La Nave Scuola Amerigo Vespucci: Ambasciatrice Italiana nel Mondo

Talvolta accade…accade che quando le emozioni sono molto forti, risulta difficile circoscriverle con umane parole…

A bordo della Nave Scuola Amerigo Vespucci (Foto di Lorenza Fiorilli)

E accade anche ora quando, davanti alla tastiera del computer, mi ritrovo a scrivere della Nave più bella del mondo, come è da tutti universalmente conosciuta, della nave più longeva in servizio  della Marina Italiana, della Nave che ha rappresentato l’Italia durante il Tour Mondiale partito il 1° luglio 2023 da Genova.

E così quasi due anni fa, dal porto del capoluogo ligure, la Nave Vespucci ha lasciato l’Italia alla volta di Dakar, per attraversare poi l’Oceano Atlantico, puntare verso sud,  da La Plata giungere a Capo Horn, circondato ad est dall’Oceano Atlantico e ad ovest dal Pacifico, per poi attraccare  a Los Angeles, dove è stato allestito il primo Villaggio Italia, una vetrina per far conoscere, nei cinque continenti,  l’eccellenza della nostra penisola.

La Nave Vespucci durante il Tour del Mediterraneo (Foto di Lorenza Fiorilli)

La traversata dell’oceano Pacifico ha poi condotto la Vespucci a Tokio, a Karachi per  puntare verso la penisola arabica, che ha rappresentato l’  ultima tappa del Tour Mondiale prima di tornare in Italia il 18 febbraio scorso, quando, nel porto di Trieste, la Vespucci ha attraccato, salutata dalle Frecce Tricolori, da un’ edizione speciale della Barcolana e dall’abbraccio del paese intero. Lacrime di commozione per l’intero equipaggio che, a distanza di quasi due anni, ha potuto riabbracciare i propri cari, dopo aver navigato per 20 mesi e aver toccato 30 Paesi sparsi per i cinque continenti.

La Vespucci attraccata (Foto di Lorenza Fiorilli)

E proprio dal capoluogo del Friuli-Venezia Giulia è iniziato, per la Nave più bella del mondo,  il Tour del Mediterraneo, durante il quale ha attraccato in sedici porti italiani, ai quali si sono aggiunti due all’ estero, Durazzo e La Valletta.

Il Tour Mediterraneo Vespucci, nato da un’idea del Ministro della Difesa Guido Crosetto, sostenuta dal Ministero della Difesa e da altri 12 dicasteri, ha permesso di condividere con gli italiani l’esperienza all’estero del Vespucci che, dovunque ha attraccato, ha saputo rappresentare la cultura, la storia la ricerca,  la tecnologia dell’Italia, diventando, secondo le parole del Comandante del Vespucci, Giuseppe Lai :  “Un’ambasciata galleggiante riuscendo, altresì,  “A rappresentare l’Italia a 360° gradi”.

Il Capitano di Vascello Giuseppe Lai è il 125° Comandante della Nave più bella del mondo: “ Sin da bambino il mio sogno era quello di arruolarmi nella Marina Militare Italiana e di diventarne un Ufficiale. Sempre in tenera età, ero anche un appassionato dei romanzi di avventura di  Emilio Salgari: posso dire che il ruolo attuale di Comandante della Nave Vespucci è riuscito a condensare le mie due più grandi passioni ed il Tour Mondiale è quanto di più simile a quelle avventure del Salgari che leggevo con così grande interesse”

Il Comandante della Nave Scuola Vespucci, Capitano di Vascello Giuseppe Lai (Foto di Lorenza Fiorilli)

I 400000 visitatori che, nei porti dei cinque continenti dove ha attraccato, hanno visitato il Villaggio Italia, sono rimasti affascinati dalla  maestosità ed eleganza della Nave Vespucci, la quale ha rappresentato: Un pezzo della nostra Nazione che ha inorgoglito e commosso gli italiani di seconda e terza generazione , i quali sono saliti a bordo con le foto dei loro nonni e bisnonni arrivati in Sud America, dove più forte è stato l’impatto emotivo degli italiani all’estero alla vista della Nave Vespucci” come ha dichiarato il Comandante Lai.

Un orgoglio italiano, quindi, il Vespucci che suscita anche: “ Una grande ammirazione  da parte degli stranieri, molti dei quali sono rimasti stupefatti di come, nonostante i suoi 94 anni di attività, la Nave Vespucci sia ancora così efficiente ed operativa e non sia stata trasformata in un Museo”.

Il varo della Nave Scuola, costruita presso il Regio Cantiere Navale di Castellamare di Stabia (Napoli) , è avvenuto, infatti, nel lontano  22 febbraio 1931 e questa data ha un grande valore simbolico perché è il giorno della scomparsa del navigatore fiorentino Amerigo Vespucci da cui prende il nome la Nave più bella del mondo, la cui carta d’identità è la seguente: lunghezza  82 metri che diventano 101 tra poppa estrema e estremità del bompresso; peso  a pieno carico 4100 tonnellate;  24 vele in tela olona per  una superficie di circa 3000 metri;  i cavi che permettono di manovrare le vele hanno una lunghezza complessiva di oltre 30 chilometri; i legni usati per la sua realizzazione sono il teak , il mogano, il  frassino ed il rovere;  quattro gli alberi del Vespucci (quello di maestra, che è il più alto con i suoi 54 metri sulla linea di galleggiamento, di mezzana, il trinchetto e il bompresso) tutti composti da tre parti ciascuno.

Particolare degli alberi della Nave Vespucci (Foto di Lorenza Fiorilli)

Nasce già con un preciso scopo: quello di essere la Nave Scuola della Marina Italiana, difatti  dal 22 giugno 1931 e per ogni anno, ad esclusione della parentesi bellica e di alcuni periodi in cui era in manutenzione, ha svolto attività addestrativa, dando così la possibilità ai Cadetti dell’ Accademia Navale di Livorno di poter testare sul campo gli insegnamenti teorici appresi.

Un altro particolare degli alberi (Foto di Lorenza Fiorilli)

E così, nel periodo estivo, per una durata di tre mesi, la Nave Scuola offre le campagne di istruzione durante le quali gli allievi imparano, come dichiara il Comandante Lai  :”La vita di bordo, il sacrificio, lo stare insieme, l’essere un equipaggio. Inoltre sul Vespucci nessuno può far nulla da solo, occorrono sempre due persone e questo è un grande insegnamento”.

Il Comandante Giuseppe Lai (Foto di Lorenza Fiorilli)

Imbarcarsi sulla Nave  Vespucci significa, dunque, avere la possibilità di mettere in pratica ciò che si è imparato sui libri, anche se al termine della campagna di istruzione sono previste delle verifiche scritte ed orali per attestare il livello di apprendimento delle tecniche di bordo.

Un particolare delel cime della Nave Vespucci (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il  motto iniziale della Nave più bella del mondo era “Per la Patria e per il Re” sostituito, dopo il passaggio alla forma di governo repubblicana, con “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”, mentre  quello attuale, assegnato nel 1978,  è “Non chi comincia ma quel che persevera”.

Il Motto della Nave Vespucci (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il suddetto motto  è una frase di Leonardi da Vinci e si sposa anche con lo spirito che ha sempre ispirato anche Amerigo Vespucci, il quale:  “Non ha mai smesso di studiare e possiamo dire che l’attualità del motto risiede proprio nella consapevolezza che con lo studio e con la perseveranza si possono raggiungere gli obiettivi prefissi”, dichiara il Comandante Lai.

Un particolare della timoneria della Nave Vespucci (Foto di Lorenza Fiorilli)

Nave Vespucci ha attraversato  la storia per giungere fino a noi, intatta nella sua maestosa bellezza, con i suoi quattro alberi e le sue vele, che con una superficie totale di oltre 3000 metri, sono il suo simbolo e, quando svettano, sono capaci di riempire gli occhi di pura bellezza ogni volta che le si scorge, anche solo da lontano.

La campana di bordo (Foto di Lorenza Fiorilli)

L’inizio del nuovo millennio, il 4 maggio 2002, l’ha vista salpare per il suo primo Giro del Mondo dal porto di assegnazione, quello di  La Spezia, per attraversare l’Atlantico, il Canale di Panama, e il Pacifico.

Nel 2020, anno dello scoppio della pandemia, cullava un sogno: partire di nuovo per il mondo e doppiare, per la prima volta nella sua storia, Capo Horn punta meridionale dell’America del Sud ma, anche lei, come tutti noi, è rimasta a casa.

La realizzazione del suo sogno è  però, stato  solo rimandato, perché la storica impresa l’ha compiuta in questi 20 mesi di navigazione, durante i quali  è riuscita a tener testa alle correnti dell’Oceano Pacifico e dell’Atlantico che  si incontrano proprio a Capo Horn, dove le  temperature sono vicino alle zero.

Cartina del Tour Mondiale (Foto di Lorenza Fiorilli)

E ora, a conclusione anche del Tour Mediterraneo, lascerà Genova per La Spezia, nei cui cantieri navali sarà sottoposta ad una manutenzione  che le premetterà di solcare nuovamente i mari, con eleganza, autorevolezza e stile: caratteristiche che l’hanno sempre contraddistinta.

                       Alessandra Fiorilli

Gorizia: da città di frontiera a Capitale della Cultura 2025 con la slovena Nova Gorica

Gorizia e la Storia: quella imposta dalle contrapposizioni ideologiche che hanno stravolto la geografia non solo di una città ma di un’intera comunità la quale, nonostante le differenze culturali e linguistiche, viveva in armonia.

Gorizia e la Storia: quella scritta dai vincitori e subita da chi quelle decisioni doveva solo accettarle.

Gorizia e la Storia: una ferita durata decenni, ed iniziata dal 1947, anno del Trattato di Parigi in seguito al quale il territorio della città fu letteralmente diviso in due, difatti il centro storico rimase all’interno del confine italiano e l’entroterra, invece, fu assegnato alla Jugoslavia.

Le due città transfrontaliere di Gorizia (Italia) e di Nova Gorica (Slovenia) (Foto GECTGO, per gentile concessione dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Gorizia)

Una cortina di ferro che Gorizia dovette accettare…proprio lei, proprio quella città dove prima della guerra: Convivevano comunità che parlavano 4 lingue: l’italiano, il ladino, il tedesco e lo slavo…e questo poteva accadere all’interno di una stessa famiglia”,  come dichiara il Dottor Rodolfo Ziberna, Sindaco di Gorizia il quale, proprio in merito a quello che successe nel 1947 parla di :  “Quel filo spinato, di quei soldati che a terra si misero a dipingere, con calce e colori, il segno di una separazione tra Gorizia e quella che sarebbe diventata Nova Gorica”.

Il Sindaco di Gorizia, Dottor Rodolfo Ziberna (Foto per gentile concessione dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Gorizia)

Gorizia conosceva bene le sofferenze belliche ancora prima dell’ultimo conflitto mondiale: “La Grande Guerra fece pagare un alto tributo alla città che per l’80% fu rasa al suolo”.

La Prima Guerra Mondiale può essere condensata in un solo nome: il Carso, che ancora custodisce le ferite di un conflitto atroce, impresse con il fuoco dell’inchiostro del poeta Giuseppe Ungaretti.

 “Sul Monte Sabotino, ad esempio, sono ancora visibili i 50 camminamenti e i bunker”, evidenzia il Sindaco Ziberna e proprio quelle zone ferite rappresentano per Gorizia: “Una testimonianza di permanenza”

Eppure, fino al Trattato di Parigi del 1947, Gorizia era un: “Simbolo di integrazione, salvo poi diventare: “La soglia d’Italia”.

Quello che accadde dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la separazione netta del mondo in due blocchi è costantemente nota e quella divisione cui fu costretta Gorizia fu: Sia linguistica che militare”.

Le guerre lasciano dietro di loro sempre ferite, divisioni imposte, ma poche zone, come quelle dell’area di Gorizia, sono state così pesantemente colpite nella sua geografia e nella vita delle comunità che ivi risiedevano,  una tragedia causata  anche dai nazionalismi  i quali:  “Hanno partorito stati che hanno omogeneizzato popoli”.

E come dimenticare come: “A Gorizia il 20% della popolazione erano esuli istriani fuggiti da Tito”

Le sofferenze atroci sofferte dai civili, specie dalle comunità di frontiera che la guerra ha diviso nettamente in due, non sono mai state dimenticate, nulla ha potuto cancellarle nonostante: La memoria non la si possa condividere ma solo narrare”,

Poi ecco gli anni ’90, il crollo del muro di Berlino, la Slovenia che nel 1991 dichiara la propria indipendenza dopo la disgregazione delle ex Jugoslavia e il riconoscimento, da parte della comunità internazionale come Stato autonomo nel 2004 e poi l’entrata nel 2007 nello Spazio Schengen.

Non più divisa dalla cortina di ferro, Gorizia riprende in mano la sua storia, vuole curare le ferite, nonostante esse rimarranno per sempre visibili, e rinasce.

E arriva la rivincita di una città che ha vissuto la tragedia dei conflitti e delle divisioni ideologiche: una rivincita che si concretizza in una manifestazione come “Gusti di Frontiera”, nata 18 anni fa: “ “Come vetrina del cibo transfrontaliero di Italia e Slovenia e che oggi vanta numeri straordinari: basti pensare che lo scorso anno 600000 persone sono arrivate in città attirate dagli stand provenienti da  50 paesi dei cinque continenti”.

Uno dei momenti di GO!2025 (Foto di Giacomo Brescacin, per gentile concessione dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Gorizia)

Ma la pietra miliare di questa rinascita si chiama “Go! 2025” e celebra, per la prima volta, due capitali europee transfrontaliere, appartenenti a due Stati: Gorizia, Italia,  e Nova Gorica, Slovenia, che celebrano la loro storia, una storia che le ha viste divise per più di mezzo secolo dalla cortina di ferro ma che, anche nel periodo della  separazione fisica, non si sono mai dimenticate.

Gorizia: Piazza Vittoria, gremita di 8000 persone all’inaugurazione di GO!2025 (Foto per gentile concessione dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Gorizia)

L’inaugurazione di “Go! 2025” è avvenuto contemporaneamente sia a Gorizia e che a Nova Gorica e mi sono sentito travolto dall’emozione nel vedere a Piazza Vittoria 8000 persone unite, senza nazionalità. Da Gorizia è arrivato un esempio concreto contro la natura della separazione, dichiara il Sindaco Ziberna.

Essere stata scelta come Capitale della Cultura 2025 ha permesso a Gorizia di : Narrare il confine e l’emozione della narrazione, perché l’emozione continua a bruciare e dobbiamo fornire carburante allo spirito”.

Uno degli eventi di GO!2025 (Foto di Fabrice Gallina, per gentile concessione dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Gorizia)

Durante quest’anno che le vede protagoniste della cultura, sono moltissimi gli eventi previsti dal programma, eppure, l’evento più bello e significativo,  non solo per Gorizia ma per tutti, è l’esempio che questa città è riuscita ad offrire: oltre la vecchia cortina di ferro, oltre il confine imposto dalla storia, oltre le divisioni fisiche geografiche e comunitarie, Gorizia continuava a rivolgere  il cuore alla speranza di una rinascita e di una rivincita contro la guerre che la ferirono  e la storia  che la divise.

                                                        Alessandra Fiorilli

Bevagna è pronta per la 36° edizione de “Il Mercato delle Gaite”

Bevagna, comune umbro in provincia di Perugia, nel Medioevo era divisa in quartieri chiamate “Gaite”: “Nome, questo, che deriva molto probabilmente dalla parola longobarda “Gaita” o “Guaita” e che significa “guardia”. Si tratta, quindi, dei quartieri cittadini cui faceva capo l’organizzazione politico-civile medievale”, come ci dice la Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa, la quale gentilmente ci ha concesso quest’intervista sulla manifestazione del “Il Mercato delle Gaite”, che si tiene l’ultima settimana di giugno, da ormai 36 anni.

A sinistra della foto la Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa, in abiti storici, durante un’edizione de “Il Mercato delle Gaite” (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

Dietro la volontà di far rivivere l’atmosfera medievale c’è stata la profonda esigenza di dare alla manifestazione la maggiore aderenza possibile all’antica storia di Bevagna: Il 26 aprile 1989 nasce l’Associazione Mercato delle Gaite che prevede un Comitato centrale e otto rappresentanti di ciascuna Gaita. Il 1989 è anche l’anno della prima edizione, che si svolge dal 21 al 25 giugno e, sempre dal 1989 e fino al 1992, il primo Podestà sarà Angelo Falsacappa. Nell’ ottobre del 1989viene istituito un comitato scientifico (di cui fece parte anche la Sindaca Falsacappa ndr) per supportare la manifestazione con documenti e fonti storiche, reperite nell’archivio comunale. Tale comitato ha lavorato fino al 1991, partendo dalla lettura dello Statuto della terra di Bevagna”.

Il primo Podestà della manifestazione storica, Angelo Falsacappa (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

Statuto che ha rappresentato una fonte rilevante per avere: “Notizie sulle magistrature, sull’economia cittadina, sulle tecniche di lavorazione, sulla vendita delle merci, sui pesi, le misure e quindi sulle botteghe”.

L’inizio della manifestazione è solenne e permette uno straordinario tuffo nel passato medievale: “Si procede con la cerimonia di insediamento del Podestà, con la consegna delle chiavi ai Consoli, con la lettura del bando di fiera con cui si sancisce l’apertura delle porte del paese per l’arrivo dei mercanti e degli artigiani. Il borgo si popola di gente che vende i propri prodotti, quali ortaggi manufatti artigianali, stoffe, oggetti pregiati portati dai mercanti e, così, si dà inizio alla festa”.

Un momento della Manifestazione storica (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

Una festa che permette di rivivere l’autentica atmosfera medievale di Bevagna “: Si realizzano forni, botteghe di fabbri, del cuoio, ci sono cordai, tessitori, orafi, vetrai, armaioli, speziali, pittori ,liutai, amanuensi, vasai, cartai” e dal 1991 si è deciso di aggiungere anche una nota gastronomica, difatti, dall’edizione di quell’anno: “Si è inserito il banchetto medievale come cena di rappresentanza”.

Il Banchetto medievale (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

Sin dalla prima edizione si è capita l’importanza di consolidare tale manifestazione, infatti, nei quattro anni successivi:” Sono stati realizzati il laboratorio teatrale, di danza e musica medievale ed acquistati strumenti musicali, nonché realizzati i costumi per il Comitato Centrale, le bandiere e gli stendardi””.

Tale manifestazione supera i confini regionali, così come alcuni loro partecipanti:” “Oggi il gruppo degli Arcatores de Mevania ottiene premi a livello nazionale ed internazionale e i gruppi di musica medievale sono apprezzati anche fuori dalla nazione, per la presenza di maestri di strumenti antichi”.

E sono in molti che accorrono, a fine giugno a Bevagna, per assistere ad una manifestazione che permette di apprezzare il senso profondo della storia passata: “ Il Mercato delle Gaite, anno dopo anno, ha registrato un interesse crescente: arrivano visitatori da tutte le regioni italiane e abbiamo avuto anche molti stranieri, tanto che le nostre pubblicazioni hanno anche una parte in lingua inglese. Sono numeri importanti quelli che vengono registrati nel periodo della manifestazione”.

Manifestazione che vede molti Enti coinvolti: “Il Comune di Bevagna, la Regione dell’Umbria, la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, il Ministero per il bando sulle rievocazioni storiche, la Camera di Commercio, SviluppUmbria, Gal Valle Umbra e Sibillini, Vus Com e altri”

La Sindaca Falsacappa non nasconde la sua soddisfazione per ciò che la manifestazione rappresenta per Bevagna che: “Da sempre è stato un paese agricolo, fuori dalle vie di comunicazione della Regione Umbria, pertanto isolata rispetto alle altre città”.

Un suggestivo scorcio di Piazza Filippo Silvestri a Bevagna durante “Il Mercato delle Gaite” (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

 Ecco perché, dietro l’idea di questa manifestazione, c’era qualcosa di grandioso:” Avevamo un sogno: quello di far conoscere Bevagna e la sua importante storia in età romana e nel medioevo, di far apprezzare le bellezze artistiche e architettoniche, di far arrivare i visitatori a Bevagna, affinché conoscessero anche la nostra tradizione, la nostra cultura, i cibi genuini e i piatti realizzati con prodotti di qualità delle nostre aziende agricole. Oggi proponiamo una Bevagna che sa raccontare il suo passato e le attività che vi si svolgevano: ha saputo fare di tutto ciò un’attività che rimane visitabile tutto l’anno, grazie all’allestimento del circuito dei mestieri medievali”.

In 36 anni di edizioni Bevagna ha avuto un indiscutibile ritorno: “La città ha ricavato un grande sviluppo culturale, certamente anche economico, considerando che da nessuna attività ricettiva, oggi siamo arrivati ad oltre mille e duecento posti letto, oltre a molteplici bar, ristoranti e luoghi di accoglienza”.

Il Mercato delle Gaite ha permesso di far apprezzate la cittadina umbra anche ben oltre il periodo della manifestazione:” Bevagna oggi è un centro turistico che ha visitatori durante tutti i mesi dell’anno e, grazie al circuito dei mestieri, siamo riusciti ad avere anche un turismo didattico. Per i bevanati, per i giovani e non solo, “Il Mercato delle Gaite” è un appuntamento immancabile ed insostituibile e ha un valore sociale unico che mette insieme persone di ogni generazione, dai bambini agli anziani, in un rapporto di amicizia e di apprendimento reciproco che ha un valore assoluto”

E così anche quest’anno Bevagna si prepara ad accogliere turisti e visitatori “Grazie al lavoro di tanti volontari, i quali prima programmano quello che decidono di realizzare per poi operare concretamente, realizzando strutture, mestieri, scene, banchi, botteghe ad opera d’arte, tanto che i medievisti chiamati a giudicare tale lavoro rimangono solitamente sempre sorpresi dallo scrupolo e dall’attinenza con cui viene svolto il lavoro”

Un momento della manifestazione (Foto per gentile concessione della Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa)

Dietro a tanto lavoro si cela un impegno che: “Tranne pochi mesi d’estate, è richiesto tutto l’anno”, in vista della successiva edizione.

Gli abitanti amano particolarmente questa manifestazione:” La nostra è una bella festa, perché l’intera popolazione partecipa a partire dai giovanissimi, ancora bambini, fino agli anziani”.

 E così in un mondo dove il passato sembra essere solo un libro impolverato che nessuna sfoglia più, Bevagna lo custodisce e lo divulga: “E’ fondamentale, in quanto solo conoscendo il passato si conosce la propria storia e quindi si può lavorare per farla conoscere agli altri, mettendo in luce la bellezza del tempo, i segni che ha lasciato, ricongiungendo quel filo che arriva fino ad oggi. Fare questa operazione con i giovani è straordinario, vederli illustrare le tecniche antiche, utilizzare i propri studi per ricreare e allestire il medioevo compresi gli strumenti di quel periodo… davvero non ha valore. Vederli leggere i documenti antichi e riproporre le indicazioni degli uomini che ci hanno preceduto da molti secoli conferisce un effetto unico, come lo è la capacità di ogni volontario di sentirsi a proprio agio nel medioevo, perché se ne è riappropriato e quindi è pronto a trasmetterlo nelle sue più diverse sfaccettature alle persone di oggi, calandosi in una dimensione in cui l’uomo era padrone del tempo

Ringrazio la Sindaca di Bevagna, Professoressa Annarita Falsacappa, la quale ci ha permesso, attraverso il suo entusiasmo, di ripercorrere l’antica storia del centro umbro, una storia che sarà fruibile a tutti coloro che, durante l’ultima settimana di giugno, arriveranno a Bevagna per assistere alla 36° edizione de “Il Mercato delle Gaite”.

                        Alessandra Fiorilli

La Mostra “Salvatore Ferragamo 1898-1960” a Firenze: un itinerario affascinante tra genialità e passione.

Acquistarne un paio per molti può rappresentare la necessità del momento, per altri può significare la ricerca di un semplice accessorio da abbinare ad un abito da cerimonia, per altri ancora un momento di puro shopping.

Ma non per lui.

 Per Salvatore Ferragamo la scarpa è stato l’inizio del tutto, della sua passione della sua sperimentazione, della sua vita.

Alcune delle centinaia di scarpe esposte alla Mostra (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

Nato il 5 giugno 1898 a Bonito, un piccolo centro dell’Irpinia, la sua è una famiglia numerosa, di agricoltori.

Il lavoro e la fatica sono tanti, ma le entrate sempre troppo poche, talmente poche da non consentire al piccolo Salvatore di proseguire oltre la terza elementare e così, a nove anni, è costretto a trovarsi un mestiere: inizia quello di calzolaio e si incanta a guardare la maestria del suo primo datore di lavoro.

I “ferri del mestiere” di Salvatore Ferragamo (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

Quando arriva il giorno della Prima Comunione delle sue sorelline, non ci sono soldi per acquistare due paia di scarpe bianche: le realizzerà Salvatore e saranno le sue prime scarpe.

Alla bottega di Mastro Luigi fa di tutto, ma dopo la morte improvvisa del padre è costretto a lasciare il suo paese d’origine per recarsi a Napoli, città nella quale, nonostante le prime difficoltà, impara tutto sulla scarpa artigianale perché, come Salvatore amerà spesso dire di sé stesso: “In una vita precedente ero un calzolaio”.

Tornato poi a Bonito, apre un negozio tutto suo e ha successo, ma il 24 marzo 1915 è sul piroscafo Stampalia diretto da Napoli a New York: la cabina a sei posti dove viaggerà è sporca e maleodorante e il 7 aprile, dopo i necessari controlli a Ellis Island per entrare negli Stati Uniti, sbarca a New York.

Si traferisce a Boston, impara subito l’inglese, poi va a Santa Barbara, in California, dove aprirà un suo negozio che si affollerà di personaggi famosi.

Comincia a studiare l’anatomia umana e tre-quattro volte la settimana percorre 60 chilometri per assistere alle lezioni.

Nel 1926 torna in Italia e dal 1927 è a Firenze.

E proprio di questa città comincia ad apprezzare l’antica tradizione della lavorazione della paglia, sviluppatasi già nel 1700. E così alle famose “paglie” di Firenze, i cappelli che i turisti portano a casa come souvenir, ora si affiancano anche le tomaie per le scarpe estive create da Salvatore Ferragamo.

L’acquisto di Palazzo Spini Feroni a Firenze, poi la Seconda Guerra Mondiale, i brevetti depositati e l’estate del 1947, quando Salvatore è chiamato a Dallas per ricevere l’Oscar della Moda.

 Fin dai suoi esordi la passione di Ferragamo per le scarpe incontra il mondo del cinema.

Ferragamo e la sua passione per il cinema (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

E moltissime saranno le dive che si rivolgeranno a lui per le sue creazioni,  e neanche  la  malattia   riesce a  spegnere il suo ottimismo, tanto da fargli scrivere :” E se non sarà con questo corpo vuol dire che compirò la mia missione con un altro. Tutti viaggiamo nel flusso di un’eterna marea. Un eterno scorrere che non avrà mai fine”.

Ferragamo amò il cinema che lo riamò (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

Questa, in pochissime righe, la vita di Salvatore Ferragamo al quale è dedicata una retrospettiva, inaugurata il 26 ottobre 2023 e prorogata due volte e visitabile fino al 6 aprile 2026. Una mostra sul genio di Ferragamo, un percorso museale durante il quale si è proiettati nelle sue origini, nel suo cuore, nella sua maestria, nell’intuizione di un artista che, partendo dall’osservazione della natura, creava le proprie opere d’arte, usando, oltre ai classici pellami, anche materiali naturali come il sughero, la canapa, il fustagno, la paglia.

Sandalo in canapa e cordoncini intrecciati di cotone (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

In una Sezione della Mostra, dal titolo Equilibrio e Anatomia, è esposto l’archivio delle forme dei piedi delle clienti più famose e realizzate dallo stesso Ferragamo che, nel corso degli anni, depositò i suoi brevetti presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma.

Scarpe e relativi brevetti (Foto per gentile concessione del Museo Salvatore Ferragamo)

La Sezione Nuovo Rinascimento rappresenta un felice e riuscito parallelismo tra l’arte di Ferragamo e il suo intuito che ricorda la creatività degli artisti rinascimentali e, a dar forza a tale parallelismo, una creazione unica, alla quale è dedicata un’intera Sezione della Mostra: custodito sotto una teca, il sandalo in oro 18 carati nato dal genio di Ferragamo in collaborazione con gli orafi del Palazzo dell’Oro, vicino Ponte Vecchio a Firenze.

La retrospettiva termina con il tuffo più glamour: quello dedicato alle dive, alle principesse, alle donne impegnate nei vari settori, accomunate dal desiderio di vedere ai propri piedi le creazioni di Ferragamo.

Alcune delle celebri forme di legno realizzate da Ferragamo (foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

Si va dalle dive internazionali come Marlene Dietrich, all’esuberanza della cantante e attrice Carmen Miranda, dalla sensuale Ava Gardner all’eterea Audrey Hepburn, ma non mancano le principesse come Grace Kelly e le nostrane Anna Magnani e Sophia Loren.

Salvatore Ferragamo, Sophia Loren e una delle tante creazioni realizzate per la nostra Diva (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

E poi, ecco arrivare lei: Marilyn Monroe.

Marylin Monroe e le sue iconiche decolleté realizzate per lei da Ferragamo (Foto per gentile concessione del Museo Ferragamo)

Le sue décolleté, realizzate da Ferragamo, hanno fatto storia e sono diventate il simbolo della sua sensualità senza tempo. Anche grandi artiste come Georgia O’Keeffe e Palma Bucarelli sono state illustri clienti di Ferragamo il quale, da un piccolo paese,  ha saputo esportare, in tutto il mondo, il suo genio e la sua maestria, condensate nella Mostra a Firenze “Salvatore Ferragamo 1898-1960”: un inno alla creatività italiana, alla passione che non conosce né limiti né confini, ai sogni che possono realizzarsi, se ci si crede fermamente, proprio come ci ha creduto Salvatore Ferragamo.

                             Alessandra Fiorilli

Giacomo Puccini e quel legame fortissimo con la sua Casa natale di Lucca.

Quando si ama una casa, essa diventa qualcosa di più che un insieme di stanze e di suppellettili.

Quando si ama una casa, essa diventa parte integrante della famiglia che lì vi risiede: si trasforma magicamente, nei giorni, nei mesi, negli anni, in una persona a noi cara e diventa, così, di volta in volta, la nonna piena di premure, la zia che ci vizia, i genitori che ci amano sopra ogni cosa, i fratelli e le sorelle che sono compagni di gioco e confidenti.

Quando si ama una casa si pensa a lei nell’ultimo respiro e si spera che, chi verrà dopo di noi, possa amarla con la stessa nostra intensità.

Quando si ama una casa, chiunque vi entri, riesce a percepire questo legame profondo che neanche la morte può spezzare.

È quello che si avverte quando si varca la soglia della Casa Museo di Giacomo Puccini a Lucca e si ha la conferma di questo profondo legame scoprendone la storia.

Ad accogliere i visitatori sono proprio i suoi spartiti a stampa, custoditi in un armadio della Sala di ingresso.

Alcuni spartiti di Giacomo Puccini (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

È in questo appartamento che il 22 dicembre 1858 il grande Maestro autore de “La bohème”, nasce e viene subito battezzato, perché considerato in pericolo di vita.

Tra queste stanze trascorre la sua infanzia, la cui felicità è interrotta dalla morte del padre.

La madre Albina, nonostante le difficoltà economiche, consente ai figli il proseguo degli studi, in particolare Giacomo può trasferirsi nell’autunno 1880 a Milano per continuare, dopo il diploma all’Istituto musicale di Lucca, la frequenza al Conservatorio della città meneghina.

Quando la madre Albina muore, la casa viene data in affitto e nel settembre 1889 i fratelli Giacomo e Michele, gli eredi delle casa dopo la rinuncia delle sorelle che nel frattempo si erano sposate, la vendono a un cognato, inserendo, però, nel contratto una clausola che avrebbe garantito ai due fratelli la possibilità di acquistarla di nuovo: dopo il successo di “Manon Lescaut”, Giacomo nel 1893 si avvale di questa clausola, ma ritorna proprietario dell’appartamento natale solo nel 1894 dopo aver scritto:  “Amo dove nacquero i miei e per tutto l’oro del mondo non recederei dal disfarmi del tetto paterno”.

Puccini però e spesso via e la casa, ormai di sua proprietà, viene affittata.

Ma è la sua, è di nuovo sua l’amata casa: nonostante non vi abiterà mai più, per i numerosi impegni che lo porteranno in giro per il mondo, la percepisce nel cuore, nell’animo, insieme ai volti delle persone a lui più care che lì vi hanno abitato.

Alla morte del Maestro, la proprietà passa al figlio e, dopo la scomparsa di quest’ultimo, la moglie Rita Dell’Anna, nuora di Puccini, dà impulso alla creazione della Fondazione Giacomo Puccini, dona la casa nel 1973, affinché venga trasformata in un Museo inaugurato il 28 ottobre 1979.

Dopo un accurato restauro conservativo, il 13 settembre 2011 il Museo riapre al pubblico che può immergersi, così, nella vita, nel cuore, nell’animo del grande Maestro.

Il percorso espositivo accoglie i visitatori nella Sala della Musica, dove il protagonista è il pianoforte Steinway & Sons acquistato da Giacomo Puccini nel 1901 e, proprio dietro i tasti di questo prezioso oggetto, Puccini compose la “Turandot”.

La Sala delle Musica con il prezioso pianoforte del Maestro Puccini (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

In un’altra camera, forse quella delle sue sorelle, troviamo le lettere, i libretti e gli spartiti e qui il cuore sobbalza, perché vedere la scrittura del Maestro è un’emozione indescrivibile.

Uno tra gli ambienti più affascinanti e rappresentativi del Puccini musicista e compositore è indubbiamente il ripostiglio a cui si accede, salendo degli scalini dal locale cucina: proprio qui è stata ricreata la soffitta de” La bohème”.

In quello che è lo Spogliatoio è, invece, esposto il cappotto di cachemire foderato di pelliccia e una sciarpa di seta che Puccini amava indossare, ma non manca il bastone da passeggio che usava il Maestro.

E nella camera dei genitori è forte l’emozione nel pensare che proprio lì, Puccini abbia emesso il primo vagito.

La camera da letto dei genitori, dove Puccini nacque (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

La Sala dei Trionfi accoglie tutti i riconoscimenti ottenuto da Puccini, mentre nello Studio trova posto un grammofono dei primi del Novecento e nella Sala significativamente chiamata Turandot, si può ammirare proprio il costume di scena di Turandot usato nel primo allestimento dell’opera al Metropolitan Opera House di New York nel 1926.

La Sala Turandot con l’omonimo vestito di scena (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

 La Casa Museo è arricchita, nel suo percorso espositivo, di arredi, dipinti e cimeli vari, ma quello che maggiormente colpisce è quel legame tra Puccini e la sua casa natale, legame che si respira, si sente, palpita in ogni camera e queste emozioni fluiscono, rapiscono, commuovono, fanno battere il cuore e le si avvertono sulla pelle e non andranno più via.

                                         Alessandra Fiorilli

Luciano Pavarotti: la sua casa, il suo mondo, le sue passioni

Lui è ancora lì.

Lo si percepisce.

Chiunque abbia o abbia avuto il privilegio di visitare la Casa Museo di Luciano Pavarotti, appena varcato l’ingresso, si renderà immediatamente conto di riuscire a guardarla con gli occhi del Maestro.

Particolare del Salone della Casa Museo(Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E quando la visita sarà terminata, si amerà quella casa con la stessa intensità con la quale l’ha amata e fortemente voluta Big Luciano, il quale ne ha curato personalmente l’ideazione e coloro che sono stati coinvolti nella realizzazione, dai fabbri ai falegnami, dagli intagliatori ai decoratori, hanno saputo perfettamente rendere concreti i suoi desideri.

La sua gioia di vivere, la sua semplicità, nonostante la grandezza universalmente riconosciutagli, sta anche in quelle camicie a fiori, ora esposte, e che sono diventate il suo simbolo, tanto quanto il frac che fa bella mostra di sé in una teca all’interno del Salone.

Una delle sua amate camicie a fiori (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E proprio in questa stanza, dalla quale inizia l’emozionante visita, il Maestro era solito trascorrere gran parte del suo tempo e quello che maggiormente colpisce sono gli oggetti di vita quotidiana e custoditi sotto una teca…una vita che amava trascorrere non solo con la sua famiglia ma anche con gli amici: e così troviamo le carte italiane, il suo basco scozzese, i suoi occhiali.

Il Salone, la stanza preferita, e il suo frac (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Il Maestro amava la luce, e non è un caso che il grande lucernaio, posto al piano superiore, è stato fortemente voluto da Pavarotti, cosicché l’alba avrebbe potuto inondare la sua amatissima casa fuori Modena.  Proprio in questa stanza sono custodite i riconoscimenti avuti nel corso della sua lunghissima carriera: se ne contano più di 500.

Il lucernaio, dove sono esposti i riconoscimenti (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)
Uno tra i 500 riconoscimenti ottenuti dal Maestro (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Poi ecco arrivare la stanza più intima, quella nella quale custodiva le foto delle persone a lui più care: la camera da letto che lo ha visto esalare l’ultimo respiro il 6 settembre 2007.

C’è poi una parte della casa dedicata al Pavarotti grande ed insuperabile artista, dove sono esposti alcuni dei suoi abiti di scena: e qui tutto il suo carisma, la sua timbrica forte e pulita, sembra abbracciare il visitatore.

Uno dei suoi abiti si scena (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Il secondo piano è dedicato interamente alle testimonianze fotografiche e documentali della sua carriera: oltre che nei teatri del mondo più famosi, si è esibito, per portare la lirica fuori dagli schemi tradizionali, anche al Central Park di New York o sotto la Torre Eiffel di Parigi.

Un altro abito di scena diBig Luciano (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E come dimenticare l’esibizione de “I Tre Tenori” che lo videro protagonista insieme ai suoi amici e colleghi Placido Domingo e Jose Carreras: il loro modo di stare sul palco, di guardarsi con complicità rimarrà nella storia della musica.

Una stanza del percorso espositivo è poi interamente dedicata ai ringraziamenti, giunti da ogni angolo della terra, per tutto quello che di grande e bello Pavarotti ha realizzato, sempre con grande professionalità, passione e con il suo contagioso sorriso.

Il mondo intero lo ha amato e dal Maestro è stato riamato, anche grazie al “Pavarotti and friends”, che ha visto coinvolti, a partire dalla prima edizione tenutasi nella sua Modena, decine e decine di artisti internazionali, che appartenevano ai generi più diversi: dalla lirica al pop, al rock alla musica leggera e tutti uniti nel nome di iniziative benefiche.

Il cuore sobbalza ed il respiro sembra spezzarsi quando, terminata la visita, ci si avvia verso la Casa dei Giochi di Alice, pensata per la figlioletta e che ancora custodisce i suoi pupazzi e i giochi.

Il Murales sulla Casa Museo Luciano Pavarotti (Foto di Gianluca naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E quando ci si allontana da quel luogo, denso di amore per la famiglia e per la musica, ci si volta un’ultima volta e così, si ha la conferma di quello che si era avvertito all’inizio della visita: Luciano Pavarotti è ancora lì.

                                                       Alessandra Fiorilli

Volterra, Palazzo Viti: quando la storia di una famiglia diventa arte

Siamo alla fine del 1500 a Volterra e un nobile locale, Attilio Incontri, decide di costruire un palazzo nel cuore della cittadina: la sua facciata è il perfetto connubio tra il Rinascimento che sta per lasciare dietro di sé tracce indelebili e il Barocco che irrompe con tutta la sua volontà di apportare vistose novità artistiche.

350 anni dopo la sua costruzione, lo stesso Palazzo viene acquistato da Giuseppe Viti, un artigiano e commerciante d’alabastro, il quale apportò un profondo restauro degli ambienti che ospitarono nel 1861, Re Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, di cui si conserva ancora la Stanza appositamente realizzata in occasione del suo soggiorno a Volterra.

Amante della sua terra, Giuseppe Viti, fu uno degli esponenti del movimento significativamente chiamato “Viaggatori dell’alabastro” e già ad otto anni andò con il padre negli Stati Uniti, per poi tornare, dopo 5 anni, in Toscana, pronto a ripartire con i suoi alabastri per il Nuovo Mondo.

Dopo alcune alterne vicende che lo condussero anche in America Latina, non pago di ciò che aveva già realizzato, decise di partire per un viaggio commerciale in Asia.

Dall’Egitto all’India, Giuseppe fu apprezzato per le sue doti commerciali e, grazie alle ingenti somme guadagnate, tornò a Volterra e coronò il sogno di acquistare il Palazzo Incontri, che avrebbe poi preso il nome della sua famiglia, Viti, appunto.

Dal 1849 all’anno della sua morte, avvenuta nel 1860, decise di non allontanarsi più né dall’Italia, né da Volterra, perché fu tutto preso e proteso dalle vicende che porteranno all’ Unità d’Italia, unificazione che Giuseppe Viti riuscirà a vedere, anche se negli ultimi mesi della sua vita.

L’atmosfera delle Sale di Palazzo Viti incantò il regista Luchino Visconti, il quale lo scelse nel 1964, come set del film “Vaghe stelle dell’orsa” interpretato da Jean Sorel e Claudia Cardinale: pellicola, questa, che fu premiata con il Leone d’Oro al Festival di Venezia.

Visitare Palazzo Viti a Volterra è un tuffo nel passato, nella bellezza di ceramiche e tappeti, nell’accuratezza di un’esposizione che conquista subito, sin dal momento in cui si varca l’ingresso e si accede al maestoso Scalone, costruito ai primi del 1600 dall’architetto G. Caccini ed arricchito dalle decorazioni alle pareti. Ad impreziosire ulteriormente lo Scalone d’Ingresso, le sculture e i piedistalli, molti dei quali realizzati sfruttando la pietra di Zambra, una pietra arenaria locale.

Particolare dello Scalone d’Ingresso (Foto di Lorenza Fiorilli)

La seconda rampa dello Scalone accoglie i visitatori con una volta celeste, e conduce all’ ingresso del Piano Nobile, dove troviamo una consolle di alabastro, una specchiera dorata del 1700, tre ritratti alle pareti e una deliziosa ombrelliera con una collezione di ombrelli da sole e antichi bastoni.

Rampa che accede al Piano Nobile (Foto di Lorenza Fiorilli)

Superato l’ingresso, si accede alla Sala da Ballo, dove a spiccare sono due splendidi candelabri d’alabastro eseguiti per Massimiliano d’Asburgo, all’interno dei quali venivano accese lampade a petrolio.

Sala da Ballo (Foto di Lorenza Fiorilli)

La caratteristica di questa stanza è la ricchezza e varietà di oggetti provenienti dall’Oriente che Giuseppe Viti portò in Italia nel corso dei suoi viaggi all’estero.

Il caratteristico pavimento ha le tessere bicolore in cotto e alabastro indurito, mentre ai soffitti preziosi lampadari di vetro di Murano regalano un’atmosfera che rapisce gli animi.

Uno dei candelabri in alabastro (Foto di Lorenza Fiorilli)

La Sala da Pranzo è un perfetto matrimonio tra miniature cinesi del 1700 1800 su carta da riso con inchiostro di china, porcellane e argenteria inglese che fanno bella mostra di sé sui due tavoli dal piano in alabastro.

Particolare della Sala da Pranzo (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proseguendo la visita, si arriva al Salotto delle Battaglie, così chiamato per i 13 quadri raffiguranti battaglie, mentre su un tavolino-vetrina ci sono avori, medaglioni di alabastro e pietre dure.

Salotto delle Battaglie (Foto di Lorenza Fiorilli)

Le Saletta delle Porcellane è un tripudio di preziosi manufatti francesi ed inglesi e della tradizione italiana esposti alle pareti, mentre in una vetrina ci sono bicchieri e caraffe in vetro e cristallo, usati dalla famiglia Viti nel corso delle varie epoche.

Particolare delle porcellane esposte nell’omonima Saletta (Foto di Lorenza Fiorilli)
Saletta delle Porcellane (Foto di Lorenza Fiorilli)

Quando si giunge alla Biblioteca, il respiro si spezza per un istante: la bellezza incomparabile del ballatoio e del soffitto, il più pregiato di tutto il palazzo, presenta, nei quattro medaglioni esposti, i ritratti dei maggiori poeti italiani, ovvero Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.

Biblioteca (Foto di Lorenza Fiorilli)

Sull’antica scrivania una lampada con paralume in porcellana incisa: splendida e rarissima opera delle Manifatture Reali di Berlino.

La preziosa lampada con paralume in porcellana sulla scrivania della Biblioteca (Foto di Lorenza Fiorilli)

È il Salotto Rosso ad essere la stanza con la più ricca decorazione murale e con il mobilio ricoperto da una sottilissima foglia d’oro

Salotto Rosso (Foto di Lorenza Fiorilli)

I vestiti indiani da cerimonia intessuti in oro indossati da Giuseppe Viti, nominato da un principe indiano Emiro del Nepal, sono esposti in una vetrina nel Salotto del Terrazzo, arricchito da una collezione di ventagli.

Particolare dei ventagli esposti (Foto di Lorenza Fiorilli)

E poi ecco giungere la Camera del Re, ovvero la stanza da letto che accolse Vittorio Emanuele II nel 1861, con uno splendido letto a baldacchino, la decorazione delle pareti e della volta realizzata in onore del Regno d’Italia e del suo sovrano.

Camera del Re (Foto di Lorenza Fiorilli)

A conclusione della visita, la Camera Gialla con la toilette di Ginori di fine Ottocento e il ritratto di Francesco de’Medici, opera del pittore fiammingo Justus Sustermann.

La Camera Gialla (Foto di Lorenza Fiorilli)

Visitare Palazzo Viti, una dimora voluta, amata, vissuta in ogni angolo, è una delle esperienze più intense che si possa vivere, perché un nido familiare racconta storie che non si trovano sui libri, ma che si leggono con il cuore, e si ascoltano  parole pronunciate sottovoce dal mobilio, dai dipinti, dai tappeti, dagli argenti e dalle porcellane di una casa che ancora è viva e palpitante e che ti abbraccia con un’intensità tale da rimanere indelebilmente impressa nell’animo.

                         Alessandra Fiorilli

Il Forte di Bard ci racconta la sua storia

… e poi sei lì, e mentre osservi dal basso l’imponente bastione, dimentichi ogni dimensione spazio-temporale.

E cominci ad incamminarti, a salire con trepida curiosità che diventa sempre più forte, passo dopo passo, e ciò che rimane dietro di te sembra quasi annientarsi, quasi non esistere più.

Non ci sono più le notifiche che arrivano puntuali sul cellulare, non c’è il traffico e la ricerca di un posto dove parcheggiare, non ci sono scadenze…ci sei solo tu e quella fortezza che, dall’alto, ti invita a banchettare con una storia militare fatta di assalti, resistenze valorose, coraggio, amor di patria, distruzione ma soprattutto rinascita, quella stessa rinascita che ha caratterizzato il Forte di Bard.

Dunque cominciamo a salire, attratti come un novello Ulisse dal canto delle Sirene, attraverso un sentiero lastricato che conduce alla prima postazione difensiva da dove, chi lo desidera, è possibile proseguire verso la cima usando degli avveniristici ascensori esterni che regalano una vista a 360 gradi sulla vallata circostante e sul caratteristico Borgo di Bard, dal quale la fortezza difensiva prende il suo nome.

E sembra davvero che la Storia venga a prenderti per mano in un modo talmente coinvolgente da riuscire persino a sentire la voce del Forte che inizia a raccontarti la sua vita nel corso dei secoli.

“Nasco sulla sponda della Dora Baltea e spicco da un promontorio a circa 400 metri di altitudine, dominando la vallata e il piccolo Borgo di Bard ai miei piedi.

La posizione sulla quale sorgo non è casuale, ma è stata dettata da una scelta strategica: in questo punto la valle della Dora Baltea si stringe notevolmente, e questa conformazione geografica, unitamente alla mia possenza, avrebbe reso difficoltoso l’accesso agli invasori che provenivano dalle Alpi. Sin dai tempi più remoti, tutti sono rimasti colpiti dalla mia imponenza e, nel corso dei secoli, sono passato dal dominio di Boso, visconte di Aosta, alla Signoria Feudale dei Bard, fino a quando, alla metà del 1200, Amedeo VI di Savoia prese il controllo del forte decidendo di piazzarvi una guarnigione.

Ma l’evento per il quale ho meritato gli onori della cronaca è stato l’assedio di Napoleone Bonaparte che, tra il 14 e il 15 maggio 1800, con un esercito di 40000 uomini, la famosa Armee de Reserve,  varcò, durante la Seconda Campagna d’Italia,  il passo del Gran San Bernardo per invadere l’attuale Valle d’Aosta… ma era necessario  attaccare  l’esercito austro-piemontese che era  di stanza proprio presso di me.

Con la mia possenza, insieme ai 400 uomini della suddetta guarnigione, sono riuscito a tenere in scacco Napoleone per 14 giorni fino alla resa degli austro-piemontesi i quali, grazie alla loro valorosa resistenza, ottennero l’onore delle armi.

L’invasore francese aveva vinto ma, dopo aver riconosciuto il mio determinante ruolo nel rallentare la sua marcia verso la nostra penisola, decise di vendicarsi di me, ordinando che venissi raso al suolo: e così fu.

Carlo Felice di Savoia, dopo 30 anni dalla mia morte, affidò il progetto di ricostruzione all’ingegnere militare Antonio Francesco  Oliviero  che realizzò l’assetto attuale: sono formato da postazioni difensive poste a livelli diversi: l’Opera Ferdinando, formata da due edifici, l’Opera Mortai nella parte centrale, l’Opera Vittorio, l’ Opera Gola con il cortile interno,  e l’Opera Carlo Alberto con   la sua meravigliosa Piazza d’Armi.

Particolare del Forte di Bard (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio l’Opera Carlo Alberto ospita il Museo delle Alpi e le Prigioni.

Nel percorso museale è possibile entrare in contatto con la vita montana, con i suoi usi, le antiche consuetudine per comprendere la forza, la tenacia di coloro che hanno scelto, nel corso dei secoli, di rimanere tra le natie montagne: attraverso proiezioni, giochi multimediali e oggettistica tipica è possibile regalarsi un interessante viaggio nella realtà, affascinante ma talvolta difficile, della  montagna.

Nelle Prigioni si racconta la storia militare del Forte: 24 piccole celle grandi circa 1,3 per 2 metri all’interno delle quali si può accedere e si può solo lontanamente entrare nell’animo di chi vi era stato relegato.

Solo nel 1990 fui acquisito dalla Regione Valle d’Aosta e dopo un lavoro di restauro durato 10 anni, sono stato successivamente riaperto al pubblico, con mia grande gioia, e da allora non mi sento più solo, non solo per i turisti che vengono a trovarmi, ma anche per i vari eventi che vengono organizzati nel corso dell’anno.

Quello al quale sono più affezionato è stranamente ciò che determinò la mia distruzione, ovvero l’assalto di Napoleone, la cui rievocazione storica viene chiamata, appunto, “Napoleonica”, prevista nel  2025 tra fine maggio e i primi di giugno. Così come è avvenuto già negli anni precedenti, nel corso delle giornate i visitatori potranno fare un balzo del tempo, incontrare figuranti con abiti dell’epoca, assistere alla parata militare con le truppe francesi e quello austro-piemontesi, fino all’assalto finale. Un’esperienza totalizzante che vi farà tornare a casa con la consapevolezza di essere stati non comparse ma protagonisti della Storia”.

                                              Alessandra Fiorilli

Cibi congelati e surgelati: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista

Congelare e surgelare, nell’accezione comune, vengono talvolta erroneamente usati come sinonimi: è necessario fare chiarezza su queste due modalità di conservazione del cibo e sulle loro caratteristiche. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione: :” Procediamo con un primo distinguo: tra cibo congelato e cibo surgelato ci sono delle differenze e le più rilevanti riguardano le temperature e il tempo necessario per raggiungerle”.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (Foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Vediamole in dettaglio :”  Un alimento congelato raggiunge in media i -5/-15°C con tempi lunghi, i cristalli di acqua che si formano sono grandi e al momento dello scongelamento fanno perdere parte dei valori nutrizionali. Gli alimenti surgelati raggiungono, invece,  i -18°C rapidamente e i cristalli che si formano preservano l’alimento”.

Inoltre :” Il congelamento è tipicamente domestico, la surgelazione avviene solo a livello industriale”.

Il discorso sulla temperatura è di rilevante importanza: “ E’ sicuramente il parametro principale quando si parla di sicurezza alimentare. La formazione di cristalli di ghiaccio rende inaccessibile l’acqua ai microrganismi, impedendone la proliferazione. Bisogna sapere però che le basse temperature non uccidono i batteri ma li inattivano; questi, infatti,  rimarranno “ibernati” fino allo scongelamento”.

C’è una tendenza diffusa a congelare un alimento acquistato fresco e a congelarlo, ma in molti si chiedono se questa procedura possa in qualche modo alterare le qualità organolettiche e le proprietà nutritive: Il cibo nel congelatore indubbiamente  conserva vitamine e minerali meglio e più a lungo rispetto a quello che viene lasciato per giorni nel frigorifero, con il rischio, poi di doverlo gettarlo via.  C’è da aggiungere, però, come le tempistiche lunghe che consentono la formazione di cristalli di acqua di grandi dimensioni, possono rompere le cellule e modificare la struttura dell’alimento, alterandone le proprietà nutritive e organolettiche”.

C’è chi, per motivi di tempo, cuoce le verdure per congelarle e tirarle via dal freezer al momento del bisogno: Alcune tipologie di verdure come spinaci, bieta, fagiolini, broccoli, carote, asparagi, verza si prestano ad essere congelate dopo essere state sbollentate un paio di minuti e raffreddate”.

 In molti, però,  si chiedono se ad essere congelate possono esserlo anche le verdure fresche e persino la frutta: E’ necessario prestare attenzione  alla frutta e alla verdura che si sceglie: alimenti ricchi di acqua come lattuga, cetrioli, cipolla, ananas, cocomero, durante il congelamento andranno incontro a rottura delle pareti cellulari, perdendo, una volta scongelati, sapore e proprietà nutritive”.

Congelare in modo corretto significa anche controllare bene la data di scadenza del prodotto che si vuole mettere in freezer :” Secondo le Direttive europee, nonché del Ministero della Salute, carni in prossimità della scadenza non dovrebbero essere congelate  perché c’è il rischio che si sia verificata già la proliferazione batterica: quindi si congela un alimento già contaminato. Il modo migliore potrebbe essere cuocere gli alimenti e successivamente congelarli per ridurre al minimo la possibile contaminazione batterica.”

Importante anche porre attenzione alle dimensioni del cibo da congelare:” Preferire quelle piccole mentre il pesce :”Va sempre prima eviscerato”.

Importante anche la temperatura del cibo che si intende congelare: Gli alimenti possono essere congelati se freddi o a temperatura ambiente. Non si possono congelare alimenti ancora caldi, questo è deleterio sia per l’alimento che per il freezer. Un cibo introdotto caldo abbassa la temperatura del freezer e rischia di compromettere la conservabilità di tutto ciò che è congelato”.

Da osservare scrupolosamente il tempo massimo nel quale poter consumare i prodotti congelati in casa:” E’ buona norma  farlo entro 3 mesi dalla loro preparazione, anche se per alcuni si può arrivare fino a 1 anno”.

Pure il modo di confezionamento deve essere corretto: Se l’alimento non è confezionato ermeticamente, l’aria penetra al suo interno e ne favorisce la disidratazione. La superficie che è entrata in contatto con l’aria assume un colore grigiastro”.

Diverso il discorso per i cibi surgelati che acquistiamo al supermercato: “I prodotti surgelati, come specificato anche dal Ministero della Salute, sono “teoricamente” non deperibili, a patto che venga mantenuta la catena del freddo, quindi il prodotto può essere consumato anche oltre la data riportata sulla confezione (non supererei un paio di mesi), anche se possono esserci delle alterazioni a livello di sapore e/o consistenza”.

Di vitale importanza  rispettare la catena del freddo : Come sostiene anche il Ministero della Salute, è assolutamente sconsigliato ricongelare il cibo scongelato. E tale pratica è ammessa solo nel caso in cui il cibo, prima di essere ricongelato, sia stato cotto. Il motivo è che ricongelare il cibo scongelato farebbe proliferare i batteri, e la cottura, invece, ne bloccherebbe la crescita arrivando ad ucciderli.

Una curiosità sulle uova: Le uova intere con il guscio non possono essere congelate, perché il freddo lo farebbe esplodere, con un rischio   di contaminazione  molto elevato. È, pertanto,   necessario separare albume e tuorlo. L’albume può essere conservato tal quale e durare 3-5 mesi. I tuorli andranno sbattuti e si dovrà aggiungere 1-2g di zucchero per tuorlo se saranno utilizzate per un dolce, oppure di sale se serviranno per una preparazione  salata. Questo eviterà che il tuorlo diventi granuloso”.

                                             Alessandra Fiorilli

Sindrome dell’ovaio policistico: ne parliamo con la Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa

La sindrome dell’ovaio policistico, con un’incidenza tra il 10 e il 15%, è di tipo:  Endocrino- metabolica e presenta i seguenti elementi: caratteristiche ecografiche di ovaio micropolicistico, irregolarità mestruali ed eccesso di ormoni androgeni, ovvero maschili,  (proprio per questo motivo le donne che soffrono di tale sindrome possono soffrire di alopecia, quindi perdita di capelli nella parte centrale del capo),  acne,  irsutismo (ossia presenza di peluria in zone tipicamente maschili quali il volto, il collo, l’addome, la schiena). Tra questi, il sintomo che maggiormente preoccupa le donne, in quanto influisce sulla sfera della fertilità, è rappresentato dalle irregolarità mestruali causate da un difetto ovulatorio che può comportare cicli mestruali sporadici (oligoamenorrea) o assenti (amenorrea)”.

 A parlare è la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana, la quale ci tiene a sottolineare una differenza di fondamentale importanza: ”Si parla spesso di ovaio policistico, termine questo con il quale si indica un ovaio che, all’esame ecografico, appare con un numero aumentato di follicoli rispetto alla norma (oltre 12 per ovaio). Tali follicoli, con un diametro che va dai 2 agli 8 millimetri, sono tipicamente disposti a corona di rosario, quindi verso la superficie esterna delle ovaie, mentre la superficie interna dell’ovaio (stroma) rimane compatta. L’ovaio con tali caratteristiche non sempre si associa alla vera e propria “sindrome dell’ovaio policistico” (PCOS), condizione ben più complessa dal punto di vista clinico”.

La Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa (Foto per gentile concessione della Dottoressa Sagnella)

La definizione di “sindrome dell’ovaio policistico”: “ Fu introdotta nel 1935 dai dottori Stein e Leventhal ed è stata oggetto di studi per decenni; trattandosi, infatti, di una sindrome con caratteristiche eterogenee e non sempre coesistenti, è stato difficile trovare un accordo in ambito scientifico  per delinearne i criteri diagnostici. Oggi la definizione viene posta in base ai criteri proposti nel 2003 a Rotterdam, in base ai quali si parla di PCOS se coesistono almeno due dei tre elementi che la caratterizzano, ovvero: ovaie con aspetto policistico, iperandrogenismo clinico o biochimico, irregolarità mestruali). Proprio perché si tende a parlare di sindrome anche quando la donna presenta soltanto le caratteristiche ecografiche dell’ovaio policistico, la percentuale di chi ne è veramente affetta è sovrastimata. Un aspetto non meno importante della sindrome è rappresentato dall’ obesità centrale, anche se quest’ultimo non rientra, a rigor scientifico, negli elementi diagnostici. L’obesità centrale si associa ad un’alterazione del metabolismo glucidico ( insulinoresistenza/ iperinsulinemia) presente nel 70% circa delle pazienti con PCOS”.

Tale sindrome, come abbiamo già detto, si accompagna spesso a segni quali acne, alopecia, irsutismo e sovrappeso pertanto: “Può creare un disagio psicologico particolarmente forte nelle adolescenti”.

L’inquadramento corretto della donna affetta da tale sindrome: “Richiede l’esecuzione di esami sia metabolici che ormonali. Tra quelli metabolici è fondamentale la curva glicemica e insulinemica dopo carico glucidico, ovvero il test che va a misurare la concentrazione della glicemia e dell’insulina nel sangue, a seguito di un carico standard (75g) di glucosio. Il pancreas, infatti, in presenza di insulinoresistenza,  produce quantità eccessive di insulina che favorisce l’accumulo di grasso, responsabile di sovrappeso e obesità centrale, tipica degli uomini. La presenza di grasso viscerale, inoltre, rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare e si associa a livelli elevati di colesterolo e trigliceridi e, talvolta ad alterazioni del fegato (steatoepatite)”.

Alla luce di ciò: “La perdita di peso dell’8/10%,  coadiuvata da una regolare attività fisica unita alla dieta, può alleviare la sintomatologia, inducendo un miglioramento non soltanto metabolico, ma anche della funzionalità ovarica e pertanto della fertilità”.

Per tale sindrome: Non esiste una terapia unica e definitiva ma molteplici strategie terapeutiche per gestire i sintomi e le esigenze della paziente.  Mi spiego meglio. La ragazza che ha il ciclo irregolare e problemi di acne e/o irsutismo, ad esempio, può beneficiare di una terapia estroprogestinica specifica (pillola) per qualche anno; va però sottolineato che, una volta sospesa l’assunzione della pillola, nel giro di qualche mese i sintomi tendono a ripresentarsi. Talvolta, invece, invece, va gestito farmacologicamente il disordine metabolico, anche attraverso la prescrizione di farmaci per controllare l’insulinoresistenza. Nella donna desiderosa di prole, invece, possono essere di aiuto farmaci che inducano l’ovulazione, per superare il problema dell’infertilità. Ribadisco però che lo stile di vita sano, quindi una corretta alimentazione e un’adeguata attività fisica, rappresentano la terapia di prima linea per queste donne”.

Per chi soffre di tale sindrome la menopausa non significa la cessazione delle problematiche ad esse connesse:  Le donne con PCOS hanno un aumentato rischio di sviluppare un diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari ed endometriali (ispessimento della mucosa che riveste la cavità uterina  e rischio di tumori più elevato a causa proprio dell’iperplasia)”.

La sindrome dell’ovaio policistico è:  “Una malattia multifattoriale, esiste quindi una predisposizione a svilupparla ma intervengono, su questa, molteplici fattori ambientali”.

Ringrazio la Dottoressa Francesca Sagnella per la grande chiarezza che mostra nel parlare di temi comunque complessi.

E sempre la Dottoressa ci tiene a sottolineare come: Oltre all’ovaio policistico, esiste un quadro ecografico simile, ma clinicamente differente e meno complesso, che è  l’ovaio multifollicolare. Dal punto di vista funzionale rappresenta un ovaio per certi aspetti “immaturo”, che spesso si associa a irregolarità mestruali ma, a differenza del policistico, si caratterizza per un numero inferiore di follicoli che non hanno la tipica disposizione “a coroncina”. L’ovaio con aspetto multifollicolare è molto comune nelle adolescenti, ma lo si può  riscontrare anche in  donne adulte che praticano un’eccessiva attività fisica, che soffrono di anoressia nervosa o in periodi di forte stress”.

                                                 Alessandra Fiorilli