di recupero apprendono la gestione e la cura”.

L’animale domestico: “  Diventa partner di confidenze e compensazioni anche nelle Case Famiglia per minori allontanati e nelle carceri”.

Il mondo della disabilità raccoglie esperienze significative: “L’animale si offre nella relazione al fine di realizzare un risveglio di pensieri, sensazioni ed emozioni utili ed efficaci. Il piccolo animale e il cane si prestano a un contatto quasi simbiotico con evocazioni forti riguardanti la sfera affettiva, mentre l’asino è dolce, cerca il contatto, incentiva la conoscenza, e il cavallo, specie di taglia media, offre l’opportunità di un contatto intenso con le proprie emozioni”.

Gli animali che vengono privilegiati negli IAA sono:  Il cane, il coniglio, l’asino, il cavallo, il gatto e mai in condizioni di cattività e in essi “Ciascuno trova qualcosa di sé, c’è una mediazione con il proprio mondo interiore”.

Il Dottor Lino Cavedon ha parlato degli Interventi Assistiti con l’Animale  nel libro omonimo, un manuale introduttivo pubblicato da Erickson nella Collana Editoriale dedicata agli IAA da lui diretta: Sino a 15 anni fa non esisteva una letteratura in questo settore, oggi contiamo circa 30 libri. La collana accoglierà esperienze rivolte alle persone con finalità educative formative, ricerche dedicate agli animali e alla loro formazione, nonché storie di pazienti che hanno beneficiato della relazione con gli animali”.

Vi ho  raccontato l’emozionate ed emozionale  viaggio “in itinere”  del Dottor  Lino Cavedon.

                                       Alessandra Fiorilli

Il pane…semplicemente. Parliamo di quest’elemento principe della dieta mediterranea con il Professor Rolando Alessio Bolognino.

Celebrato nelle poesie, protagonista di molti detti e proverbi popolari,  è sinonimo di lavoro, di fatica, ma anche di casa e di convivialità. E se alcune testimonianze fanno risalire la sua prima comparsa persino alla preistoria, quando gli uomini macinavano ghiande commestibili cuocendole su rocce roventi, sono stati  gli antichi Egizi,  intorno al 3500 a.C. , ad aver messo a punto  la lievitazione naturale. E sempre loro, consapevoli della grande importanza del pane, cominciarono a usarlo persino come mezzo di pagamento. I Greci lo preparavano usando anche spezie e miele, mentre i Romani riempirono la loro città di centinaia e centinaia di forni dove veniva impastato e cotto.

Il pane, a partire dagli anni ’80,  è stato più volte additato come il nemico uno della forma fisica, reo di far accumulare chili di troppo. Facciamo la necessaria chiarezza grazie al Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione: “ Il pane, grazie ai carboidrati che contiene, rappresenta una fonte di energia e, unitamente alle fibre, proteine, vitamine non riesce, da solo, ma soprattutto nelle giuste quantità , a far aumentare di peso”.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Sfatiamo anche un altro mito: il pane fa ingrassare, contrariamente ai prodotti industriali come cracker, grissini e gallette: A parità di peso questi alimenti contengono molte più calorie del pane, ma grazie al più basso contenuto di acqua, hanno nutrienti più concentrati. Inoltre, per renderli gradevoli, vengono aggiunti zuccheri e grassi che, invece, non si trovano nel pane”.

Mentre le gallette :” Sempre a  parità di peso presentano un valore energetico molto vicino a quello del pane, ma avendo un indice glicemico più alto, non sono raccomandate per tutti. Se vogliamo, però, consumarle, dovremmo preferire quelle con meno sale e più fibra”.

Anche il pangrattato, un derivato del pane molto usato nella cucina italiana, è meglio artigianale piuttosto che industriale :” Il pangrattato è semplicemente il risultato della macinazione di pane raffermo che viene sottoposto anche a tostatura prima del confezionamento. Se invece leggiamo l’etichetta di quello industriale possiamo notare come ci siano, tra gli ingredienti, anche olii vegetali e sale. E ricordiamoci che possiamo prepararlo anche noi a casa, macinando il pane raffermo.  Anche in questo caso dobbiamo prestare attenzione alla quantità”.

Quando si parla di pane è necessario, però, fare un distinguo tra i vari tipi che troviamo in commercio: ”Se associamo la parola pane a quella di benessere e salute, dobbiamo porre l’accento sulla necessità che si parli sempre e comunque di un prodotto di buona qualità: infatti possiamo affermare che se è preparato con farine di tipo integrale o ai multicereali, diventa persino un valido alleato per perdere peso e per contrastare diverse patologie”.

Differenti tipi di pane e differenti quantità di calorie :”Il pane bianco per 100 grammi apporta circa 265 calorie e fornisce 3,2 g di grassi, 49 g di carboidrati, 9 g di proteine, 30g di acqua, 491 mg di sodio, 115 mg di potassio, 2,7 g di fibra alimentare, 260 mg di calcio e percentuali più o meno consistenti di vitamina A e B6. Nel pane integrale, che presenta maggiore quantità di fibra alimentare e sali minerali, troviamo una minore quantità di grassi e le calorie sono inferiori”.

La quantità ideale  di pane da consumare risente di molti parametri :”Partiamo dal dire che l’apporto calorico giornaliero dovrebbe provenire tra il 45 e il 60% dai carboidrati. Dobbiamo però considerare lo stile di vita, l’attività fisica giornaliera, le patologie pregresse. I LARN raccomandano una porzione media di 50 grammi di pane, tenendo però presente che un soggetto in salute che pratica esercizio fisico quotidiano potrà consumarne di più, mentre un soggetto sedentario avrà bisogno di un quantitativo minore. E’ comunque buona regola evitare nello stesso pasto di consumare il pane con altri carboidrati per evitare i picchi glicemici”.

Mentre per i soggetti diabetici :” Sarebbe consigliabile il consumo di prodotti integrali, perché la fibra contenuta in tali alimenti rallenta l’assorbimento del glucosio, quindi i livelli di glicemia si alzano meno rapidamente. Ma se proprio non si vuole rinunciare al pane bianco, è necessario limitarne la quantità”.

Una curiosità sul pane raffermo :” E’ caratterizzato dalla presenza di una particolare forma di amido resistente, l’amido retrogrado, che si forma in quegli alimenti i quali,  una volta cotti, sono lasciati raffreddare. L’amido retrogrado non è facilmente attaccabile dagli enzimi digestivi, quindi non si avrà assorbimento di glucosio, e non si osserverà, di conseguenza, un aumento elevato della glicemia”.

 Coloro che soffrono invece di colon irritabile “: Dovrebbero evitare di consumare il pane integrale perché, contenendo più fibre, queste, dopo essere state fermentate dal microbiota intestinale, causano    gonfiore addominale e alterazioni nella consistenza e frequenza dell’alvo”.

Nonostante negli ultimi anni ci sia  stato un maggiore interesse verso altre tipologie di pane, che non sia il classico bianco od integrale, sono molte le farine, con proprie caratteristiche, a darci un prodotto che, da solo, è in grado di soddisfare stomaco e palato: “ A fare la differenza è la tipologia di grano usato. Tra i più noti spiccano il grano tenero, il cui nome scientifico è Triticum Aestivum  e il grano duro, Triticum durum. Il più usato nel campo della panificazione è il primo che, raffinato, dà vita alle farine di tipo 00, la 0, la 1, la 2 e l’integrale, in base alla quantità di fibra che rimane. Il grano duro serve per l’ottenimento della semola che, oltre ad essere ampiamente usata per la produzione della pasta, è anche l’ingrediente principe del famoso pane di Altamura. La farina di segale, che dà vita all’omonimo pane, scuro e con crosta più doppia, presenta  un contenuto di glutine leggermente inferiore rispetto alla farina di frumento, con una maggiore quantità  di sostanze minerali e fibre. Molto aromatica e con sentori di nocciola è la farina di farro, con un alto contenuto di glutine e con una maggiore quantità di proteine e minerali rispetto a quella di frumento”.

Il grano saraceno, invece :”Oltre a rientrare nella categoria dei grani pregiati, ha anche una bassissima concentrazione di glutine che ne aumenta la digeribilità, mentre il basso indice glicemico permette di tenere sotto controllo i livelli di insulina”.

Mentre i grani antichi :” Contengono percentuali di glutine inferiori a quelle dei grani moderni, risultano più digeribili ma l’impasto è meno elastico”.

Negli ultimi tempi si trovano altri tipi di pane, quali quelli di mais o di riso: “ Questi cereali  sono privi di glutine,  quindi  consigliati a chi non può consumarlo, come i celiaci. Ma proprio perché non  contengono glutine, queste farine  non sono particolarmente adatte alla lievitazione, per la bassa forza che hanno, quindi si otterranno dei prodotti che avranno delle caratteristiche organolettiche differenti rispetto al pane tradizionale, oltre anche a delle differenze nutrizionali”.

Sempre di recente e sempre più frequentemente si sente parlare di pane con lievito madre :” Il lievito madre presenta un numero maggiore di microrganismi che digeriscono un numero superiore di varietà di componenti della farina. Si chiama anche pasta acida perché crea un ambiente che favorisce la fermentazione lattica con produzione di acido lattico, conferendo un sapore caratteristico ai panificati che risultano anche  più facilmente digeribili

Mentre il tradizionale lievito di birra :” E’ caratterizzato da colonie di un fungo microscopico (Saccaromyves Cerevisiae), che vengono allevate e pressate allo stato fresco nei tipici panetti morbidi, ricchi fino al 70 per cento di umidità. Questi lieviti attivano la fermentazione alcolica una volta inseriti nell’impasto”

I lieviti chimici invece: “ Sono composti da una miscela di bicarbonato di sodio e acido tartarico, che rende i dolci soffici e porosi in un tempo brevissimo”. 

C’è un aspetto della farina del quale non sempre ne se parla, ma che è utile sapere perché ci aiuta a scegliere quella migliore per l’uso a cui è destinata :” La capacità di assorbire acqua e trattenere l’anidride carbonica che viene a formarsi durante le varie fasi della lavorazione, prende il nome di “forza della farina”. E tale caratteristica fa sì che più una farina è forte, più riesce a tenere bene la lievitazione. Pertanto le farine forti, ovvero quelle che hanno un indicatore di forza tra 320 e 260 W sono indicate per pane e pizza, quelle tra 250-190 W per la pasticceria mentre con un indicatore 180-190 sono le migliori per la preparazione di pasta frolla e biscotti”.

Di qualsiasi tipo esso sia, il pane rimane il principe della tavola, specie di quella mediterranea e recarsi dal fornaio tutti i giorni è anche un piacere, ma se non si ha questa possibilità e lo si acquista per tutta la settimana, ecco come conservarlo al meglio :” E’ necessario riporlo in un sacchetto di carta al fine di conservare meglio l’umidità, ancora meglio sarebbe riporlo in un’ulteriore sacchetto per alimenti di plastica, cosi da limitare l’evaporazione”

C’è chi, invece, acquistandolo in grandi quantità, preferisce congelarlo: “ Con il congelamento sicuramente aumenta il tempo di conservazione, ma andiamo ad alterare le caratteristiche organolettiche del pane, una volta scongelato la sua gradevolezza al gusto potrebbe essere modificata”.

Se, nonostante tutte le accortezze per conservarlo nel migliore de modi, dovessimo accorgersi della presenza di muffa :“ E’ buona norma non eliminare soltanto la parte ammuffita, ma gettare l’intero alimento, questo perché, anche se non visibile, la muffa potrebbe essere penetrata anche all’interno”.

                                       Alessandra Fiorilli

Merano si prepara a celebrare le sue tradizioni e il suo territorio con la “Traubenfest”, la “Festa dell’Uva”

Adagiata all’incrocio fra Val Passiria e Val Venosta, abbracciata dalle cime del Sud Tirolo, coccolata da un clima mite, Merano è stata, sin dal 1800, meta di una villeggiatura che apprezzava questo perfetto connubio tra l’ambiente montano e le temperature mediterranee.

Molti gli illustri ospiti della città che, vantando un’aria pulita e cristallina, sorge a 325 metri di altitudine: dall’imperatrice Sissi, la quale strinse con la città un legame d’amore profondo, allo scrittore Franz Kafka.

Gli ospiti che nel 1800 arrivavano dal Nord Europa trovavano a Merano un clima gradevole, anche durante la stagione invernale, il dolce fragore del fiume Passirio e le sue Terme, che ancora oggi sono l’emblema di una città a forte vocazione turistica.

Proprio sul finire del XIX secolo, precisamente nel 1886, il meranese Carl Wolf, Scrittore Autore e Regista Teatrale, ideò la “Festa dell’Uva”: “Non si conosce il motivo preciso di questa scelta. Possiamo presumere, però, che la decisione di Wolf fu dettata dal fatto che la stagione prettamente turistica finisse proprio nella seconda metà del mese di ottobre. Pertanto, per concludere degnamente tale periodo, pensò di organizzare una festa per celebrarlo e per onorare i frutti autunnali del territorio, quali le mele e l’uva”, ci dice Evi Kobald, responsabile di quest’appuntamento annuale così carico di valori simbolici per la città.

Particolare del Carro della Corona di Mele. (Per gentile concessione dell’Azienza di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

“Sin dal secolo XIX, le città a vocazione turistica come Merano, accoglievano i propri villeggianti dal periodo pasquale fino alla prima decade di ottobre che era, per questo motivo, considerato dai meranesi il culmine di quel periodo dell’anno chiamato “l’autunno d’oro”, per la ricchezza dei frutti che la terra donava”.

Un momento della sfilata (Per gentile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/Karhleinz Sollbauer)

Nonostante ormai Merano offra ai suoi turisti appuntamenti anche durante l’autunno inoltrato e l’inverno come: “Il WineFestival a Novembre e i mercatini di Natale che si snodano lungo il Passirio”, la Festa dell’Uva rimane un momento importante, non solo per la città di Merano, ma anche per le centinaia di migliaia di turisti che ogni anno rimangono incantati dalla sfilata.

Anche quest’anno, sabato 14 e domenica 15 ottobre, la città prediletta dalla Principessa Sissi, è pronta ad onorare, con questa festa, le sue più antiche tradizioni e quei prodotti che l’hanno resa famosa.

Quest’anno la due giorni di cultura, gastronomia e artigianato locale, si arricchirà di una novità: “Ospiteremo il 75° Anniversario dell’Associazione delle Bande musicali dell’Alto Adige che hanno già festeggiato queste “nozze di brillante” a Bolzano, lo scorso mese di maggio. A Merano si esibiranno le bande giovanili, nella mattina di domenica 15 ottobre, nelle tre piazze: Terrazza Kurhaus, Piazza Terme e Via Cassa di Risparmio. La città è lieta di accogliere questi giovani e ci piace pensare che, essendo loro il nostro futuro, saranno proprio loro i continuatori, negli anni a venire, delle tradizioni locali e dei valori”.

Le bande musicali che sfilano lungo il corteo: “Arrivano principalmente dall’Alto Adige e ricevono, ad inizio anno, la comunicazione e l’invito, mentre per la altre bande dal resto d’Italia, che chiedono di prendere parte all’evento, è prevista una valutazione della commissione incaricata la quale valuterà i costumi e il numero dei componenti: il gruppo deve essere di almeno 35-40 persone”.

Un particolare degli abiti di alcuni partecipanti (Per gentiile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

La Festa dell’Uva, che riempirà anche quest’anno le vie e le piazze di Merano con le sue musiche, gli abiti tradizionali, i cavalli, l’uva, le mele, richiede un grande impegno: Ad inizio anno si comincia a predisporre un calendario di massima, ma è dal mese di luglio che i lavori entrano nel vivo, grazie alla collaborazione tra le varie istituzioni e l’Azienda di Soggiorno della città”.

La passione e l’orgoglio della propria terra è tangibile durante tutta la sfilata del corteo che, lo scorso anno, ha richiamato: Circa 30000 turisti”.

Il momento culminante della festa è la sfilata dei due carri maggiormente rappresentativi: “Il carro della Corona di Mele fu realizzato per la prima volta nel 1949 ed è il più antico della Festa dell’Uva. E’conosciuto anche come il carro di Marlengo perché è proprio da questo paese situato su un pendio ad ovest di Merano, che arrivano le mele protagoniste assolute di questo carro dalle grandi dimensioni: lungo 5 metri e largo 2,20 metri, ha un peso di 2,3 tonnellate delle quali 500 chili sono dovuti proprio alle mele. A trainare il carro ci sono 4 cavalli guidati da persone esperte le quali devono aver conseguito un apposito patentino”.

Il secondo carro, presente alla sfilata dal 1951, è quello: “Dell’uva gigante, il Kundschafter, che arriva da Lagundo, paese ricco di vigneti e che si trova alle porte di Merano. E’ alto 4,5 metri, largo 1.60 e pesa circa mezza tonnellata. Il solo grappolo misura un metro e mezzo di altezza”.

Particolare del Carro dell’Uva (Per gentile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

E se lo scorso anno: “Sono stati 45 gli elementi del corteo, quest’anno saranno ben 75”.  

La storica sfilata che, partendo da Porta Venosta, sfilerà per via delle Corse, corso Libertà Superiore, Passeggiata Lungo Passirio, Ponte Teatro, Piazza Terme e via Garibaldi, sarà solo il momento conclusivo di una due giorni di festa che avrà inizio sabato 14 ottobre, quando Merano accoglierà i turisti con mostre fotografiche e mercatini meranesi con prodotti alimentari regionali e artigianato locale.

Le tradizioni sono quel legame che uniscono, in unico nodo d’amore per il proprio territorio, il passato al futuro, passando per un presente che vuole celebrare le radici e gli antichi valori: è quello che accadrà a Merano sabato 14 e domenica 15 ottobre.

                                              Alessandra Fiorilli

Ode all’uva: come e quando consumarla per sfruttarne le sue proprietà. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

I Fenici la portarono, dalle loro terre, in Grecia e, a loro volta, gli Ellenici, dopo aver colonizzato l’Italia meridionale, fecero conoscere agli abitanti della nostra penisola la sua coltivazione che venne poi continuata dagli Etruschi, prima, e dai Romani poi.

Stiamo parlando della vite, pianta, questa, che è legata a doppio filo con la storia dell’umanità, dato che le prime testimonianze parlano della presenza della vitis vinifera in Cina circa 7000 anni fa.

Alcuni retrodatano la sua prima apparizione nel lontano Neolitico, quando gli uomini scoprirono che dalla fermentazione del frutto della vite si poteva produrre una bevanda.

Molteplici i significati simbolici dell’uva: abbondanza, ricchezza, fertilità.

I grappoli sono stati immortalati anche in molti dipinti: il grande Caravaggio li scelse, più volte, come protagonisti delle sue opere, come nel “Canestra di frutta”,  mentre Monet  li dipinse nella “Natura morta con mele e uva” all’interno del quale il cesto è strabordante di grappoli rotondi, perfetti, dorati ed invitanti.

Ma l’uva, simbolo dell’autunno, è anche un frutto dalle mille proprietà, come afferma il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.  

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

    
Conosciamola più da vicino attraverso la sua “carta d’identità”, grazie alla quale la apprezzeremo non solo come un frutto dolce e gustoso: “Contiene acqua, zuccheri, fibre, sali minerali quali potassio, ferro, fosforo, calcio, manganese, magnesio, iodio, silicio, cloro, vitamine A, B, C, K e polifenoli. 100 g di uva apportano 61 kcal (una mela o un kiwi ne hanno circa 50 kcal), gli zuccheri, con 15,6 su 100 grammi, sono la voce più consistente, seguita da proteine, 0,5 g/100, e grassi, 0,1g/100. Una porzione da portata equivale a circa 150 grammi e dato che, come abbiamo visto, contiene molti zuccheri, chi è diabetico dovrebbe consumarla con moderazione, soprattutto dovrebbe prediligerne il consumo a colazione o come spuntino. Per tutti gli altri, il consiglio è di mangiarla di giorno e lontano dai pasti. Per chi invece non riesce a rinunciare al “dolcetto” dopo cena, diciamo che l’uva è una scelta molto più salutare”.

Dagli acini  arriva un grande aiuto contro: Astenia, fragilità del sistema nervoso e di quello osseo, stipsi, malattie della pelle”.

Non sono pochi coloro i quali, complice la bontà di tale frutto, decidono di seguire la cosiddetta “dieta dell’uva”  che, in gergo tecnico, prende il nome di Ampeloterapia, la quale permette di purificare intestino e fegato grazie alla presenza di acqua, fibre, sali minerali e vitamine”.

 Tale dieta, però, come tante altre, non contempla il “fai da te”, non essendo “Una dieta sana e bilanciata. Richiede infatti, l’intervento di un professionista che indicherà al paziente le modalità da seguire, ovvero 200 grammi di uva preferibilmente nera, per 5 volte al giorno, per un massimo di 2 giorni consecutivi a settimana”.

Sempre il professionista potrà sconsigliarla in presenza di patologie quali :” Ulcera, colon irritabile, ipertensione, diabete e disfunzioni renali”.

 A rendere l’uva una preziosa alleata per la nostra salute sono molte sostanze, tra queste: “Il resveratrolo, una molecola ad azione antiossidante e  la quercetina,  un flavonoide che rappresenta una straordinaria fonte di energia, e proprio questa sua caratteristica la rende ottimale per fornire sostegno durante lo svolgimento dell’attività sportiva o anche  in caso di spossatezza fisica”.

Recenti studi hanno persino evidenziato come: ”L’uva possa avere un importante ruolo nella regolazione sonno- veglia grazie alla  la presenza di melatonina, ormone che  la nostra ghiandola pineale produce proprio durante il sonno”.

Non solo, ma questo delizioso frutto autunnale è prezioso anche per aumentare: “ Il senso di rilassamento e di piacere, grazie all’elevato contenuto di zuccheri semplici,  che consente di stimolare il sistema limbico del piacere, inducendo la produzione di betaendorfine”.

Ovviamente, nonostante le tante qualità dell’uva, può esserne sconsigliato il consumo: “E’ controindicata in persone affette da calcoli renali, gastroenterocoliti, ulcera gastro-duodenale, diverticoliti e diverticolosi”.

L’uva sembra avere benefici effetti anche sul cervello: “ In uno studio di 12 settimane su 111 anziani sani, 250 mg al giorno di un integratore a base di questo frutto hanno migliorato significativamente i punteggi in un test cognitivo che misurava attenzione, memoria e linguaggio rispetto ai valori di base”.

I deliziosi grappoli:” Contengono polifenoli i quali sono in grado di modulare positivamente la componente batterica aumentando il numero di Lactobacillus e Bifidobacterium e pertanto hanno un effetto anche sul microbiota intestinale.”.

Ode all’uva, dunque, della quale non si butta via niente, neanche i semi: “ Alla maggior parte delle persone, ovviamente, non piacciono per via del loro gusto amarognolo, eppure, a meno di condizioni particolari, non andrebbero eliminati, ma masticati con cura, ricchissimi, come sono, di acidi grassi a catena corta e di vitamina B6”.

                                            Alessandra Fiorilli

Iperomocisteinemia : cause, effetti sulla salute, correlazione con altre patologie. Ne parliamo con il Professor Paolo Calabro’,  Cardiologo tra le eccellenze della Medicina.

Le analisi del sangue che solitamente si fanno di routine, non sempre contemplano anche la voce omocisteina, come ci conferma   il Professor Paolo Calabrò, direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria e direttore del Dipartimento Cardio-vascolare dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, Professore Ordinario della Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” :” Il dosaggio dell’omocisteina plasmatica non è un esame che va eseguito di routine, né “a tappeto” come test di screening, ma va effettuato su precisa indicazione medica”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione del Professor Paolo Calabrò)

A conferma di ciò, dobbiamo aggiungere come:  “ Non tutti coloro che presentano valori superiori alla norma ne sono a conoscenza:  alcuni lo scoprono per caso, facendo esami ematochimici eseguiti in pieno benessere, altri nell’ambito di approfondimenti diagnostici a seguito di patologie cardio- e cerebro-vascolari”.

Vediamo di conoscere più da vicino l’omocisteina: “E’ un aminoacido essenziale che si forma a partire dalla metionina, e viene introdotto nell’organismo con l’alimentazione, principalmente attraverso il consumo di carne, uova, latte e legumi. L’omocisteina è un prodotto di scarto che di norma viene trasformato in sostanze utili per l’organismo, grazie all’azione di specifici enzimi e di alcune vitamine presenti nel sangue, in particolare le vitamine B6 e B12 e l’acido folico”.

Anche laddove si dovessero riscontrare alti livelli di omocisteina:  “  L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera normali valori ematici di omocisteina, ottenuti dal semplice prelievo venoso, fino a 13 µmol/L”, c’è un atteggiamento che va evitato:  “ Avere elevati livelli di omocisteina, infatti,  non vuol dire essere “malati” tout court. L’iperomocisteinemia può essere causata da numerose condizioni, patologiche e non, per cui è cruciale affidarsi al parere del cardiologo per una valutazione più approfondita”

Nel caso in cui le concentrazioni plasmatiche superino i valori di  normalità, si parla di iperomocisteinemia :” Una condizione, questa, molto comune, tanto che si stima come il il 5-7% della popolazione generale presenti valori superiori alla norma”.

L’aumento dei valori di omocisteina possono essere legati sia:” Alla componente genetica che  può giocare un ruolo importante, sia lo stile di vita, oltre ad eventuali ed eventuali comorbilità

Le cause dell’iperomocisteinemia sono legate:”  Più spesso dalla sinergia di molteplici fattori, alcuni di questi non modificabili come la predisposizione genetica, il sesso e l’età, altri difficilmente modificabili o non modificabili, come gli stati patologici cronici e le terapie farmacologiche. I principali determinanti sono: carenza, principalmente alimentare, di vitamine del gruppo B quali B6, B12 e acido folico, stili di vita non salutari come inattività fisica, fumo, stress, abuso di caffè o alcol, deficit enzimatici ovvero difetti genici degli enzimi MTHF reduttasi ed MS),  età avanzata, condizioni patologiche (insufficienza renale), farmaci  quali ciclosporina A o metotressato.”

Come per tutti i valori elevati, anche un eccesso di omocisteina piò causare danni:L’eccesso di omocisteina comporta l’accumulo di sottoprodotti di scarto che alimentano processi infiammatori e stress ossidativo dell’intero organismo, causando squilibri nel sistema cardiovascolare e non solo (anche neurologico ed endocrino). Alcuni studi hanno dimostrato l’associazione tra l’iperomocisteinemia ed un aumentato rischio di aterosclerosi e di malattie cardio-vascolari. Tale associazione è sostanzialmente legata alla compromissione della funzione endoteliale, dell’aumento della proliferazione delle cellule muscolari lisce della parete vascolare, e dell’interferenza con la funzione piastrinica. Inoltre, l’iperomocisteinemia sembra essere un fattore di rischio per patologie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer, oltre che una spia di fragilità ossea ed osteoporosi.


L’iperomocisteinemia è spesso correlata ad altre patologie:
Quelle che più frequentemente determinano un aumento dei valori plasmatici di omocisteina comprendono l’insufficienza renale, l’obesità, l’ipotiroidismo, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia. Anche l’utilizzo di alcuni farmaci ne può aumentare i livelli, tra cui la ciclosporina A, il metotrexate, la carbamazepina e la fenitoina.
I maggiori rischi, legati ad alti livelli di omocisteina nel sangue,:” Possono essere correlati ad una maggiore probabilità di incorrere nello sviluppo di malattie cardiache e vascolari, come l’aterosclerosi, l’ictus e l’infarto del miocardio. Anche se il contributo dell’omocisteina nell’ambito di queste patologie acute sia ancora da chiarire, l’iperomocisteinemia rimane comunque una condizione da attenzionare ed approfondire soprattutto nell’ambito di una visita cardiologica”.

Chiediamo al Professor Calabrò se, anche nel caso di iperomocisteinemia, ci sia  una dieta da seguire per tenerla sotto controllo:
” È raccomandata una dieta varia che preveda abbondanti quantità di frutta, verdura, legumi, cereali integrali, e che garantisca l’adeguato fabbisogno di vitamine del gruppo B e di folati. Bisognerebbe inoltre prediligere cibi crudi, quando possibile, oppure cotti a vapore o a basse temperature, per evitare che i tempi di cottura prolungati o l’abbondante quantità di acqua causino la dispersione di questi micronutrienti. È bene inoltre limitare il consumo di caffè e di alcol.

Vediamo quando è raccomandabile assumere farmaci:”In presenza di concentrazioni molto elevate di omocisteina, oppure nei casi in cui una dieta varia ed uno stile di vita sano non siano sufficienti a riportare i livelli di omocisteina alla normalità, si può ricorrere ad una supplementazione di acido folico, vitamina B6 o B12. Questi sono disponibili sia in forma di integratori alimentari che di vere e proprie formulazioni farmacologiche (ne sono esempi il calcio mefolinato, la folina, la cianocobalamina, la piridossina, e la betaina) che possono essere assunte, in alcuni casi specifici, anche per via endovenosa o intramuscolare. La loro efficacia nel ridurre i livelli plasmatici di omocisteina è stata dimostrata, anche se le evidenze scientifiche sul loro possibile effetto sul rischio cardiovascolare rimangono controverse”.

La durata della somministrazione dell’acido folico, o della vitamina B6, B12,  dipende dalla causa determinante l’iperomocisteinemia  : “ La correzione dei livelli di omocisteina può essere efficacemente ottenuta con le strategie citate in precedenza (acido folico, vitamina B6 o B12). Tuttavia, la durata del trattamento dipende strettamente dalla causa determinante. In altre parole, se la causa sottostante non è modificabile (come nel caso di uno stato patologico cronico, non guaribile), i livelli di omocisteina possono aumentare nuovamente con la sospensione della supplementazione vitaminica. Pertanto non esiste una regola generale, ed una valutazione medica iniziale, seguita da controlli periodici, sono assolutamente fondamentali”.

Ringrazio il Professor Paolo Calabrò per la sua sempre squisita disponibilità e per il suo linguaggio chiaro che permette, anche a chi non ha conoscenze scientifiche,  di poter accedere con facilità alla complessa realtà del campo della medicina.

                                  Alessandra Fiorilli

Il regime alimentare e le buone abitudini da riprendere al rientro dalle vacanze: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

Estate: la stagione delle lunghe nuotate, del sole che ci rigenera, delle camminate per i sentieri montani, della valigie da preparare, dei souvenir da acquistare, delle foto da inviare, delle risate da condividere, di amici, tramonti, ma anche di stravizi possono far spostare l’ago della bilancia verso destra.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Cosa fare, dunque?

Partiamo da cosa non fare:” Nessun drastico digiuno, nessun pasto da saltare, nessuna dieta fai da te, soprattutto perché non solo non ci aiutano a raggiungere il risultato, ma rischiano di farci sentire ancora più facilmente irritabili. Questo quadro generale va, inoltre,  aggiungersi allo stress da rientro, con la sua routine quotidiana e i suoi mille impegni” come sottolinea il Professor Rolando Alessio Bolognino,  Biologo Nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Professore a c. Master in Scienze della Nutrizione e Dietetica Clinica” presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma La Sapienza, Professore a c. Master in “Terapie Integrate nelle Patologie Oncologiche Femminili” presso  l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.      


La prima voce da mettere in cima alla lista delle cose da fare, per rientrare nei jeans che si chiudono a stento, è: Purificare l’organismo dalle tossine derivanti dagli eccessi della tavola, in modo da fornire supporto alla funzionalità epatica. Ricordiamoci sempre che il fegato è l’unità anatomica deputata ai sistemi di depurazione e detossicazione”.

 Possiamo aiutare tale organo, nello svolgimento della sua funzione, assicurando una corretta idratazione corporea, non solo assumendo i proverbiali 2 litri di acqua giornaliera:” Ma anche aggiungendo tisane a base di finocchio e liquirizia, quest’ultima sconsigliata, però, in caso di ipertensione, gravidanza e allattamento”.

Il finocchio: Aiuta “a ridurre il gonfiore addominale, grazie alla sua funzione antispastica, la liquirizia, invece, migliora la funzionalità digestiva, grazie ai suoi flavonoidi eupeptici”.

Non solo depurazione, ovviamente: “Per riprendere in mano le corrette abitudini nutrizionali è necessario suddividere la giornata alimentare in più momenti, intervallando i pasti principali con due o più spuntini: è preferibile mangiare ogni 3-4 ore, piuttosto che abbuffarsi a pranzo e cena, compromettendo la velocità del metabolismo e sovraccaricando il fegato”.

La scelta degli alimenti fa la differenza in questo percorso di ripresa della buone abitudini alimentari, dopo gli stravizi estivi: “Si consiglia di optare per cibi più facilmente digeribili, quindi tra gli alimenti proteici meglio preferire carni bianche, pesce azzurro e formaggi magri”.

Una notizia che può far piacere a molti “: I carboidrati, inspiegabilmente nemici giurati delle diete del momento, devono essere introdotti in ogni pasto sotto forma di cerali integrali, in quanto prolungano la sensazione di sazietà e modulano i livelli di glicemia del sangue”.

Importante non è solo il cibo, ma anche come lo si cucina: “La cottura al vapore, mediante bollitura e al forno, sono le migliori modalità di preparazione che preservano le proprietà organolettiche degli alimenti, ne conservano le qualità nutrizionali e non prevedono l’utilizzo di condimenti abbondanti.”.

Da porre, invece attenzione, alle grigliate, Se i cibi ,in particolare le carni e gli altri alimenti ricchi in amminoacidi e creatina, vengono sottoposti a temperature troppo elevate, possono favorire lo sviluppo di una particolare classe di composti, le ammine aromatiche eterocicliche, le quali sono risultate possedere effetti geno tossici a livello del DNA. Inoltre, una cottura su griglia, prolungata sempre ad alte temperature, può compromettere l’integrità delle strutture proteiche, diminuendone la biodisponibilità e ostacolando i processi digestivi”.

Gli stravizi estivi come: “Incetta di dolci e snack salati ad ogni ora , aperitivi con alcolici  o soft drink, porzioni di cibo più abbondanti”, possono causare, oltre che un aumento ponderale, “Anche  disordini intestinali con alterazione della frequenza dell’alvo e fastidi durante la digestione: per arginare tale problema è bene introdurre nella dieta alimenti probiotici, che favoriscono la ripopolazione del distretto intestinale di batteri ad azione benefica per l’organismo, e cibi prebiotici, i quali costituiscono il nutrimento per tali ceppi di microrganismi. Un’alimentazione sbilanciata può condurre ad alterazioni della flora microbica, fino a determinare una disbiosi intestinale in cui diminuisce la varietà dei ceppi batterici residenti, favorendo, così, lo sviluppo delle famiglie di microrganismi dannosi. Ciò determina l’instaurarsi di uno stato infiammatorio a carico dell’ambiente gastro-intestinale, con conseguenze che si registrano anche a livello della pelle, come la dermatite atopica”

 Via libera, dunque,  a Yogurt o kefir a colazione, frutta negli spuntini e verdura, sia cotta che cruda ai pasti: tutto ciò  aiuta a ristabilire la corretta flora batterica. I vegetali sono, inoltre, una buona fonte di fibra, dalla cui fermentazione si ricavano una serie di sostanze benefiche chiamate acidi grassi a catena corta, in grado di nutrire gli enteroliti, le cellule che ricoprono la superficie intestinale”.

Conserviamo, dunque, solo il buono dell’estate e cerchiamo di rientrare subito nei famosi jeans che si chiudono a stento, non  dimenticando come: Anche una buona qualità del riposo influenzi lo status nutrizionale. In vacanza capita di seguire ritmi di sonno-veglia del tutto sballati, e ciò porta ad un’alterazione della produzione di ormoni che influenzano il centro di controllo di fame e sazietà. Inoltre, dormire almeno 7-8 ore a notte ci assicura il recupero delle funzionalità cognitive e fisiche e contribuisce ad abbattere i livelli di stress mediante la soppressione della secrezione del cortisolo”.

E’ buona regola, per eliminare i chili accumulati in seguito agli stravizi estivi, seguire anche un’attività fisica regolare:” Non è necessario sottoporsi a strenue sedute di allenamento, ma sono sufficienti anche 40 minuti al giorno di camminata veloce per stimolare il metabolismo e aumentare il dispendio di calorie giornaliere. Non bisogna, quindi, stringere eccessivamente il rubinetto delle entrate caloriche giornaliere se si lavora anche su quello delle uscite!”

Ringrazio il Professor Rolando Alessio Bolognino per questi consigli che ci aiuteranno  a riacquistare le buone abitudini alimentari,   ad indossare di nuovo quei jeans divenuti troppo stretti,  ma soprattutto a rientrare nelle routine quotidiana senza stress e in buona forma fisica.

                               Alessandra Fiorilli

Paestum: quando la Storia viene a farci visita…

A circa 30 chilometri da Salerno, nella Piana del Sele e poco distante dal Parco Nazionale del Cilento, si può vivere la bellissima sensazione di fare un “ viaggio nel tempo” e di poter ammirare, da vicino, la maestosità degli antichi Templi greci che abbiamo conosciuto attraverso i libri di storia dell’arte.

Lungo il viale che conduce all’ingresso dell’area archeologica, già ci si sente estasiati, il cuore fa un balzo, perché ci si trova al cospetto di tre templi maestosi e perfettamente conservati:  sembra davvero di tornare indietro al VI secolo a.C, quando Paestum era uno dei più rilevanti centri commerciali della Magna Grecia, nome, questo, che designava quella parte della penisola italica che i Greci colonizzarono dall’VIII secolo a.C.

Uno dei tre Templi visti dal viale che conduce all’area archeologica (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il nome attuale di Paestum fu in realtà dato successivamente dai Romani, in quanto i Greci avevano scelto quello di Poseidonia, in onore a Poseidone, dio del mare nella mitologia ellenica.

Quando l’Impero romano crollò, anche l’antica colonia greca perse di importanza, sino a decadere lentamente per essere poi abbondonata del tutto,  per via delle paludi che la circondavano e che presero il sopravvento sul territorio circostante.

Ma la Storia regala sempre una seconda possibilità, una rinascita, affinché il Bello possa essere conosciuto dai posteri e appezzato dal mondo intero: è quello che è accaduto anche a Paestum, divenuta meta, nel XVIII secolo, del famoso Grand Tour, ovvero il viaggio di aristocratici ed intellettuali europei, i quali elessero l’Italia come  meta imperdibile  e talmente ricca di storia, da diventare il luogo  ideale dove poter accrescere il sapere.

Ma bisognerà attendere il 1907 per i primi scavi che portarono alla luce tutta l’incomparabile bellezza dell’area, dove oggi, turisti da tutto il mondo, possono ammirare il sito archeologico che dal 1998 è Patrimonio dell’Umanità UNESCO.

Vediamo in dettaglio tutto ciò che Paestum è in grado di regalarci.

Particolare delle colonne (Foto di Lorenza Fiorilli)

Come tutte le antiche città, anche  Poseidonia era circondata da Mura in pietra, alte fino a 7 metri e che si snodano per circa 5 chilometri, erette in difesa dell’ex colonia greca. Sono quattro le porte d’accesso che si aprono lungo le Mura, quattro come i punti cardinali.

Quello che davvero ruba lo sguardo, incanta l’animo e rapisce il cuore, sono i tre Templi che ci catapultano direttamente nell’Antica Grecia.

Il Tempio di Atena, che si pensava, inizialmente, fosse dedicato alla dea Cerere, conobbe, purtroppo, con la decadenza dell’intera area, un triste destino: fu infatti usato come stalla.

Lo stile è sia dorico che ionico, il fregio è formato da grandi blocchi di calcare, il pronaos, ovvero l’anticamera del Tempio, presentava colonne di ordine ionico, mentre il naos (cella) è in una posizione sopraelevata rispetto al resto della struttura.

Il  Tempio di Nettuno è il più grande dei tre, uno dei meglio conservati in assoluto, e la sua maestosità gli deriva dallo stile degli elementi architettonici risalenti al cosiddetto periodo Severo dell’arte greca. Ciò che maggiormente colpisce il visitatore sono le colonne , alte quasi 9 metri e con un diametro di circa 2,10 metri.

Foto di Lorenza Fiorilli

Del Tempio di Era, il più antico dell’area di Paestum, non possiamo vedere né le parti superiori della trabeazione, andate distrutte, né parti della pavimentazione, ma l’emozione di ammirare da vicino quello che, inizialmente, era conosciuto con il nome di Basilica, è resa forte dal fatto che è l’unico tempio greco di epoca arcaica in cui le 50 colonne della peristasi si sono perfettamente conservate integre.

Foto di Lorenza Fiorilli

Usciti dall’area archeologica, e ripercorrendo, in senso contrario, il viale,  sulla destra ci attende il Museo Nazionale di Paestum che dal 1952 raccoglie i reperti venuti alla luce con gli scavi, reperti che ci permettono di conoscere da vicino tutti gli aspetti della vita degli antichi abitanti, sotto il profilo religioso, sociale e politico.

Non possiamo andare via da Paestum senza aver prima ammirato la Tomba del Tuffatore, unico esempio di pittura greca perfettamente conservato.

Le lastre visibili sono parti della tomba, mentre il dipinto che dà il nome al reperto, rappresenta, appunto, il tuffo in acqua di un uomo e ciò è particolarmente simbolico: è il passaggio dalla vita alla morte.

E quando andiamo via da Paestum, ci sentiamo davvero parte di questa lunga storia che ci appartiene, che inizia dalla Magna Grecia, passa per i Romani e giunge fino a noi, in tutta la sua incomparabile Bellezza e Maestosità.

Alessandra Fiorilli