Giacomo Puccini e quel legame fortissimo con la sua Casa natale di Lucca.

Quando si ama una casa, essa diventa qualcosa di più che un insieme di stanze e di suppellettili.

Quando si ama una casa, essa diventa parte integrante della famiglia che lì vi risiede: si trasforma magicamente, nei giorni, nei mesi, negli anni, in una persona a noi cara e diventa, così, di volta in volta, la nonna piena di premure, la zia che ci vizia, i genitori che ci amano sopra ogni cosa, i fratelli e le sorelle che sono compagni di gioco e confidenti.

Quando si ama una casa si pensa a lei nell’ultimo respiro e si spera che, chi verrà dopo di noi, possa amarla con la stessa nostra intensità.

Quando si ama una casa, chiunque vi entri, riesce a percepire questo legame profondo che neanche la morte può spezzare.

È quello che si avverte quando si varca la soglia della Casa Museo di Giacomo Puccini a Lucca e si ha la conferma di questo profondo legame scoprendone la storia.

Ad accogliere i visitatori sono proprio i suoi spartiti a stampa, custoditi in un armadio della Sala di ingresso.

Alcuni spartiti di Giacomo Puccini (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

È in questo appartamento che il 22 dicembre 1858 il grande Maestro autore de “La bohème”, nasce e viene subito battezzato, perché considerato in pericolo di vita.

Tra queste stanze trascorre la sua infanzia, la cui felicità è interrotta dalla morte del padre.

La madre Albina, nonostante le difficoltà economiche, consente ai figli il proseguo degli studi, in particolare Giacomo può trasferirsi nell’autunno 1880 a Milano per continuare, dopo il diploma all’Istituto musicale di Lucca, la frequenza al Conservatorio della città meneghina.

Quando la madre Albina muore, la casa viene data in affitto e nel settembre 1889 i fratelli Giacomo e Michele, gli eredi delle casa dopo la rinuncia delle sorelle che nel frattempo si erano sposate, la vendono a un cognato, inserendo, però, nel contratto una clausola che avrebbe garantito ai due fratelli la possibilità di acquistarla di nuovo: dopo il successo di “Manon Lescaut”, Giacomo nel 1893 si avvale di questa clausola, ma ritorna proprietario dell’appartamento natale solo nel 1894 dopo aver scritto:  “Amo dove nacquero i miei e per tutto l’oro del mondo non recederei dal disfarmi del tetto paterno”.

Puccini però e spesso via e la casa, ormai di sua proprietà, viene affittata.

Ma è la sua, è di nuovo sua l’amata casa: nonostante non vi abiterà mai più, per i numerosi impegni che lo porteranno in giro per il mondo, la percepisce nel cuore, nell’animo, insieme ai volti delle persone a lui più care che lì vi hanno abitato.

Alla morte del Maestro, la proprietà passa al figlio e, dopo la scomparsa di quest’ultimo, la moglie Rita Dell’Anna, nuora di Puccini, dà impulso alla creazione della Fondazione Giacomo Puccini, dona la casa nel 1973, affinché venga trasformata in un Museo inaugurato il 28 ottobre 1979.

Dopo un accurato restauro conservativo, il 13 settembre 2011 il Museo riapre al pubblico che può immergersi, così, nella vita, nel cuore, nell’animo del grande Maestro.

Il percorso espositivo accoglie i visitatori nella Sala della Musica, dove il protagonista è il pianoforte Steinway & Sons acquistato da Giacomo Puccini nel 1901 e, proprio dietro i tasti di questo prezioso oggetto, Puccini compose la “Turandot”.

La Sala delle Musica con il prezioso pianoforte del Maestro Puccini (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

In un’altra camera, forse quella delle sue sorelle, troviamo le lettere, i libretti e gli spartiti e qui il cuore sobbalza, perché vedere la scrittura del Maestro è un’emozione indescrivibile.

Uno tra gli ambienti più affascinanti e rappresentativi del Puccini musicista e compositore è indubbiamente il ripostiglio a cui si accede, salendo degli scalini dal locale cucina: proprio qui è stata ricreata la soffitta de” La bohème”.

In quello che è lo Spogliatoio è, invece, esposto il cappotto di cachemire foderato di pelliccia e una sciarpa di seta che Puccini amava indossare, ma non manca il bastone da passeggio che usava il Maestro.

E nella camera dei genitori è forte l’emozione nel pensare che proprio lì, Puccini abbia emesso il primo vagito.

La camera da letto dei genitori, dove Puccini nacque (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

La Sala dei Trionfi accoglie tutti i riconoscimenti ottenuto da Puccini, mentre nello Studio trova posto un grammofono dei primi del Novecento e nella Sala significativamente chiamata Turandot, si può ammirare proprio il costume di scena di Turandot usato nel primo allestimento dell’opera al Metropolitan Opera House di New York nel 1926.

La Sala Turandot con l’omonimo vestito di scena (Foto di Andrea Pistolesi, per gentile concessione dell’Archivio Puccini)

 La Casa Museo è arricchita, nel suo percorso espositivo, di arredi, dipinti e cimeli vari, ma quello che maggiormente colpisce è quel legame tra Puccini e la sua casa natale, legame che si respira, si sente, palpita in ogni camera e queste emozioni fluiscono, rapiscono, commuovono, fanno battere il cuore e le si avvertono sulla pelle e non andranno più via.

                                         Alessandra Fiorilli

Luciano Pavarotti: la sua casa, il suo mondo, le sue passioni

Lui è ancora lì.

Lo si percepisce.

Chiunque abbia o abbia avuto il privilegio di visitare la Casa Museo di Luciano Pavarotti, appena varcato l’ingresso, si renderà immediatamente conto di riuscire a guardarla con gli occhi del Maestro.

Particolare del Salone della Casa Museo(Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E quando la visita sarà terminata, si amerà quella casa con la stessa intensità con la quale l’ha amata e fortemente voluta Big Luciano, il quale ne ha curato personalmente l’ideazione e coloro che sono stati coinvolti nella realizzazione, dai fabbri ai falegnami, dagli intagliatori ai decoratori, hanno saputo perfettamente rendere concreti i suoi desideri.

La sua gioia di vivere, la sua semplicità, nonostante la grandezza universalmente riconosciutagli, sta anche in quelle camicie a fiori, ora esposte, e che sono diventate il suo simbolo, tanto quanto il frac che fa bella mostra di sé in una teca all’interno del Salone.

Una delle sua amate camicie a fiori (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E proprio in questa stanza, dalla quale inizia l’emozionante visita, il Maestro era solito trascorrere gran parte del suo tempo e quello che maggiormente colpisce sono gli oggetti di vita quotidiana e custoditi sotto una teca…una vita che amava trascorrere non solo con la sua famiglia ma anche con gli amici: e così troviamo le carte italiane, il suo basco scozzese, i suoi occhiali.

Il Salone, la stanza preferita, e il suo frac (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Il Maestro amava la luce, e non è un caso che il grande lucernaio, posto al piano superiore, è stato fortemente voluto da Pavarotti, cosicché l’alba avrebbe potuto inondare la sua amatissima casa fuori Modena.  Proprio in questa stanza sono custodite i riconoscimenti avuti nel corso della sua lunghissima carriera: se ne contano più di 500.

Il lucernaio, dove sono esposti i riconoscimenti (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)
Uno tra i 500 riconoscimenti ottenuti dal Maestro (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Poi ecco arrivare la stanza più intima, quella nella quale custodiva le foto delle persone a lui più care: la camera da letto che lo ha visto esalare l’ultimo respiro il 6 settembre 2007.

C’è poi una parte della casa dedicata al Pavarotti grande ed insuperabile artista, dove sono esposti alcuni dei suoi abiti di scena: e qui tutto il suo carisma, la sua timbrica forte e pulita, sembra abbracciare il visitatore.

Uno dei suoi abiti si scena (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

Il secondo piano è dedicato interamente alle testimonianze fotografiche e documentali della sua carriera: oltre che nei teatri del mondo più famosi, si è esibito, per portare la lirica fuori dagli schemi tradizionali, anche al Central Park di New York o sotto la Torre Eiffel di Parigi.

Un altro abito di scena diBig Luciano (Foto di Gianluca Naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E come dimenticare l’esibizione de “I Tre Tenori” che lo videro protagonista insieme ai suoi amici e colleghi Placido Domingo e Jose Carreras: il loro modo di stare sul palco, di guardarsi con complicità rimarrà nella storia della musica.

Una stanza del percorso espositivo è poi interamente dedicata ai ringraziamenti, giunti da ogni angolo della terra, per tutto quello che di grande e bello Pavarotti ha realizzato, sempre con grande professionalità, passione e con il suo contagioso sorriso.

Il mondo intero lo ha amato e dal Maestro è stato riamato, anche grazie al “Pavarotti and friends”, che ha visto coinvolti, a partire dalla prima edizione tenutasi nella sua Modena, decine e decine di artisti internazionali, che appartenevano ai generi più diversi: dalla lirica al pop, al rock alla musica leggera e tutti uniti nel nome di iniziative benefiche.

Il cuore sobbalza ed il respiro sembra spezzarsi quando, terminata la visita, ci si avvia verso la Casa dei Giochi di Alice, pensata per la figlioletta e che ancora custodisce i suoi pupazzi e i giochi.

Il Murales sulla Casa Museo Luciano Pavarotti (Foto di Gianluca naphtalina Camporesi, per gentile concessione della Fondazione Luciano Pavarotti)

E quando ci si allontana da quel luogo, denso di amore per la famiglia e per la musica, ci si volta un’ultima volta e così, si ha la conferma di quello che si era avvertito all’inizio della visita: Luciano Pavarotti è ancora lì.

                                                       Alessandra Fiorilli

Volterra, Palazzo Viti: quando la storia di una famiglia diventa arte

Siamo alla fine del 1500 a Volterra e un nobile locale, Attilio Incontri, decide di costruire un palazzo nel cuore della cittadina: la sua facciata è il perfetto connubio tra il Rinascimento che sta per lasciare dietro di sé tracce indelebili e il Barocco che irrompe con tutta la sua volontà di apportare vistose novità artistiche.

350 anni dopo la sua costruzione, lo stesso Palazzo viene acquistato da Giuseppe Viti, un artigiano e commerciante d’alabastro, il quale apportò un profondo restauro degli ambienti che ospitarono nel 1861, Re Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, di cui si conserva ancora la Stanza appositamente realizzata in occasione del suo soggiorno a Volterra.

Amante della sua terra, Giuseppe Viti, fu uno degli esponenti del movimento significativamente chiamato “Viaggatori dell’alabastro” e già ad otto anni andò con il padre negli Stati Uniti, per poi tornare, dopo 5 anni, in Toscana, pronto a ripartire con i suoi alabastri per il Nuovo Mondo.

Dopo alcune alterne vicende che lo condussero anche in America Latina, non pago di ciò che aveva già realizzato, decise di partire per un viaggio commerciale in Asia.

Dall’Egitto all’India, Giuseppe fu apprezzato per le sue doti commerciali e, grazie alle ingenti somme guadagnate, tornò a Volterra e coronò il sogno di acquistare il Palazzo Incontri, che avrebbe poi preso il nome della sua famiglia, Viti, appunto.

Dal 1849 all’anno della sua morte, avvenuta nel 1860, decise di non allontanarsi più né dall’Italia, né da Volterra, perché fu tutto preso e proteso dalle vicende che porteranno all’ Unità d’Italia, unificazione che Giuseppe Viti riuscirà a vedere, anche se negli ultimi mesi della sua vita.

L’atmosfera delle Sale di Palazzo Viti incantò il regista Luchino Visconti, il quale lo scelse nel 1964, come set del film “Vaghe stelle dell’orsa” interpretato da Jean Sorel e Claudia Cardinale: pellicola, questa, che fu premiata con il Leone d’Oro al Festival di Venezia.

Visitare Palazzo Viti a Volterra è un tuffo nel passato, nella bellezza di ceramiche e tappeti, nell’accuratezza di un’esposizione che conquista subito, sin dal momento in cui si varca l’ingresso e si accede al maestoso Scalone, costruito ai primi del 1600 dall’architetto G. Caccini ed arricchito dalle decorazioni alle pareti. Ad impreziosire ulteriormente lo Scalone d’Ingresso, le sculture e i piedistalli, molti dei quali realizzati sfruttando la pietra di Zambra, una pietra arenaria locale.

Particolare dello Scalone d’Ingresso (Foto di Lorenza Fiorilli)

La seconda rampa dello Scalone accoglie i visitatori con una volta celeste, e conduce all’ ingresso del Piano Nobile, dove troviamo una consolle di alabastro, una specchiera dorata del 1700, tre ritratti alle pareti e una deliziosa ombrelliera con una collezione di ombrelli da sole e antichi bastoni.

Rampa che accede al Piano Nobile (Foto di Lorenza Fiorilli)

Superato l’ingresso, si accede alla Sala da Ballo, dove a spiccare sono due splendidi candelabri d’alabastro eseguiti per Massimiliano d’Asburgo, all’interno dei quali venivano accese lampade a petrolio.

Sala da Ballo (Foto di Lorenza Fiorilli)

La caratteristica di questa stanza è la ricchezza e varietà di oggetti provenienti dall’Oriente che Giuseppe Viti portò in Italia nel corso dei suoi viaggi all’estero.

Il caratteristico pavimento ha le tessere bicolore in cotto e alabastro indurito, mentre ai soffitti preziosi lampadari di vetro di Murano regalano un’atmosfera che rapisce gli animi.

Uno dei candelabri in alabastro (Foto di Lorenza Fiorilli)

La Sala da Pranzo è un perfetto matrimonio tra miniature cinesi del 1700 1800 su carta da riso con inchiostro di china, porcellane e argenteria inglese che fanno bella mostra di sé sui due tavoli dal piano in alabastro.

Particolare della Sala da Pranzo (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proseguendo la visita, si arriva al Salotto delle Battaglie, così chiamato per i 13 quadri raffiguranti battaglie, mentre su un tavolino-vetrina ci sono avori, medaglioni di alabastro e pietre dure.

Salotto delle Battaglie (Foto di Lorenza Fiorilli)

Le Saletta delle Porcellane è un tripudio di preziosi manufatti francesi ed inglesi e della tradizione italiana esposti alle pareti, mentre in una vetrina ci sono bicchieri e caraffe in vetro e cristallo, usati dalla famiglia Viti nel corso delle varie epoche.

Particolare delle porcellane esposte nell’omonima Saletta (Foto di Lorenza Fiorilli)
Saletta delle Porcellane (Foto di Lorenza Fiorilli)

Quando si giunge alla Biblioteca, il respiro si spezza per un istante: la bellezza incomparabile del ballatoio e del soffitto, il più pregiato di tutto il palazzo, presenta, nei quattro medaglioni esposti, i ritratti dei maggiori poeti italiani, ovvero Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.

Biblioteca (Foto di Lorenza Fiorilli)

Sull’antica scrivania una lampada con paralume in porcellana incisa: splendida e rarissima opera delle Manifatture Reali di Berlino.

La preziosa lampada con paralume in porcellana sulla scrivania della Biblioteca (Foto di Lorenza Fiorilli)

È il Salotto Rosso ad essere la stanza con la più ricca decorazione murale e con il mobilio ricoperto da una sottilissima foglia d’oro

Salotto Rosso (Foto di Lorenza Fiorilli)

I vestiti indiani da cerimonia intessuti in oro indossati da Giuseppe Viti, nominato da un principe indiano Emiro del Nepal, sono esposti in una vetrina nel Salotto del Terrazzo, arricchito da una collezione di ventagli.

Particolare dei ventagli esposti (Foto di Lorenza Fiorilli)

E poi ecco giungere la Camera del Re, ovvero la stanza da letto che accolse Vittorio Emanuele II nel 1861, con uno splendido letto a baldacchino, la decorazione delle pareti e della volta realizzata in onore del Regno d’Italia e del suo sovrano.

Camera del Re (Foto di Lorenza Fiorilli)

A conclusione della visita, la Camera Gialla con la toilette di Ginori di fine Ottocento e il ritratto di Francesco de’Medici, opera del pittore fiammingo Justus Sustermann.

La Camera Gialla (Foto di Lorenza Fiorilli)

Visitare Palazzo Viti, una dimora voluta, amata, vissuta in ogni angolo, è una delle esperienze più intense che si possa vivere, perché un nido familiare racconta storie che non si trovano sui libri, ma che si leggono con il cuore, e si ascoltano  parole pronunciate sottovoce dal mobilio, dai dipinti, dai tappeti, dagli argenti e dalle porcellane di una casa che ancora è viva e palpitante e che ti abbraccia con un’intensità tale da rimanere indelebilmente impressa nell’animo.

                         Alessandra Fiorilli

Il Forte di Bard ci racconta la sua storia

… e poi sei lì, e mentre osservi dal basso l’imponente bastione, dimentichi ogni dimensione spazio-temporale.

E cominci ad incamminarti, a salire con trepida curiosità che diventa sempre più forte, passo dopo passo, e ciò che rimane dietro di te sembra quasi annientarsi, quasi non esistere più.

Non ci sono più le notifiche che arrivano puntuali sul cellulare, non c’è il traffico e la ricerca di un posto dove parcheggiare, non ci sono scadenze…ci sei solo tu e quella fortezza che, dall’alto, ti invita a banchettare con una storia militare fatta di assalti, resistenze valorose, coraggio, amor di patria, distruzione ma soprattutto rinascita, quella stessa rinascita che ha caratterizzato il Forte di Bard.

Dunque cominciamo a salire, attratti come un novello Ulisse dal canto delle Sirene, attraverso un sentiero lastricato che conduce alla prima postazione difensiva da dove, chi lo desidera, è possibile proseguire verso la cima usando degli avveniristici ascensori esterni che regalano una vista a 360 gradi sulla vallata circostante e sul caratteristico Borgo di Bard, dal quale la fortezza difensiva prende il suo nome.

E sembra davvero che la Storia venga a prenderti per mano in un modo talmente coinvolgente da riuscire persino a sentire la voce del Forte che inizia a raccontarti la sua vita nel corso dei secoli.

“Nasco sulla sponda della Dora Baltea e spicco da un promontorio a circa 400 metri di altitudine, dominando la vallata e il piccolo Borgo di Bard ai miei piedi.

La posizione sulla quale sorgo non è casuale, ma è stata dettata da una scelta strategica: in questo punto la valle della Dora Baltea si stringe notevolmente, e questa conformazione geografica, unitamente alla mia possenza, avrebbe reso difficoltoso l’accesso agli invasori che provenivano dalle Alpi. Sin dai tempi più remoti, tutti sono rimasti colpiti dalla mia imponenza e, nel corso dei secoli, sono passato dal dominio di Boso, visconte di Aosta, alla Signoria Feudale dei Bard, fino a quando, alla metà del 1200, Amedeo VI di Savoia prese il controllo del forte decidendo di piazzarvi una guarnigione.

Ma l’evento per il quale ho meritato gli onori della cronaca è stato l’assedio di Napoleone Bonaparte che, tra il 14 e il 15 maggio 1800, con un esercito di 40000 uomini, la famosa Armee de Reserve,  varcò, durante la Seconda Campagna d’Italia,  il passo del Gran San Bernardo per invadere l’attuale Valle d’Aosta… ma era necessario  attaccare  l’esercito austro-piemontese che era  di stanza proprio presso di me.

Con la mia possenza, insieme ai 400 uomini della suddetta guarnigione, sono riuscito a tenere in scacco Napoleone per 14 giorni fino alla resa degli austro-piemontesi i quali, grazie alla loro valorosa resistenza, ottennero l’onore delle armi.

L’invasore francese aveva vinto ma, dopo aver riconosciuto il mio determinante ruolo nel rallentare la sua marcia verso la nostra penisola, decise di vendicarsi di me, ordinando che venissi raso al suolo: e così fu.

Carlo Felice di Savoia, dopo 30 anni dalla mia morte, affidò il progetto di ricostruzione all’ingegnere militare Antonio Francesco  Oliviero  che realizzò l’assetto attuale: sono formato da postazioni difensive poste a livelli diversi: l’Opera Ferdinando, formata da due edifici, l’Opera Mortai nella parte centrale, l’Opera Vittorio, l’ Opera Gola con il cortile interno,  e l’Opera Carlo Alberto con   la sua meravigliosa Piazza d’Armi.

Particolare del Forte di Bard (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio l’Opera Carlo Alberto ospita il Museo delle Alpi e le Prigioni.

Nel percorso museale è possibile entrare in contatto con la vita montana, con i suoi usi, le antiche consuetudine per comprendere la forza, la tenacia di coloro che hanno scelto, nel corso dei secoli, di rimanere tra le natie montagne: attraverso proiezioni, giochi multimediali e oggettistica tipica è possibile regalarsi un interessante viaggio nella realtà, affascinante ma talvolta difficile, della  montagna.

Nelle Prigioni si racconta la storia militare del Forte: 24 piccole celle grandi circa 1,3 per 2 metri all’interno delle quali si può accedere e si può solo lontanamente entrare nell’animo di chi vi era stato relegato.

Solo nel 1990 fui acquisito dalla Regione Valle d’Aosta e dopo un lavoro di restauro durato 10 anni, sono stato successivamente riaperto al pubblico, con mia grande gioia, e da allora non mi sento più solo, non solo per i turisti che vengono a trovarmi, ma anche per i vari eventi che vengono organizzati nel corso dell’anno.

Quello al quale sono più affezionato è stranamente ciò che determinò la mia distruzione, ovvero l’assalto di Napoleone, la cui rievocazione storica viene chiamata, appunto, “Napoleonica”, prevista nel  2025 tra fine maggio e i primi di giugno. Così come è avvenuto già negli anni precedenti, nel corso delle giornate i visitatori potranno fare un balzo del tempo, incontrare figuranti con abiti dell’epoca, assistere alla parata militare con le truppe francesi e quello austro-piemontesi, fino all’assalto finale. Un’esperienza totalizzante che vi farà tornare a casa con la consapevolezza di essere stati non comparse ma protagonisti della Storia”.

                                              Alessandra Fiorilli

Paestum: quando la Storia viene a farci visita…

A circa 30 chilometri da Salerno, nella Piana del Sele e poco distante dal Parco Nazionale del Cilento, si può vivere la bellissima sensazione di fare un “ viaggio nel tempo” e di poter ammirare, da vicino, la maestosità degli antichi Templi greci che abbiamo conosciuto attraverso i libri di storia dell’arte.

Lungo il viale che conduce all’ingresso dell’area archeologica, già ci si sente estasiati, il cuore fa un balzo, perché ci si trova al cospetto di tre templi maestosi e perfettamente conservati:  sembra davvero di tornare indietro al VI secolo a.C, quando Paestum era uno dei più rilevanti centri commerciali della Magna Grecia, nome, questo, che designava quella parte della penisola italica che i Greci colonizzarono dall’VIII secolo a.C.

Uno dei tre Templi visti dal viale che conduce all’area archeologica (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il nome attuale di Paestum fu in realtà dato successivamente dai Romani, in quanto i Greci avevano scelto quello di Poseidonia, in onore a Poseidone, dio del mare nella mitologia ellenica.

Quando l’Impero romano crollò, anche l’antica colonia greca perse di importanza, sino a decadere lentamente per essere poi abbondonata del tutto,  per via delle paludi che la circondavano e che presero il sopravvento sul territorio circostante.

Ma la Storia regala sempre una seconda possibilità, una rinascita, affinché il Bello possa essere conosciuto dai posteri e appezzato dal mondo intero: è quello che è accaduto anche a Paestum, divenuta meta, nel XVIII secolo, del famoso Grand Tour, ovvero il viaggio di aristocratici ed intellettuali europei, i quali elessero l’Italia come  meta imperdibile  e talmente ricca di storia, da diventare il luogo  ideale dove poter accrescere il sapere.

Ma bisognerà attendere il 1907 per i primi scavi che portarono alla luce tutta l’incomparabile bellezza dell’area, dove oggi, turisti da tutto il mondo, possono ammirare il sito archeologico che dal 1998 è Patrimonio dell’Umanità UNESCO.

Vediamo in dettaglio tutto ciò che Paestum è in grado di regalarci.

Particolare delle colonne (Foto di Lorenza Fiorilli)

Come tutte le antiche città, anche  Poseidonia era circondata da Mura in pietra, alte fino a 7 metri e che si snodano per circa 5 chilometri, erette in difesa dell’ex colonia greca. Sono quattro le porte d’accesso che si aprono lungo le Mura, quattro come i punti cardinali.

Quello che davvero ruba lo sguardo, incanta l’animo e rapisce il cuore, sono i tre Templi che ci catapultano direttamente nell’Antica Grecia.

Il Tempio di Atena, che si pensava, inizialmente, fosse dedicato alla dea Cerere, conobbe, purtroppo, con la decadenza dell’intera area, un triste destino: fu infatti usato come stalla.

Lo stile è sia dorico che ionico, il fregio è formato da grandi blocchi di calcare, il pronaos, ovvero l’anticamera del Tempio, presentava colonne di ordine ionico, mentre il naos (cella) è in una posizione sopraelevata rispetto al resto della struttura.

Il  Tempio di Nettuno è il più grande dei tre, uno dei meglio conservati in assoluto, e la sua maestosità gli deriva dallo stile degli elementi architettonici risalenti al cosiddetto periodo Severo dell’arte greca. Ciò che maggiormente colpisce il visitatore sono le colonne , alte quasi 9 metri e con un diametro di circa 2,10 metri.

Foto di Lorenza Fiorilli

Del Tempio di Era, il più antico dell’area di Paestum, non possiamo vedere né le parti superiori della trabeazione, andate distrutte, né parti della pavimentazione, ma l’emozione di ammirare da vicino quello che, inizialmente, era conosciuto con il nome di Basilica, è resa forte dal fatto che è l’unico tempio greco di epoca arcaica in cui le 50 colonne della peristasi si sono perfettamente conservate integre.

Foto di Lorenza Fiorilli

Usciti dall’area archeologica, e ripercorrendo, in senso contrario, il viale,  sulla destra ci attende il Museo Nazionale di Paestum che dal 1952 raccoglie i reperti venuti alla luce con gli scavi, reperti che ci permettono di conoscere da vicino tutti gli aspetti della vita degli antichi abitanti, sotto il profilo religioso, sociale e politico.

Non possiamo andare via da Paestum senza aver prima ammirato la Tomba del Tuffatore, unico esempio di pittura greca perfettamente conservato.

Le lastre visibili sono parti della tomba, mentre il dipinto che dà il nome al reperto, rappresenta, appunto, il tuffo in acqua di un uomo e ciò è particolarmente simbolico: è il passaggio dalla vita alla morte.

E quando andiamo via da Paestum, ci sentiamo davvero parte di questa lunga storia che ci appartiene, che inizia dalla Magna Grecia, passa per i Romani e giunge fino a noi, in tutta la sua incomparabile Bellezza e Maestosità.

Alessandra Fiorilli                                                            

Il Castello di Fenis: un viaggio nel Medioevo attraverso mura merlate e feritoie, Sale di Rappresentanza e cortili affrescati.

E’ il simbolo della Valle d’Aosta, abbiamo imparato ad ammirarne la maestosa bellezza sin dai tempi delle elementari quando, nel sussidiario, alla sezione “Geografia” del libro, compariva sulla pagina dedicata alla regione più piccola d’Italia.

Il Castello di Fenis visto dal sentiero d’entrata (Foto di Lorenza Fiorilli)

Ve lo presento attraverso una speciale “carta d’identità”: la sua costruzione inizia nel XIII secolo, ma le torri e le mura merlate vengono aggiunte solo un centinaio di anni dopo. Un segno particolare lo rende così diverso da tutti gli altri castelli che si possono visitare nella Valle d’Aosta: non è stato costruito su una sommità di un colle, quindi non era destinato a  svolgere le tipiche e caratteristiche funzioni difensive, quanto piuttosto ad essere eletto come residenza signorile della famiglia di Challant, nobili valdostani.

Le torri (Foto di Lorenza Fiorilli)

Nel 1716 viene venduto e da allora il decadimento si impossessa di lui, salvo poi, negli ultimi anni del XIX  secolo, tornare agli antichi splendori.

A testimonianza del suo fulgido passato di residenza nobiliare, vi sono le splendide decorazioni pittoriche che rappresentavano la potenza e il prestigio della famiglia ivi residente.

Particolare delle mura merlate (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il Castello di Fenis, la cui pianta è pentagonale, accoglie ogni anno circa 80000 visitatori , i quali, prima di accedere al maniero, passano attraverso una torre quadrata con tanto  di una speciale “saracinesca” che aveva il compito di impedire, in caso di attacco esterno,  l’accesso all’androne.

Gioco di luci ed ombre sulle mura merlate (Foto di Lorenza Fiorilli)

La visita si snoda attraverso una serie di Sale che testimoniano la vita condotta, centinaia e centinaia di anni fa, in un tipico maniero: al pianterreno troviamo la Sala d’Armi, e una serie di stanze destinate ai soldati e ai servitori di palazzo, tra queste,  il refettorio e la cucina, dotata di un immenso camino perfettamente conservato.

Un suggestivo passaggio (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il primo piano è quello definito nobile, in quanto di esclusiva spettanza della famiglia: qui troviamo la stanza da letto padronale, la sala da pranzo e quella di Giustizia.

Altro particolare (Foto di Lorenza Fiorilli)

Nel cortile interno, dove si conclude la visita, fa bella mostra di sé l’affresco raffigurante San Giorgio che uccide il drago, affresco, questo, che è stato riprodotto su una faccia della  moneta da 10 euro che nel 2013 la Zecca  gli dedica  per la serie “Italia delle arti”.

Una scala che conduceva alle mura (Foto di Lorenza Fiorilli)

Ma 33 anni prima, le Poste Italiane celebrarono la bellezza del Castello di Fenis con l’emissione di un francobollo da 150 lire.

E prima di entrare e di iniziare la visita, non perdetevi lo spettacolo del prato che abbraccia l’antico e maestoso maniero, né  l’incanto delle montagne circostanti che donano al Castello di Fenis quel tocco di magia e di mistero che vi accompagnerà non solo dopo il termine della visita, ma anche dopo  il ritorno dal viaggio in terra valdostana.

L’incanto della natura attorno al Castello di Fenis (Foto di Lorenza Fiorilli)

                                                     Alessandra Fiorilli

Come in un romanzo: una romantica giornata a Sirmione

Insieme, mano nella mano, si incamminarono verso il pontile dove era attraccato il vaporetto che, da Desenzano sul Garda, li avrebbe condotti a Sirmione.

Appena saliti sull’imbarcazione, lei chiuse gli occhi: voleva sentire il fragore delle acque del lago infrangersi sulla carena del vaporetto e avvertire su di sé quelle gocce che le arrivarono sul viso, tra i capelli.

Aprì gli occhi in tempo per ammirare il Castello Scaligero di Sirmione: allungò il braccio e le sembrò di accarezzare quelle guglie.

Il traghetto rallentò la sua corsa e una voce maschile disse: “Sirmione”.

In tanti scesero dal vaporetto e si divisero, come acqua del fiume quando giunge al mare.

Sirmione…Sirmione: quattro consonanti e quattro vocali che avevano un sinonimo : quello di paradiso

Insieme, mano nella mano, si inoltrarono per le viuzze zeppe di turisti con le maniche corte, i sandali, e cercarono un bar dove poter mangiare un toast.

Si inoltrarono nel cuore di quel centro lacustre e, all’improvviso, seguendo la curva della strada, s’accorsero che erano giunti al cospetto di quel Castello Scaligero che avevano già visto dal lago, arrivando da Desenzano con il vaporetto.

Eccolo…era lì, immerso nelle acque di quel lago di Garda che sembrava un mare,  a difesa di quel piccolo centro lacustre.

Lei sapeva tutto di questo antico maniero: sapeva che era stato costruito dagli Scaligeri, tra il XIII e il XIV secolo.

Tre torri  e poi il maschio, che svettava dai suoi 47 metri e poi la darsena per la flotta.

Sul lato orientale, sulla ghiaia e tra i turisti, i cigni passeggiavano e si facevano avvicinare, fotografare, come le papere che affollavano quel lembo di spiaggia ghiaiosa.

Risalirono verso il paese e panorama un cartello “BACIATEVI, PER FAVORE“, allora si baciarono, si baciarono come mai altre volte.

E si persero, occhi negli occhi, mano nella mano, per le vie di un paese che esaltava i sensi.

Non sarebbero voluti andar via, ma il traghetto li attendeva per tornare a Desenzano, dalla cui stazione sarebbero ripartiti con il treno.

Sarebbero rimasti altre ore, altri giorni alla loro vacanza…eppure…eppure quando si girarono, dalla prua del  vaporetto e accarezzarono con lo sguardo Sirmione, ormai in lontananza, sarebbero rimasti davvero sempre lì, non con il corpo ma con il cuore.

                                              Alessandra Fiorilli

Courmayeur…e il cuore trema dall’emozione

Courmayeur, noto centro turistico a circa 30 chilometri da Aosta, vanta tre primati: è l’ultimo comune in territorio italiano, il più ad occidente della Valle d’Aosta e l’unico che confina con due nazioni, la Francia e la Svizzera.

Ad unirla con i cugini d’oltralpe è il traforo del Monte Bianco, lungo quasi 12 chilometri, superato il quale, ci si trova nella cittadina di Chamonix.

Il legame che ha con il comune “gemello” in terra francese, nasce nel XVIII secolo, quando gli esploratori furono richiamati dal grande fascino di scalare la vetta più alta d’Europa, il Monte Bianco,  ai piedi del quale giace, sul versante francese Chamonix, e su quello italiano, Courmayeur.

Scorcio della vallata dalla Piazza (Foto di Lorenza Fiorilli)

I due comuni alpini diventano, in pochissimi anni, i centri più noti ed apprezzati dall’alpinismo mondiale.

La sede del Municipio (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il clima alpino, con le sue estati fresche e gli inverni nevosi, rendono Courmayeur un centro turistico ambito da molti, anche se nel comune valdostano l’affluenza dei primi villeggianti si registrò nel secolo XVII perché richiamati dalle fonti di acqua solforosa.

Particolare di una casa in pietra (Foto di Lorenza Fiorilli)

La vicinanza con la prima Capitale d’Italia, Torino, che dista da Courmayeur poco più di 140 chilometri, la rese una delle mete preferite di Casa Savoia per i loro soggiorni alpini  e, con l’avvento di un turismo non più solo d’elite, il comune valdostano è diventato,  a partire dal XX secolo, una delle più apprezzate stazioni sciistiche alpine.

…e di una in legno (Foto di Lorenza Fiorilli)

La volontà di far conoscere le bellezze mozzafiato delle nostre montagne e di promuovere l’attività alpinistica, ha spinto, nel 1850, alcuni cultori della montagna a costituire la Società Guide Alpine, che oggi si trova sulla Strada del Villair, di fronte la Chiesa principale, la Parrocchia di San Pantaleone, il quale è il patrono della cittadina.

Il Museo delle Guide Alpine “Duca degli Abruzzi” (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio nel caratteristico edificio della Società Guide Alpine, oggi è ospitato il Museo “Duca degli Abruzzi”, dove sono esposte foto ed oggetti di chi l’alta montagna l’ha vissuta, amata, assaporata, conquistata, metro per metro.

Scorcio di una strada nel centro di Courmayeur (Foto di Lorenza Fiorilli)

Courmayeur si sveglia ogni mattino e va a dormire ogni sera con, negli occhi, le Alpi che la circondano come un abbraccio e lo strettissimo rapporto con l’alta montagna lo rivela il nome stesso di Courmayeur che sembrerebbe derivare, secondo l’Abbé Henry, nel volume “Histoire Populaire de la  Vallee  d’Aoste”, dal latino “culmen majus”, ovvero “grande cima”, per via della notevolissima vicinanza al Monte Bianco.

Scorcio del Monte Bianco (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio dalla Piazza Abbé Henry si gode di un panorama spettacolare sulla vallata e sui monti circostanti.

Panorama dalla Piazza Abbé Henry (Foto di Lorenza Fiorilli)

Tra gli appuntamenti che celebrano lo stretto rapporto tra Courmayeur  con le Alpi, spicca il “Tor des Geants” il “giro dei giganti”,  una competizione che si snoda per 34 comuni valdostani, con partenza ed arrivo proprio a Courmayeur.

 Il tour, giudicato come uno tra i più duri al mondo, si snoda per 330 chilometri attraverso bellezze uniche come il Parco Nazionale del Gran Paradiso.

Courmayeur è un gioiello alpino da assaporare in ogni suo suggestivo angolo, con i balconi in legno pieni di fiori, le case in pietra, i loro tetti ricoperti  da lastre di losa, ottenute da rocce che, per loro stessa natura, sono facilmente divisibili in lastre, appunto.

Courmayeur è le sue strade, dove il tempo sembra voler dire ai turisti: “Fermati, respira l’aria pura e dissetati con l’acqua freddissima e indugia su quanta bellezza ti circonda”.                                                    

                                              Alessandra Fiorilli

La Basilica Palladiana di Vicenza, simbolo della città e del genio artistico di Andrea Palladio

Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1994 e Monumento Nazionale dal 2014, la Basilica Palladiana a Vicenza, oltre ad essere il simbolo della città veneta, rappresenta il genio artistico di Andrea Palladio, architetto rinascimentale, il quale ebbe proprio nel Veneto il centro nevralgico della propria attività.

La Basilica, che domina la centralissima Piazza dei Signori sulla quale si affaccia, è in realtà frutto di una serie di progetti volti a modificare il preesistente Palazzo della Ragione, realizzato tra il 1449 e il 1460, che, così come il suo omonimo padovano, aveva la copertura a carena di nave rovesciata e ricoperta di lastre di rame.

L’edificio, prima dell’intervento di Andrea Palladio, ospitava, al primo piano, le Magistrature pubbliche di Vicenza e, al piano terra, le botteghe.

La facciata, caratterizzata da rombi in marmo rosso e gialletto di Verona, era ispirata volutamente al Palazzo Ducale di Venezia.

In seguito ad un crollo, le autorità cittadine vicentine passano al vaglio le proposte che giungano dai più eccelsi nomi dell’architettura veneta, ma, nel 1546, il Consiglio decide di affidare i lavori ad Andrea Palladio, giovane architetto di appena 38 anni, il quale propone di riprogettare il preesistente Palazzo della Ragione aggiungendovi delle logge in marmo bianco e serliane.

Gli interventi sull’iniziale struttura sono quelli che ancora oggi possiamo ammirare: una struttura al tempo stesso imponente ma agile, dinamica, caratterizzata dalle serie delle cosiddette serliane che si ripetono, ovvero una struttura composta da un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari architravate.

In seguito al restauro che si è avuto tra il 2007 e il 2012, è visitabile anche la terrazza superiore, dalla quale si può ammirare la vista sulla città e sui monti che la circondano. Il perimetro della balaustra è ornato di statue realizzate, agli inizi del 1600, da Albanese, Grazoli e Rubini, fedeli ai disegni del Palladio.

La Basilica Palladiana, nonostante il nome evochi per i cristiani una funzione religiosa, è stata così chiamata dallo stesso Andrea Palladio per rendere  omaggio alle tradizioni dell’antica Roma, dove, nell’edificio chiamato appunto basilica, si discuteva di politica e di affari.

Intatta, invece, è rimasta la Torre detta dei Bissari, risalente al XII secolo e che è ben visibile dalla terrazza della Basilica

Il Salone del Consiglio dei Quattrocento, al piano superiore, si sviluppa su un’altezza di 24 metri e vanta una superficie di circa 1500 metri quadri , spazio, questo, utilizzato per allestimento di mostre.

Visitare la Basilica Palladiana significa diventare testimoni del  genio artistico di Andrea Palladio, uno tra i grandi nomi dell’arte italiana, ammirata ed invidiata in tutto il mondo.

                                              Alessandra Fiorilli

L’incanto del Castello “Miramare” di Trieste

E’ il 1855 quando l’arciduca Massimiliano d’Asburgo sceglie il promontorio di Grignano, a circa 6 chilometri da Trieste, come luogo per far sorgere una residenza dove la distesa d’acqua salata sarà la principale protagonista del castello il quale verrà chiamato, non a caso,  “Miramar”, che in spagnolo significa, appunto, “guarda il mare”.

E il mare ti accompagna sin dal momento in cui ci si incammina per raggiugere l’ingresso del Castello stesso.

Quando il cielo è terso, lo spettacolo che offre la distesa d’acqua salata e la natura circostante, ti avvolge in un girotondo di emozioni fortissime, intense, che non ti lasceranno per tutta la durata della visita, terminata la quale il ricordo di quelle sale, del parco, della scalinata che collega i due piani, degli oggetti appartenuti a Massimiliano e a Carlotta, sua moglie, ti faranno compagnia, per sempre.

Oltre al mare, l’altra protagonista della residenza, è il verde che si estende per 22 ettari e che costituisce il Parco del Castello, voluto fortemente dall’arciduca austriaco.

La natura che, infatti, Massimiliano trova, al momento dell’acquisto dei vari lotti, è  una natura scarna ma, grazie alla consulenza di un grande botanico, l’intera area  si arricchirà di alberi e piante da tutto il mondo che conviveranno insieme, in armonia.

Il progetto del parco sarà  affidato, come quello dell’intero Castello, all’architetto austriaco Carl Junker.

Il piano terra ospita le camere dove Massimiliano risiedette con la moglie Carlotta, mentre il primo livello è il piano di rappresentanza, dove venivano accolti gli ospiti.

Chi ha la fortuna di visitare il Castello, ne può ammirare gli arredi originari, mentre la distesa del mare che si perde a vista d’occhio è una presenza, al tempo stesso, discreta e travolgente, in tutte le stanze.

Tra le varie sale in cui si articola il percorso della visita, spicca  quella che ricorda l’arredamento tipico di una nave: fu, infatti, proprio Massimiliano d’Asburgo a volere che una stanza fosse lo specchio fedele dell’arredamento della fregata sulla quale era imbarcato, mentre assolveva il servizio per la Marina d’Austria.

Ai piedi del Castello, un piccolissimo porticciolo dotato di un pontile di circa 7 metri, al quale si accede da una scalinata.

E dopo aver indugiato sul profilo di “Miramare” che si staglia all’orizzonte in tutta la sua magnificenza, ti accorgi che non riesci proprio a lasciarti alle spalle cotanta bellezza, e, così, ti giri più volte, e sembra quasi di vederli Massimiliano e Carlotta i quali, come narra la storia, proprio in questo castello, vissero i momenti più felici della loro vita.

                                                 Alessandra Fiorilli