La Self-Compassion, ovvero essere compassionevoli e gentili con se stessi

Non voleva davvero ferirmi con quelle parole”;“Anche se mi ha fatto male lo perdonerò”; “Chissà quanto starà soffrendo: lo aiuterò.

Quante volte abbiamo pronunciato queste frasi riferendoci ad un amico/a, ad un compagno/a che magari ci ha ferito o tradito, oppure ad un senzatetto a cui cerchiamo di dare una mano?

Ma pronunciamo mai le stesse frasi verso noi stessi? Ci perdoniamo mai fino in fondo degli errori che abbiamo commesso o del male, che anche inavvertitamente, abbiamo procurato ad un’altra persona? Siamo veramente consapevoli di un momento di sofferenza che stiamo attraversando percependo fino in fondo il nostro dolore?

La risposta è no; o, almeno, non quanto lo facciamo per gli altri. E di questo ne è certa Kristin Neff, psicologa e ricercatrice statunitense che ha concentrato i suoi ultimi studi proprio su queste tematiche.

Secondo tale autrice non diamo la stessa importanza alla nostra sofferenza e non siamo così indulgenti verso noi stessi così come, invece, lo siamo verso gli altri; dovremmo, invece, cominciare a trattare noi stessi con la stessa gentilezza e compassione che dimostriamo per i nostri amici, parenti o, perfino per degli estranei. Ed eccola la parola “magica”: compassione.

Cosa si indica di preciso con tale termine? Secondo Kristin Neff, la compassione comprende il riconoscimento della sofferenza, la gentilezza nei confronti di chi sta soffrendo ed il riconoscimento che la condizione umana è fragile ed imperfetta.

E quando questa compassione la proviamo verso noi stessi, ecco che si parla di self-compassion, concetto del quale l’autrice è stata pioniera.

Secondo la Neff, dovremmo smettere di giudicarci troppo severamente, e dovremmo accettarci con i nostri pregi e, soprattutto, con i nostri difetti, trattandoci con gentilezza e amore; cosa, questa, non semplice da fare.

Tornando al concetto di self-compassion, secondo Kristin Neff, comprende tre componenti:

-la gentilezza verso se stessi

-il riconoscimento della nostra umanità comune

-la mindfulness

Cerchiamo di considerarli uno ad uno.

La prima componente, ovvero la gentilezza verso se stessi, richiede di essere comprensivi con noi stessi, smettendo di essere ipercritici e di giudicarci continuamente; comprende il capire le nostre debolezze ed i nostri fallimenti, senza condannarli; richiede di trattare noi stessi con cura, amore e tenerezza, abbracciando, idealmente, noi stessi come faremmo con un amico in difficoltà.

La seconda componente è il riconoscimento della nostra umanità comune, ovvero essere consapevoli che siamo parte di un “tutto” e che ognuno, compresi noi stessi, può sbagliare. Ciascuno di noi nella propria vita prova sentimenti di delusione, rabbia, dolore o inadeguatezza, perciò quando sperimentiamo uno di questi sentimenti non dobbiamo sentirci isolati; comprendendo che siamo interconnessi agli altri, questo ci fa sentire meno soli e fa percepire la nostra sofferenza in modo meno forte.

La terza ed ultima componente è la mindfulness (argomento che ho trattato in un mio precedente articolo sul sito EmozionAmici) Il  termine mindfulness  indica l’accettazione non giudicante di quello che stiamo vivendo nel momento presente, ovvero essere consapevoli fino in fondo di ciò che facciamo in un determinato momento e delle emozioni che proviamo mentre svolgiamo quella particolare azione. Essenziale, inoltre, è fare tutto ciò in maniera non giudicante il che significa considerare le nostre emozioni in maniera più distaccata ossia come se guardassimo noi stessi da un’altra prospettiva. La mindfulness ci fa vedere le situazioni così come sono realmente ed elimina le sofferenze che, invece, potremmo evitare; essa permette, inoltre, di riconoscere quali sono gli aspetti della nostra vita che possiamo cambiare e  di accettare quegli eventi che non possiamo, invece, cambiare.

Mettere in atto queste tre componenti, che insieme costituiscono la self-compassion, permette (così come evidenziato da diverse ricerche) di lenire sentimenti di ansia e depressione; inoltre, le persone con un alto livello di self-compassion, riescono a reprimere meno emozioni e pensieri negativi in quanto i sentimenti negativi vengono “abbracciati” insieme a quelli positivi: le emozioni di cura, gentilezza e compassione vengono provate insieme ai sentimenti dolorosi. Praticare la self-compassion è come sfogarci con un amico di cui siamo sicuri di poterci fidare perché, in qualche modo, capirà e lenirà la nostra sofferenza.

Ulteriori ricerche della Neff e colleghi hanno evidenziato come praticare la self-compassion sia un modo per raggiungere il benessere emotivo e la soddisfazione nella nostra vita.

Perciò, la prossima volta che commettiamo un errore o non riusciamo a raggiungere un nostro obiettivo fino in fondo, invece di giudicarci e di colpevolizzarci, cerchiamo di perdonarci e di trattarci con gentilezza. E la nostra vita migliorerà.

                                                Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

L’influenza dello stress sulle malattie della pelle

Ogni individuo reagisce a suo modo alle situazioni di stress, ad eventi difficili o inaspettati e alle  varie preoccupazioni e sfide che la vita ci mette davanti; alcune persone “scaricano” lo stress e l’ansia sul corpo, soffrendo di quelle che vengono dette malattie psicosomatiche, e tra queste rientrano anche i vari disturbi della pelle, sulle quali voglio concentrarmi in questo articolo.

Diverse persone, quando vivono un evento difficile o traumatico, oppure quando vengono esposte ad uno stress prolungato, scaricano la loro tensione sulla pelle; ciò avviene perché, durante una situazione stressante, il sistema nervoso, il sistema ormonale e quello immunitario reagiscono con un complesso meccanismo di adattamento: l’organismo libera una maggiore quantità di ormoni dello stress (quali adrenalina e noradrenalina) che aumentano la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna e scatenano anche i processi infiammatori; a quel punto entra in gioco un altro ormone, il cortisolo, che ha il compito di mitigare le infiammazioni prodotte dagli ormoni dello stress, ma può capitare che proprio lo stress cronico modifichi tale meccanismo, ossia che le infiammazioni non vengano più attenuate. Ed è proprio in quel caso che si scatenano le malattie della pelle. Ciò avviene perché la pelle è strettamente collegata al cervello già prima che veniamo al mondo: l’epidermide e il sistema nervoso, infatti, si sviluppano entrambi dallo stesso foglietto embrionale (cioè strati concentrici di cellule), detto ectoderma. Pelle e cervello, quindi, sono connessi tra loro e vi rimangono per tutta la vita grazie ad una serie di recettori che trasmettono i segnali dalla pelle al sistema nervoso e viceversa.

Non è raro che si cada in un circolo vizioso: lo stress favorisce le malattie infiammatorie della pelle, intensificando la sensazione di fastidio e prurito, inducendo le persone a grattarsi, aggravando così sia il processo infiammatorio e sia un ulteriore nervosismo nella persona. Inoltre, chi ha già sofferto da bambini di malattie della pelle, è più propenso a svilupparle di nuovo a causa di un periodo di forte stress e, proprio per questo motivo, viene detta dermatite da stress.

Ma quali sono le più comuni malattie della pelle che sono causate o si aggravano in periodi di stress? Psoriasi, orticaria, dermatite seborroica, eczema, rosacea e neurodermatite.

Quest’ultima, la neurodermatite, è la più comune ed è anche conosciuta come dermatite atopica o eczema costituzionale ossia un eczema che però ha cause genetiche, infatti tale disturbo compare già nell’infanzia per poi attenuarsi o sparire del tutto dopo l’adolescenza. In particolari momenti di sovraccarico emotivo, però, essa può manifestarsi di nuovo anche in età adulta. Essa, oltre a determinare fastidi, irritazioni, prurito ed arrossamenti, causa anche disagio dal punto di vista sociale in quanto tale malattia provoca lesioni in zone visibili quali viso, collo e mani e ciò può far sentire il soggetto che ne soffre “vittima” di attenzioni non desiderate da parte di altri.

Un altro disturbo della pelle che peggiora in situazioni di forte stress o ansia è la psoriasi, che causa chiazze rosse e squame; in una ricerca, il 90% degli intervistati ha affermato che le prime manifestazioni cutanee erano comparse proprio dopo una situazione stressante.

Come comportarsi in tali situazioni?

Oltre a terapie farmacologiche o trattamenti dermatologici, sono utili, da un punto di vista psicologico, delle tecniche per ridurre lo stress e l’ansia, quali training autogeno, meditazione, yoga, praticare sport all’aria aperta per scaricare le tensioni o mettere in atto tecniche di rilassamento basate su un’attività creativa; si possono, inoltre, imparare e mettere in atto strategie per gestire lo stress.

Qualora la persona affetta da dermatite non riesca da sola a controllare e ridurre le proprie emozioni negative, si può rivolgere ad uno psicologo; anche, perché, diversi studi hanno dimostrato come le malattie della pelle si accompagnano anche a problemi come ansia e depressione. La terapia psicologica che sembra avere maggiori benefici è quella cognitivo-comportamentale, che insegna alla persona metodi di gestione dell’ansia e cerca di far modificare i comportamenti disfunzionali.

Pertanto è essenziale imparare a gestire nel migliore dei modi gli stress psicologici per non causare o, comunque, per non peggiorare, i disturbi della pelle.

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

La Mindfulness: ovvero l’arte della consapevolezza

La maggior parte di noi vive una quotidianità piena di impegni, di scadenze, di appuntamenti e, in determinati momenti della vita capita di provare un sentimento di apprensione per il futuro, di preoccupazione ed incertezza. E non riusciamo a concentrarci nel presente e a godere dell’attimo.

Ed in questi periodi può venirci in aiuto una tecnica di meditazione, che ormai è diventata anche uno strumento di intervento terapeutico nell’ambito della psicologia: la mindfulness.

Ma cosa si intende con essa? Quali sono le tecniche di cui si avvale e quali i benefici sul nostro organismo?

Il termine mindfulness deriva dal vocabolo sati in lingua pali, una lingua indiana nella quale fu composto il canone dell’antico buddismo, e significa consapevolezza.

Consapevolezza delle proprie sensazioni corporee, psicologiche e spirituali, che si riesce a sperimentare quando concentriamo la nostra attenzione al momento presente; in particolare è necessario prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in maniera non giudicante.

Siamo abituati a svolgere le azioni quotidiane in maniera quasi meccanica: guidare l’auto, mangiare un panino, parlare con una persona; ma nel farlo non prestiamo attenzione a quello che stiamo facendo e avviene tutto in maniera inconsapevole. La mindfulness ci spinge, invece, ad essere consapevoli di ciò che facciamo e delle emozioni che proviamo mentre svolgiamo quella determinata azione; essa, infatti, può essere considerata come l’arte della consapevolezza con intenzione; ad esempio, prendiamo in considerazione il semplice atto del mangiare un frutto: la mindfulness consiglia di assaporare istante per istante, soffermandoci sul gusto e su ogni singola sensazione che ci trasmette quel gesto che, per la maggior parte delle persone, è un gesto banale ed insignificante. Essa perciò, ci invita a guardare la vita con gli occhi di un bambino, al quale appare tutto nuovo e meraviglioso e vive ogni piccolo gesto con curiosità ed entusiasmo.

Un altro aspetto che ho citato sopra è il prestare attenzione in maniera non giudicante; che significa?

Siamo portati a giudicare i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre paure e a, volte, ci lasciamo travolgere dai pensieri negativi; la consapevolezza mindful consiglia, al contrario, di considerare le nostre emozioni in maniera più distaccata; la persona consapevole dovrebbe riuscire a guardare le proprie reazioni e le proprie emozioni come se si osservasse dall’esterno, come se stesse guardando lo scorrere di un fiume ma non identificandosi con esso, ma, bensì, rimanendo sulla riva.

In questo modo si riescono ad accettare i momenti negativi e si riesce ad evitare quella che, dallo psichiatra statunitense Daniel Siegel, viene chiamata “sofferenza fortuita”, ovvero l’angoscia creata dal flusso di emozioni che scorrono senza sosta nella nostra mente.

Perciò, uno dei principali obiettivi di questa tecnica è proprio quello di riuscire ad eliminare la sofferenza inutile, coltivando, invece, un’accettazione di ciò che accade intorno a noi. Liberandoci dalle emozioni automatiche e concentrandoci sul presente, riusciamo anche a sopportare meglio i momenti negativi.

La psicologa Ruth Baer ha individuato cinque fattori che aiutano a definire la mindfulness:

Non reattività: riuscire a percepire i propri sentimenti ed emozioni senza necessariamente reagire ad essi e riuscire a lasciare andare i pensieri negativi

Auto osservazione: rimanere in contatto con le sensazioni (visive, tattili, uditive, olfattive) che si provano mentre si svolge un’azione (ad esempio mentre si mangia o si cammina).

Concentrazione e consapevolezza: prestare attenzione a quello che si fa momento per momento e rimanere concentrato sul presente senza distrarsi

Riconoscimento dei propri stati interiori: riuscire a riconoscere le proprie emozioni e ad esprimere a parole le proprie opinioni ed aspettative

Atteggiamento non giudicante: non giudicare i propri sentimenti e stati d’animo e non classificare i propri pensieri in “buoni” e “cattivi”.

In ambito terapeutico la tecnica della mindfulness può essere usata per migliorare stati d’ansia e sindromi depressive ma anche nel trattare i disturbi alimentari negli adolescenti e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini.

Le tecniche di meditazione della mindfulness vengono generalmente praticate in posizione seduta e la persona viene invitata a concentrarsi sul proprio respiro, prendendo consapevolezza di esso, e mano a mano che si procede con la tecnica, tale consapevolezza andrà estesa alle proprie emozioni e ai propri pensieri.

Al di là, comunque, delle varie tecniche usate in questa pratica, sforziamoci sempre di apprezzare il presente, guardando ad ogni giorno come una nuova scoperta e non lasciamo che i pensieri negativi o la paura per il futuro ci travolgano.

                                                 Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Le attività manuali: una risorsa per il nostro benessere psico-fisico

Ormai siamo abituati ad usare le nostre mani solo per svolgere attività tecnologiche e meccaniche: componiamo messaggi con il cellulare, inviamo e-mail, mettiamo like sui social, cambiamo le marce in auto, digitiamo il pin della nostra carta di credito.

La maggior parte di noi, purtroppo, ha perso di vista le vere potenzialità di uno dei nostri cinque sensi: il tatto.

Vi ricordate quando da piccoli vi divertivate a costruire castelli con la sabbia, a formare pupazzetti con il pongo, a sporcarvi le mani con la farina per aiutare vostra nonna o vostra madre a preparare un dolce, a colorarvi le mani con le vernici per poi lasciare la vostra impronta su un cartellone a scuola?

Fin da piccoli il tatto è il senso per eccellenza, che consente al bambino di conoscere e di interagire con il mondo, di scoprire nuove forme ed oggetti, di sperimentare nuove sensazioni.

Le attività manuali che facevamo da bambini erano divertenti, educative e gratificanti: si riusciva a portare a termine un obiettivo quasi dal nulla: dei piccoli granelli di sabbia, uniti all’acqua e grazie ad un secchiello, si trasformavano in un castello da fiaba; da un pezzo informe di pongo prendeva vita il nostro personaggio dei fumetti o il nostro eroe preferito; da piccoli sassi formavamo una buffa famiglia disegnando su di essi gli occhi, il naso e la bocca. Non era tanto importante il risultato in sé, quanto l’essersi divertiti e aver liberato la propria creatività.

Da adulti, invece, tendiamo a dimenticare le sensazioni che provavamo mentre usavamo le nostre mani; invece, è essenziale riscoprire quelle emozioni e dare di nuovo importanza al senso del tatto.

Ovviamente, chi svolge come proprio lavoro un mestiere manuale riesce ancora a sperimentare una grande gratificazione; pensate al falegname, al ceramista, al vetraio, al panettiere, all’orafo, al sarto, al pasticciere, al cuoco, quando vede terminato il proprio manufatto, la propria torta, il proprio gioiello: loro seguono tutte la fasi del processo, dall’ideazione fino a quella conclusiva, e in ognuna di queste fasi, l’artigiano mette la propria passione e una parte di sé.

Ma anche chi svolge un mestiere diverso da quelli sopra citati può cimentarsi, nel proprio tempo libero, in un’attività manuale; si può cucire, dipingere, colorare, lavorare a maglia, preparare una torta o una pizza, fare bricolage, curare un piccolo orto, realizzare un piccolo bijoux.  L’importante è usare le mani, sentire tutte le sensazioni che il nostro tatto ci trasmette, e occuparci, anche per poche decine di minuti, solamente a quello che stiamo facendo: staccate il cellulare, spegnete il televisore, evitate di distrarvi. Concentratevi solamente sul “qui ed ora”. La vita ci ha portato ad occuparci contemporaneamente di più attività che non siamo quasi più abituati a dedicare tutto il nostro tempo ad una sola.

Le attività manuali sono una risorsa per il nostro spirito, un toccasana per il nostro benessere fisico e mentale ed è stato dimostrato che il cervello ottiene da esse diversi benefici: migliorano l’umore perché vengono secrete endorfine e serotonina (i cosiddetti ormoni del benessere) e si riduce la produzione di cortisolo (l’ormone dello stress); creano nuove connessioni tra i neuroni contrastando il deterioramento cognitivo, stimolano la creatività; migliorano l’umore; rafforzano l’autostima; rilassano e allontanano preoccupazioni e stress.

Beh, credo proprio che non serva qualche altro buon motivo per andare ad impastare una pizza o a incominciare a fare una sciarpa all’uncinetto!

Dottoressa Lorenza Fiorilli

I segreti della voce umana

A casa, sul luogo di lavoro, al supermercato, per strada, di giorno, di sera, con il sole, con la pioggia. La usiamo continuamente, in ogni luogo e in ogni circostanza, in modo così automatico che non ci rendiamo conto della sua importanza. Di cosa sto parlando? Della nostra voce.

E’ una caratteristica peculiare di ognuno di noi: chi ce l’ha acuta, bassa, flebile, suadente, grave, roca. E’ lo strumento di comunicazione e di espressione per eccellenza, attraverso la quale diamo forma alle nostre idee, pensieri, emozioni e stati d’animo.

La moduliamo a seconda delle circostanze: abbassiamo il tono se stiamo confidando un nostro segreto ad un amico, lo alziamo se siamo arrabbiati con qualcuno, diventa più dolce se stiamo giocando con un bambino.

Il modo in cui usiamo la nostra voce è uno delle tre forme della comunicazione. Quest’ultima, infatti, viene suddivisa in comunicazione verbale che comprende quello che diciamo, cioè le parole che usiamo in un discorso; la comunicazione non verbale, ossia i movimenti del corpo, i gesti, le espressioni del viso; la comunicazione paraverbale, costituita proprio dal modo in cui usiamo la voce.

Quest’ultimo aspetto incide fino al 40% sull’efficacia di un discorso, a differenza della comunicazione verbale che influisce solo per il 10%.

Essenziale, quindi, non è tanto quello che diciamo ma come lo diciamo. E’ importante modulare, a seconda delle varie circostanze, i diversi aspetti che caratterizzano la voce umana: il ritmo, che scandisce l’alternarsi del discorso e delle pause; l’intensità, ovvero il volume della voce; il tono che fa assumere ad una stessa parola significati diversi.

E’ proprio quest’ultimo aspetto che, spesso, crea incomprensioni e discussioni tra due persone. Quante volte, infatti, diciamo al nostro interlocutore: “Non mi è piaciuto il tono con il quale mi hai detto quella cosa!”

Infatti, a seconda del tono usato, la stessa frase o anche una semplice parola può assumere significati diversi, e quindi, può produrre effetti diversi su chi ascolta.

Pensiamo alla parola “basta”: detto con tono gentile ad un nostro amico, indica che non vogliamo  che aggiunga altro zucchero nel nostro caffè, mentre pronunciato con tono aggressivo indica che siamo esasperati da una situazione.

Oppure all’espressione “Che genio!”: può indicare sincera ammirazione verso una persona; detta con tono sarcastico indica un’offesa; con tono ironico rappresenta una battuta scherzosa ad un nostro amico.

Pensate che un semplice termine, formato solo da una consonante e da una vocale, “ma”, può avere cinque significati diversi a seconda del tono usato.

La voce, quindi, è un aspetto essenziale nella comunicazione di tutti i giorni, ed è anche quella caratteristica unica che rende speciale ogni persona e che ci fa anche emozionare. Quante volte, infatti, telefoniamo ad un nostro parente, fidanzato/a, amico/a, dicendogli, semplicemente: “Volevo solo sentire la tua voce!”. Oppure, pensando ad una persona che non è più con noi, ci commuoviamo pensando che non potremmo più sentirla all’altro capo del telefono?

Inoltre, la voce rimane nella nostra memoria uditiva per molto tempo ed è la prima caratteristica che ci fa subito distinguere una persona da un’altra; pensiamo, ad esempio, ai nostri attori preferiti, che riconosciamo subito dalle voci dei doppiatori.

La nostra voce, in conclusione, è una parte importante della nostra quotidianità e delle nostre relazioni sociali. Pertanto, la prossima volta che dobbiamo comunicare qualcosa ad un’altra persona, riflettiamo sull’importanza di come la usiamo e su come il nostro interlocutore possa interpretare le nostre parole: forse quando una amico si offende per una nostra frase, non è tanto per ciò che abbiamo detto, ma per il modo in cui lo abbiamo fatto.

                                  Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Cervello maschile e femminile: quali differenze?

Tu non mi capisci!”.Mettiti nei miei panni”. “Non mi comporterei mai come te!”.

Quante volte, durante una discussione con l’altro sesso, abbiamo pronunciato frasi simili?

Queste espressioni sono dettate solo dalla rabbia o delusione di quel momento? Beh, a giudicare dalle molteplici ricerche svolte sulle differenze tra uomo e donna sembrerebbe di no; piuttosto hanno un fondo di verità.

Donne e uomini, di fronte alle stesse situazioni, mettono in atto comportamenti diversi, talvolta opposti, rendendone difficile la comprensione da parte dell’altro sesso e creando incomprensioni e discussioni.

Le diversità che si riscontrano nell’affrontare una situazione o un problema dipendono dalle caratteristiche che distinguono il cervello. Anche se non si può parlare in modo categorico di “cervello maschile” e “cervello femminile”, esistono comunque delle differenze nel modello di organizzazione e nelle procedure di elaborazione e risposta delle informazioni provenienti dall’esterno.

Scultura a Courmayeur (Foto di Lorenza Fiorilli)

Anche dal punto di vista anatomico vengono riscontrate delle differenze: il cervello degli uomini pesa in media il 10-15% in più rispetto a quello delle donne e, pur funzionando con le stesse sostanze chimiche, queste vengono prodotte in diverse quantità.

Inoltre, nel genere maschile prevale l’emisfero sinistro, specializzato nelle funzioni razionali, analitiche e logiche; questo fa sì che gli uomini siano più portati, in genere, per i ragionamenti matematici e meccanici e riescano meglio in compiti di orientamento spaziale.

Le donne, invece, possono possedere fino al 40% di connessioni in più tra l’emisfero sinistro e quello destro, specializzato nell’intuizione, nella creatività e nella sfera emotiva. Queste connessioni sono ciò che permettono al genere femminile di fare più cose contemporaneamente. Inoltre, le donne hanno un vantaggio nelle abilità verbali.

Tali differenze anatomiche si ripercuotono sulle scelte comportamentali e sulle reazioni emotive.

Di fronte ad una decisione da prendere, le donne analizzano la situazione considerando maggiormente l’aspetto emotivo; questo perché sono più portate per la comprensione delle emozioni, dello sguardo e del comportamento non verbale. Gli uomini, al contrario, giungono ad una decisione in maniera più razionale, giudicando la situazione problematica in maniera più generale.

Diverso è anche il modo con il quale si gestisce e si cerca di risolvere un problema: la maggior parte degli uomini preferisce non parlarne apertamente e cerca di risolvere la situazione da solo. Le donne preferiscono, invece, affrontare direttamente la situazione problematica, soffermandosi in particolare sulle emozioni che crea quella situazione, e prima di giungere ad una conclusione preferiscono confrontarsi anche con altre persone a loro vicine.

Le piccole e grandi differenze tra i due sessi non si esauriscono, ovviamente, in quelle sopra citate; sarebbe impossibile elencare i risultati dei molteplici studi ed esperimenti che sono stati condotti negli anni su questo tema.

Questo mio articolo ha voluto, piuttosto, essere uno spunto di riflessione sulle divergenze tra i comportamenti messi in atto dai due sessi.

La prossima volta che vi trovate in macchina con il vostro fidanzato o marito che si ostina a non chiedere informazioni stradali o a non usare il navigatore, o, al contrario, con la vostra fidanzata o moglie che, invece, domanda a tre persone diverse quale sia il miglior tragitto per raggiungere un luogo, piuttosto che adirarvi, riflettete che sta ragionando con un cervello diverso dal vostro! E sforziamoci, in ogni situazione, di comprendere meglio il punto di vista dell’altro.

                         Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Quella cuccia vuota…

La sua cuccia vuota, la ciotola senza più croccantini, il suo gioco preferito non più in giro per le stanze, il silenzio della casa senza più il suo abbaiare o miagolio, quel dolce rumore delle sue zampe quando ci veniva incontro…

Quella sensazione di vuoto, di tristezza, di malinconia, di rabbia, di abbandono che si prova quando ci lascia per sempre un animale che abbiamo amato, anzi, che amiamo, perché la morte di un qualunque essere vivente, umano o non, non spezza il legame d’amore.

Purtroppo molte persone non riescono a comprendere quanto dolore sia causato dalla perdita di un animale domestico e continuano a proferir parola: “Ma era solo un animale!”,Ne prenderai un altro!”,Ora stai esagerando!”, senza sapere quanto fastidio possano arrecare con quelle frasi.

La morte di una animale con cui abbiamo percorso un pezzo della nostra vita, più o meno lungo, è, invece, un vero e proprio lutto e come tale va rispettato e va affrontato. Ovviamente, ogni persona reagisce in modo diverso, e queste differenze dipendono anche dal periodo che stiamo attraversando  in quel momento e dalla fase di vita in cui sperimentiamo quella perdita: un bambino, un adulto o  una persona anziana per la quale il suo “amico peloso”  era l’unica compagnia, avranno modi diversi di affrontare  la mancanza di un cane,  di un gatto o di qualunque altro animale.

Molto delicato e controverso è anche un altro aspetto: quello dell’eutanasia, ma le emozioni contrastanti di questo aspetto possono comprenderle fino in fondo solo chi ha affrontato questa esperienza. Da un lato si vuole continuare a tenerlo con sè, e da un altro il veterinario di fiducia che ti fa notare quanto tu sia egoista, perché la vita per il nostro animale è diventata, ormai, troppo dolorosa. Quando, dopo notti insonne e lacrime versate, si arriva alla seconda decisione, si è assaliti da rimorsi e sensi di colpa, come conferma anche uno studio di ricercatori statunitensi che ha affermato che il cinquanta per cento dei proprietari che hanno fatto sopprimere il proprio animale si senta in colpa e rimugini sul passato e sulle cose che avrebbe potuto fare prima.

Perdere un animale è come perdere un pezzo della nostra vita, ma bisogna accettare e superare il lutto, ognuno con i propri tempi.

Come non esiste un amore di serie A e di serie B, così non esiste un dolore di serie A e di serie B.

Può essere difficile comprendere a pieno tale dolore per chi non ho lo ha vissuto, ma che, almeno, venga rispettato.

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Il pettegolezzo: “innocuo passatempo” o “freccia velenosa” ?

Chi ha fatto cosa? Ma davvero dici?”.   “Hai visto quella lì? Dicono che…”.  “Sembra che abbia fatto..”

Queste e altre frasi si ritrovano nel pettegolezzo, una forma di comunicazione non necessaria e che non porta a nessun obiettivo in particolare.

Anche se può sembrare un argomento “frivolo” o di poco conto, in realtà il pettegolezzo è studiato da diversi psicologi che si occupano di comunicazione e molti ricercatori hanno messo in atto diversi esperimenti per comprenderne meglio le dinamiche.

Se prendiamo un comune vocabolario, sotto il termine “pettegolezzo” troviamo scritto: “Chiacchera inopportuna, indiscreta o malevola”.

Esso comporta diverse informazioni trasmesse di bocca in bocca, che passando da un soggetto ad un altro vanno incontro alla riduzione o aggiunta di particolari, ad omissioni, a deformazione, e questo porta alla conseguenza che la “notizia” di partenza si modifichi. Si parla, in questo caso di accentuazione, ovvero il fenomeno per il quale alcuni particolari scompaiono mentre altri diventano salienti e proprio intorno a questi ultimi si crea la diceria.

Diversi studi hanno sottolineato una caratteristica comune nel pettegolezzo: quella dell’asimmetria sociale, ovvero sono soprattutto le azioni e i comportamenti dei personaggi pubblici o delle persone che occupano una posizione sociale superiore ad essere oggetto di dicerie.

Inoltre, sempre secondo alcuni ricercatori, il pettegolezzo è un indicatore dell’invidia sociale: chi mette in atto i pettegolezzi, di solito, non è nella condizione di fare ciò che la persona oggetto della diceria fa o è in grado di fare.

Un’altra caratteristica del pettegolezzo è quello di essere considerato, da chi lo ascolta, un’informazione molto credibile: anche se non ha nessun fondamento razionale ed oggettivo, esso viene trattato come fosse un’informazione scientifica e documentata.  Questo perché, la maggior parte delle volte, le dicerie vengono messe in giro da persone con legami interpersonali forti, come un parente, un vicino di casa, un compagno di scuola, la cui credibilità non viene, pertanto, messa in discussione da chi ascolta. Ma, nonostante questa peculiarità del pettegolezzo, esso diventa, quasi in modo paradossale, impersonale, cioè, la responsabilità diventa impersonale, e questo fenomeno è ben esemplificato dalle premesse dei discorsi, quali: “Si dice che..”,Sembra che..”,  “Hanno visto..”.

A volte, il pettegolezzo può trasformarsi in maldicenza, che ha lo scopo di denigrare, calunniare ed infangare il buon nome di che ne è vittima. Essa rappresenta una vera e propria forma indiretta di violenza e di aggressione indiretta; uno studio condotto da un gruppo di psicologi britannici ha messo, infatti, in evidenza come le aggressioni dirette (ovvero quelle fisiche) e quelle indirette (verbali) svolgano funzioni simili.

Non si ferisce solo con una spinta o con uno schiaffo, ma anche con le parole e con chiacchere che molti considerano innocue o un “semplice” passatempo.

                                        Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Il secondo cervello? Nella pancia!

Alla maggior parte delle persone sarà capitato, dopo una discussione, una delusione, una preoccupazione, di manifestare sintomi quali crampi allo stomaco, nausea, bruciori, gonfiore o di non riuscire a mangiare sperimentando la sensazione di “stomaco chiuso”.

Il nostro intestino è uno dei primi bersagli degli effetti psicosomatici correlati allo stress; siamo in presenza, quindi, di somatizzazione, ovvero il fenomeno per il quale sperimentiamo sintomi fisici che però non hanno nessuna causa organica.

Diverse ricerche scientifiche hanno dimostrato che eventi stressanti provocano disturbi e, in alcuni casi, anche lesioni al sistema digerente. Si parla, in questi casi, di patologie funzionali, ovvero senza una causa organica nota, e tra queste troviamo la sindrome del colon irritabile.

Perché avviene tutto ciò? Perché quando proviamo emozioni negative abbiamo ripercussioni specialmente sul nostro apparato digerente?

In quest’ultimo si trova un gruppo di cellule nervose, dette, nel loro complesso, cervello addominale; tali cellule comunicano con il nostro sistema nervoso: c’è, quindi, uno “scambio di informazioni” tra i nostri “due cervelli”.

Il cosiddetto cervello addominale è in grado di funzionare in modo autonomo, come se fosse, appunto, un secondo cervello, e controlla le contrazioni intestinali e il flusso sanguigno nella parete intestinale.

Le aree cerebrali coinvolte nella reazione allo stress provocano delle secrezioni di ormoni e neurotrasmettitori che intervengono sull’intestino, e quest’ultimo invia al cervello messaggi che provocano, a loro volta, un nuovo rilascio delle stesse sostanze, in una specie di circolo ininterrotto. In situazioni di stress vengono, perciò, prodotte da diverse aree cerebrali alcune molecole, presenti anche nell’apparato digerente, che, una volta rilasciate, provocano alterazioni del funzionamento intestinale.

Diversi sono gli effetti di un evento stressante sull’apparato digerente: dolori durante la digestione, accelerazione dell’attività del colon, alterazione della flora intestinale, fino alle infiammazioni croniche.

Ovviamente, ognuno reagisce in modo diverso agli eventi negativi o traumatici e anche in caso di disturbi legati all’apparato digerente, diversa sarà la loro entità. I disturbi intestinali, così come altri disturbi psicosomatici, dipendono dalla capacità di adattamento psicologico del singolo individuo: in caso di adattamento positivo, l’organismo ritrova un nuovo stato di equilibrio, mentre in presenza di un adattamento negativo, l’organismo si esaurisce e lo stress provoca, di conseguenza, disturbi fisici.

Alcune volte non possiamo impedire agli gli eventi negativi di accadere, in quanto non dipendono da noi, ma possiamo comunque imparare a gestirli e ad affrontarli. In particolare, coloro che somatizzano soprattutto a livello dell’apparato digerente possono mettere in atto alcuni comportamenti, alcune piccole accortezze per fare in modo di non peggiorare i loro disturbi; ad esempio consumare i pasti in un clima rilassato, sedersi a tavola con persone con le quali fa piacere stare insieme ed evitare discussioni nelle ore che precedono e seguono i pasti.

La prossima volta, pensiamoci bene prima di accettare un invito a pranzo da una persona con cui non ci sentiamo a nostro agio!

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Uno straordinario giorno normale…

Quanti di noi, a fine giornata, prima che le nostre vite fossero sconvolte da questa tragedia, esclamavano: “Oggi è stato come ieri! Non è successo niente di particolare! Le solite cose!”.

Ecco, credo che in futuro sarà una frase che non ripeteremo tanto spesso, perché ognuno di noi ormai ha capito l’importanza di ogni singolo giorno, di ogni singolo minuto che trascorriamo in serenità e libertà.

A questo proposito, lascio parlare al mio posto, una metafora, che viene usata dagli psicologi per formare gruppi di lavoro.

 La lessi per la prima volta sedici anni fa, su un libro sul quale stavo preparando il mio ultimo esame universitario.  Spero che vi faccia riflettere ed emozionare.

Buona lettura.

                                                        Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Il paese dei giorni

C’era una volta il paese dei giorni. Lì abitano tutti i giorni che sono già accaduti e quelli che verranno. In questo paese abita una famiglia nobile, che ha dato i natali a tanti giorni importanti della storia dell’uomo: il giorno della scoperta del fuoco, quello della ruota, dell’America, quello della rivoluzione francese, quello della carta dei diritti dell’uomo, un altro ancora della liberazione.

Ora questa famiglia sta aspettando un nuovo giorno e c’è molta trepidazione. Tutti sperano che questo nuovo giorno diventi famoso come gli altri parenti: ma questo lo potranno sapere con certezza solo dopo alcuni anni.

Così il nuovo nato arriva sulla terra e comincia il suo giro esplorativo. E come ogni neonato è curioso, pronto a scoprire tutte le cose belle, nuove, creative che ci sono in questo giorno, unico nella storia del mondo, che non c’è mai stato prima e non ci sarà mai più. E’ affascinato da tutto ciò che vede, dalle semplici cose quotidiane che accadono in ogni famiglia. Al nuovo giorno tutto sembra meraviglioso, straordinario e non vede l’ora di poter raccontare ai suoi genitori, e a tutta la sua numerosa famiglia riunita, tutte le cose che ha visto. Arriva la notte fonda e lui sa che il suo giorno è finito e che un altro giorno sta per nascere.

Allora discretamente si allontana e torna nel paese dei giorni.

Appena arrivato a casa i genitori e i familiari riuniti gli chiedono di raccontare cosa ha fatto o visto accadere. E lui racconta di colazioni consumate in famiglia, di genitori che sia amano, di giardini con nonni e nipotini, di mamme che generano figli, di feste di compleanno, di matrimoni tra giovani amanti.

E si accorge che i genitori pongono domande strane a cui non sa bene come rispondere. Gli chiedono se si è sposato qualche re, se è stato assegnato un qualche premio nobel, se qualche sportivo ha raggiunto un nuovo record, se qualche scienziato ha scoperto qualcosa di sconvolgente e lui che ha girato per tutta la terra sa che non è successo niente di tutto questo.

Allora i fratelli e i cugini cominciano a chiedergli se è successo almeno qualche disastro ferroviario o aereo, qualche catastrofe naturale, qualche nubifragio o terremoto. Ma il nuovo giorno continua a dire no, niente di tutto questo. Tutto quello che ha fatto o visto accadere l’ha già raccontato. I genitori e tutta la famiglia sono molto delusi da questo nuovo rampollo, e temono che non verrà ricordato dalla storia dell’uomo.

Eppure il bambino sa in cuor suo che invece è stato un giorno straordinario, unico. Lui sa di avere tanti ricordi teneri, fatti di semplicità e affetto che nessuno potrà portargli via.

Finalmente, dopo un po’ di tempo, arriva la tanto attesa lettera, quella che informa sull’importanza riconosciuta dagli esperti a quel giorno. Sulla lettera vi è la prova scritta e la famiglia potrà verificare se questo figlio è degno del casato o se ne sarà il disonore.

Sono tutti riuniti e con molta trepidazione aprono lentamente la busta per leggere velocemente che il giorno del loro ultimo nato è stato eletto “giorno della pace universale”.

Il fatto che in quel giorno non fosse successo niente di particolare, nessun grande avvenimento, e soprattutto nessuna disgrazia, lo aveva reso davvero straordinario.

(Brano tratto da “I porcospini di Schopenhauer”, di Consuelo Casula. Edizioni Franco Angeli).