Ode all’uva: come e quando consumarla per sfruttarne le sue proprietà. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

I Fenici la portarono, dalle loro terre, in Grecia e, a loro volta, gli Ellenici, dopo aver colonizzato l’Italia meridionale, fecero conoscere agli abitanti della nostra penisola la sua coltivazione che venne poi continuata dagli Etruschi, prima, e dai Romani poi.

Stiamo parlando della vite, pianta, questa, che è legata a doppio filo con la storia dell’umanità, dato che le prime testimonianze parlano della presenza della vitis vinifera in Cina circa 7000 anni fa.

Alcuni retrodatano la sua prima apparizione nel lontano Neolitico, quando gli uomini scoprirono che dalla fermentazione del frutto della vite si poteva produrre una bevanda.

Molteplici i significati simbolici dell’uva: abbondanza, ricchezza, fertilità.

I grappoli sono stati immortalati anche in molti dipinti: il grande Caravaggio li scelse, più volte, come protagonisti delle sue opere, come nel “Canestra di frutta”,  mentre Monet  li dipinse nella “Natura morta con mele e uva” all’interno del quale il cesto è strabordante di grappoli rotondi, perfetti, dorati ed invitanti.

Ma l’uva, simbolo dell’autunno, è anche un frutto dalle mille proprietà, come afferma il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.  

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

    
Conosciamola più da vicino attraverso la sua “carta d’identità”, grazie alla quale la apprezzeremo non solo come un frutto dolce e gustoso: “Contiene acqua, zuccheri, fibre, sali minerali quali potassio, ferro, fosforo, calcio, manganese, magnesio, iodio, silicio, cloro, vitamine A, B, C, K e polifenoli. 100 g di uva apportano 61 kcal (una mela o un kiwi ne hanno circa 50 kcal), gli zuccheri, con 15,6 su 100 grammi, sono la voce più consistente, seguita da proteine, 0,5 g/100, e grassi, 0,1g/100. Una porzione da portata equivale a circa 150 grammi e dato che, come abbiamo visto, contiene molti zuccheri, chi è diabetico dovrebbe consumarla con moderazione, soprattutto dovrebbe prediligerne il consumo a colazione o come spuntino. Per tutti gli altri, il consiglio è di mangiarla di giorno e lontano dai pasti. Per chi invece non riesce a rinunciare al “dolcetto” dopo cena, diciamo che l’uva è una scelta molto più salutare”.

Dagli acini  arriva un grande aiuto contro: Astenia, fragilità del sistema nervoso e di quello osseo, stipsi, malattie della pelle”.

Non sono pochi coloro i quali, complice la bontà di tale frutto, decidono di seguire la cosiddetta “dieta dell’uva”  che, in gergo tecnico, prende il nome di Ampeloterapia, la quale permette di purificare intestino e fegato grazie alla presenza di acqua, fibre, sali minerali e vitamine”.

 Tale dieta, però, come tante altre, non contempla il “fai da te”, non essendo “Una dieta sana e bilanciata. Richiede infatti, l’intervento di un professionista che indicherà al paziente le modalità da seguire, ovvero 200 grammi di uva preferibilmente nera, per 5 volte al giorno, per un massimo di 2 giorni consecutivi a settimana”.

Sempre il professionista potrà sconsigliarla in presenza di patologie quali :” Ulcera, colon irritabile, ipertensione, diabete e disfunzioni renali”.

 A rendere l’uva una preziosa alleata per la nostra salute sono molte sostanze, tra queste: “Il resveratrolo, una molecola ad azione antiossidante e  la quercetina,  un flavonoide che rappresenta una straordinaria fonte di energia, e proprio questa sua caratteristica la rende ottimale per fornire sostegno durante lo svolgimento dell’attività sportiva o anche  in caso di spossatezza fisica”.

Recenti studi hanno persino evidenziato come: ”L’uva possa avere un importante ruolo nella regolazione sonno- veglia grazie alla  la presenza di melatonina, ormone che  la nostra ghiandola pineale produce proprio durante il sonno”.

Non solo, ma questo delizioso frutto autunnale è prezioso anche per aumentare: “ Il senso di rilassamento e di piacere, grazie all’elevato contenuto di zuccheri semplici,  che consente di stimolare il sistema limbico del piacere, inducendo la produzione di betaendorfine”.

Ovviamente, nonostante le tante qualità dell’uva, può esserne sconsigliato il consumo: “E’ controindicata in persone affette da calcoli renali, gastroenterocoliti, ulcera gastro-duodenale, diverticoliti e diverticolosi”.

L’uva sembra avere benefici effetti anche sul cervello: “ In uno studio di 12 settimane su 111 anziani sani, 250 mg al giorno di un integratore a base di questo frutto hanno migliorato significativamente i punteggi in un test cognitivo che misurava attenzione, memoria e linguaggio rispetto ai valori di base”.

I deliziosi grappoli:” Contengono polifenoli i quali sono in grado di modulare positivamente la componente batterica aumentando il numero di Lactobacillus e Bifidobacterium e pertanto hanno un effetto anche sul microbiota intestinale.”.

Ode all’uva, dunque, della quale non si butta via niente, neanche i semi: “ Alla maggior parte delle persone, ovviamente, non piacciono per via del loro gusto amarognolo, eppure, a meno di condizioni particolari, non andrebbero eliminati, ma masticati con cura, ricchissimi, come sono, di acidi grassi a catena corta e di vitamina B6”.

                                            Alessandra Fiorilli

Viaggio nel mondo dell’acqua: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Biologo nutrizionista e Ricercatore

L’acqua: non solo uno dei quattro elementi naturali, ma il simbolo stesso della vita.

Di questo fluido così essenziale per la sopravvivenza umana, gli scienziati sono andati alla ricerca anche in altri pianeti e la sua assenza o presenza nel sottosuolo è sempre stata legata alla famosa frase “C’è acqua, c’è vita”.

Di questo elemento così indispensabile ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.

  

       

L’acqua e l’uomo: un binomio inscindibile:” L’acqua è fondamentale per il corpo umano poiché svolge funzioni essenziali per la vita. Infatti, è necessaria per distribuire le sostanze nutritive nei vari distretti corporei e rimuovere i prodotti di scarto che derivano dai processi metabolici, espulsi tramite sudore e urine. In più, lubrifica le articolazioni attraverso la stimolazione della sintesi di liquido sinoviale e sostiene lo sviluppo del tessuto muscolare, ostacolando l’effetto catabolico del cortisolo (ormone dello stress). L’acqua è fondamentale anche per regolare la temperatura corporea e per garantire un corretto transito intestinale

A ogni età la sua quantità di acqua:  “Secondo i LARN, 800 ml è considerata un’assunzione adeguata per i neonati a partire dallo svezzamento, selezionando acque minimamente mineralizzate per non sovraccaricare i reni ancora non perfettamente sviluppati. Per i bambini che hanno raggiunto i 6 anni di età la quantità raddoppia, con l’indicazione a preferire un’acqua  medio minerale ricca in calcio, magnesio e fluoro per supportare le fasi di crescita. In età adolescenziale, 1900-2000 ml è la richiesta minima da soddisfare, scegliendo un’acqua medio minerale bicarbonato calcica e magnesiaca. L’apporto idrico di riferimento per gli uomini è di 2500 ml, mentre 2000 ml per le donne, optando in questo caso per un acqua oligominerale. In caso di gravidanza e allattamento il fabbisogno aumenta rispettivamente di 350 ml e 700 ml”

Bere solo quando si ha sete: un errore alquanto comune. Perché non bisogna attendere di avere la sensazione di sete? :”Beh, perché quando si registra lo stimolo della sete il nostro corpo ci sta inviando un segnale importante: il bilancio idrico è già in perdita! Un po’ come fosse un campanello di allarme, questa sensazione ci avverte che ci stiamo disidratando (ed infatti si inizia a percepire anche secchezza delle fauci). Proprio per questa ragione, occorre distribuire equamente nel corso dell’intera giornata la quantità di acqua necessaria per il nostro organismo, così da garantire in ogni momento un regolare apporto idrico. L’impulso che ci spinge a bere è regolato da un’area situata nell’ipotalamo (una struttura del sistema nervoso centrale, collocata tra i due emisferi cerebrali), chiamata centro della sete”.

Non sempre si beve la quantità necessaria di acqua nel corso della giornata e specialmente le persone anziane  tendono a bere meno di quanto occorrerebbe loro. Per quale motivo?

“Per un discorso di natura fisiologica: i sistemi di comunicazione dell’organismo perdono  efficienza col passare degli anni, per cui gli anziani non sempre avvertono la necessità di dissetarsi. In più, possono essere presenti ulcere in bocca oppure malattie a carico delle vie aeree superiori (come il mal di gola) che rendono la deglutizione dolorosa, oppure patologie come l’Alzheimer che possono compromettere la funzionalità dell’aerea ipotalamica deputata all’elaborazione dei segnali di sete”.

L’acqua corrente di casa  e quella potabile e sempre fresca delle fontanelle di una volta, poi l’avvento delle acque imbottigliate, quale è la scelta migliore? :” Per un discorso di tutela ambientale (oltre che di risparmio e comodità),  meglio l’acqua del rubinetto, a patto che se ne conosca la composizione! Innanzitutto, per essere definita potabile, deve avere delle particolari caratteristiche organolettiche (limpida, inodore, incolore ed insapore) oltre ad essere priva di contaminanti microbiologici e chimici. Spesso il problema non è l’acqua che scorre nell’acquedotto, ma quella che da quest’ultimo, attraverso tubature mal conservate, arriva dentro le abitazioni. Sarebbe opportuno, dunque,  farla analizzare prima di consumarla abitualmente e verificare che i livelli di sostanze usate a scopo disinfettante, come il cloro ad esempio, siano entro i limiti di legge”.

Sugli scaffali dei supermercati si trovano tantissime etichette tra le quali scegliere, ma in presenza di alcune patologie, anche benigne, c’è un tipo particolare di acqua da prediligere? :” Sicuramente in presenza di ipertensione il consiglio è quello di preferire un’acqua oligominerale ed iposodica, così da favorire un miglior controllo della pressione ematica.  In caso di calcoli renali, la più indicata è senza dubbio quella bicarbonato-calcica, in grado di ostacolare i processi di formazione di cristalli di acido urico e ossalati. Questo tipo di acqua è consigliata anche in presenza di gastrite, poiché tampona l’ eccessiva acidità dello stomaco causata da una più elevata secrezione di acido cloridrico. L’acqua solfata  facilita il ripristino del regolare transito intestinale ed è quindi indicata in caso di stitichezza, mentre quella calcica è assolutamente consigliata per i  soggetti con osteoporosi e osteopenia, considerando l’aumentato fabbisogno del minerale in questione”.

Bere in gran quantità durante i pasti è consigliabile? :”Meglio bere lontano dai pasti: oltre a diminuire l’efficienza dell’acido cloridrico, rallentando così la digestione, bere con abbondanza al pasto dilata lo stomaco, alterando il senso di pienezza e causando gonfiore addominale che ci accompagnerà per tutta la digestione. Beviamo con abbondanza nella giornata, mentre durante il pasto è meglio bere solo quando abbiamo sete”

Anche praticare attività fisica richiede un apporto della giusta quantità di acqua:

“Innanzitutto, in caso di attività fisica è preferibile bere sia prima che durante la sessione di allenamento, così da compensare nell’immediato la perdita di acqua attraverso la sudorazione (una disidratazione del 2% può già compromettere l’esito della performance sportiva). Per gli sportivi si consiglia di aggiungere al fabbisogno idrico raccomandato per la propria fascia di età specifica circa 150-300 ml di acqua per ogni 20 min di esercizio fisico svolto, preferibilmente medio minerale per reintegrare i Sali persi con la sudorazione”.

Bere molta acqua prima di coricarsi la sera, invece, non può essere considerata una scelta ottimale:” L’acqua prima di andare a dormire francamente la eviterei per non doversi alzare durante la notte interrompendo il sonno e alterando la produzione di melatonina. Da dopo le 18.00 meglio bere solo se si ha sete. Al risveglio, invece un bicchiere di acqua tiepida, magari con l’aggiunta di un limone spremuto, è un aiuto per la regolarità intestinale per quelle persone che hanno l’intestino pigro”

Acqua ghiacciata: per alcuni specie d’estate, è un’abitudine alla quale è difficile riuscire a rinunciare, anche se, come afferma il Professor Bolognino: La digestione prevede un afflusso di sangue a stomaco ed intestino, e quando si consuma acqua ghiacciata (lo stesso discorso vale per un alimento freddo) si innesca un meccanismo di vasocostrizione, alterando la capacità digestiva dello stomaco. È così che questo shock termico causa la classica congestione. Se preferiamo bere un po’ di acqua fresca, meglio tirarla fuori dal frigo un quarto d’ora prima di consumarla!”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio  Bolognino il quale, grazie al suo linguaggio asciutto ma efficace, tecnico ma comprensibile a tutti, ci regala sempre un’angolazione scientifica dalla quale poter vedere aspetti quotidiani del mondo dell’alimentazione e dello star bene.

                                 Alessandra Fiorilli

Il miele: un “cibo degli dei” con tante benefiche proprietà. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

4000 anni fa, nell’Antico Egitto, gli apicoltori rispettando il ritmo delle stagioni, seguivano, con le proprie arnie, la fioritura delle piante per produrre il prezioso miele che gli Egizi usavano sia per l’alimentazione, sia nella medicina che per accompagnare il viaggio nell’aldilà dei propri cari, deponendo nei sarcofagi coppe ricolme di miele.

Anche nella storia dei Sumeri e dei Babilonesi troviamo tracce dell’importanza che questo alimento zuccherino rivestiva nella loro civiltà,  e proprio nel Codice di Hammurabi c’erano degli articoli che sanzionavano il furto del miele, tutelando, così la categoria degli apicoltori.

Per i Greci era, semplicemente, “il cibo degli dei”, mentre i Romani lo utilizzavano per la produzione di salse agrodolci nonché come dolcificante e conservante.

Giungendo negli anni più vicini a noi, fu gradualmente soppiantato dallo zucchero raffinato per dolcificare cibi e bevande, ma recentemente c’è di nuovo grande interesse verso quest’alimento che ha caratterizzato le varie epoche storiche.

In questo singolare viaggio nella dolcezza, ci accompagnerà il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.  

    
Gli Egiziani furono i primi ad usare il miele in campo medico, per contrastare i disturbi digestivi, ma anche come base per la preparazione di creme ed unguenti con cui curare piaghe e ferite. Quindi nell’antichità erano già note le proprietà curative di questo alimento :” L’impiego del miele ad uso terapeutico è testimoniato persino nelle pitture risalenti all’Età della Pietra, ed è descritto anche nelle Sacre Scritture. Le proprietà medicamentose sono da rintracciare nei 13 batteri lattici che vi si trovano nella sua composizione e proprio tali batteri vanno a contrastare gli agenti responsabili di diverse infezioni, tra cui influenze, bronchiti e raffreddori. Inoltre, le cellule batteriche vengono disidratate dall’elevata concentrazione di zucchero, diventando, quindi, più vulnerabili. I flavonoidi, invece, riducono l’aggregazione piastrinica diminuendo, così,  il rischio di trombosi e, stimolando la vasodilatazione migliorano la circolazione sanguigna”.  

Dopo aver parlato delle proprietà medicamentose del miele, vediamo qual sia il momento migliore della giornata in cui assumerlo e in che quantità :” In media, si consiglia di assumere circa 30 g al giorno, pari a 3 cucchiai rasi e sono vari i modi in cui possiamo consumarlo:  un cucchiaino nello yogurt bianco per aromatizzarlo, per dolcificare il latte o il the, stando attenti a non aggiungerlo quando la bevanda è ancora bollente per evitare la perdita di micronutrienti termolabili, spalmandolo su una fetta di pane tostata con cui fare colazione o merenda, o per accompagnare  formaggi, sia a pasta filata che freschi, facendo però attenzione alla quantità, essendo il miele molto calorico”.

Le calorie fornite dal miele: è giunto il momento di parlarne, anche per sfatare falsi miti.   

“Il miele fornisce circa 300 Kcal per 100 grammi di prodotto e, confrontandolo con lo zucchero bianco da tavolo, è meno calorico. Ha un elevato potere dolcificante grazie alla presenza più consistente di fruttosio  che è comunque ridotto rispetto allo zucchero bianco”.

Una differenza sostanziale c’è nel contenuto dello zucchero rispetto al colore: “ Tutti i tipi di miele hanno la caratteristica di contenere una percentuale di zucchero (glucosio e fruttosio) pari a circa l’80% del prodotto, mentre il restante 20% è costituito da acqua.

Il miele di colore chiaro è più dolce, in quanto la percentuale di glucosio e fruttosio è maggiore rispetto alle varianti scure che sono, invece, più ricchi  in minerali, specialmente potassio, zolfo, sodio, calcio, fosforo, mentre le vitamine più rappresentate sono quelle del gruppo B e la vitamina C, che generalmente si perdono nel processo di pastorizzazione. Tra le varietà scure ci sono il miele di  castagno, dal colore bruno, il miele di corbezzolo, con il suo colore ambrato, il miele di erica, dalla colorazione marrone-arancio,  il miele di eucalipto, brunastro. Tra quelli di colore chiaro c’è anche quello di lavanda, mentre il millefiori, ricavato dal polline di differenti fiori, va dal colore ambrato al rossastro”.     

Possiamo consumarlo tutti tranquillamente o ci sono delle categorie di persone alle quali è sconsigliato? “ L’unica categoria di persone a cui è sconsigliato è costituita dai bambini sotto l’ anno di età, per evitare il pericolo di botulismo (tossina prodotta dal batterio Chlostridium botulinum) . In soggetti che soffrono di diabete o chi è sovrappeso o obeso, il consumo deve essere moderato, anche se è possibile integrarlo all’interno di una dieta dimagrante, perché, è bene ricordarlo,  è sempre la quantità con cui si assume un cibo a fare la differenza!  Per gli sportivi rappresenta un valido alleato, poiché fornisce energia rapidamente, specialmente prima o subito dopo uno sforzo. Ottimo anche per i ragazzi in età scolare, in quanto è di supporto per le funzioni cognitive, mentre  per gli anziani è indicato in caso di inappetenza”.

Proprio a rafforzare la tesi, già sostenuta dagli Antiche Greci, per i quali il miele era “il cibo degli dei”, ci vengono in aiuto le diverse proprietà che differenziano i vari tipi di miele.

:” Il miele di castagno, energizzante e dal sapore intenso con retrogusto amarognolo, con la sua maggior quantità, rispetto agli altri, di potassio, sodio e magnesio,  è consigliato nei casi di astenia e affaticamento. Il miele di tiglio, con il sapore intenso, dolce e mentolato,  grazie alle sue proprietà sedative, rappresenta un valido supporto nelle condizioni di nervosismo e insonnia, grazie alla presenza dell’amminoacido triptofano (precursore dell’ormone serotonina). Il miele millefiori, con l’aroma forte e gradevole, possiede proprietà espettoranti con azione battericida,  pertanto risulta essere un grande alleato per la salute delle vie respiratorie, così come il miele di eucalipto.  Il miele di acacia, dolce e con un impercettibili gusto amarognolo,  ha un’azione disintossicante sul fegato e contrasta l’acidità di stomaco, mentre quello di lavanda ha particolare efficacia nelle applicazione topiche su punture di insetto e ferite. I mieli di corbezzolo ed erica, invece, svolgono un’azione diuretica e disinfettante, agendo in termini di prevenzione e supporto delle infezioni delle vie urinarie”.

Essendo un alimento, ci si chiede cosa debba esserci scritto sull’etichetta o se anche il miele debba avere una data di scadenza: E’ preferibile acquistare un miele italiano e meglio ancora comprare il prodotto di  aziende che commercializzano miele dei propri alveari, il che rappresenta una  garanzia di un controllo che si snoda in tutte le varie fasi di produzione. Per quanto attiene alla data che compare sull’etichetta, c’è da dire che non si riferisce alla scadenza ma al termine minimo di conservazione, ovvero il limite ultimo all’interno del quale c’è la garanzia che le proprietà organolettiche del miele si conservino intatte. Dopo un periodo di tempo che va dall’anno e mezzo ai due anni, può accadere che il miele imbrunisca, perdendo, così, non solo  le vitamine contenute, ma anche divenendo lievemente più acido. Una volta superata la data riportata sulla confezione, inoltre, si può verificare una diminuzione degli zuccheri semplici, e nel caso in cui il miele non sia ben conservato, tale processo può avere un’accelerazione, ecco perché è importante tenerlo in un luogo buio, senza esposizione diretta ai raggi solari, asciutto e a temperatura moderata (  circa 20 gradi). La salubrità del miele può essere messa a rischio solo se c’è un aumento del contenuto dell’acqua, ad esempio se viene conservato in un ambiente umido : in tal caso possono svilupparsi dei lieviti”.

C’è un grande interesse, specie negli ultimi anni, verso i prodotti biologici, cosa possiamo dire a proposito del miele?” La dicitura “prodotto biologico” non presuppone che quel miele sia anche integrale, perché potrebbe comunque essere stato riscaldato. E’ bene invece dire cosa si intenda per miele integrale e  non sottoposto a trattamenti termici, diciture che possiamo trovare sull’etichetta:   sono garanzia di un prodotto artigianale ed integrale, in quanto  il miele integrale non viene sottoposto ai trattamenti di pastorizzazione che sono   responsabili della perdita di vitamine (vitamine del gruppo B e vitamina C sono infatti termolabili) e di altre sostanze benefiche. Il miele viene, quindi, posto nel barattolo direttamente come si presenta nei favi delle api”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio Bolognino per questo viaggio nell’affascinante mondo del miele, un alimento che appartiene alla storia dell’uomo e che dovremmo imparare ad appezzare di più.

                                      Alessandra Fiorilli

Iperuricemia: una condizione clinica dovuta sia a cause di natura genetica che ad un’errata alimentazione. Qual è la dieta migliore da seguire : ce ne parla il Professor Rolando Alessio Bolognino

Talvolta di alcune patologie si conosce solo quello che è l’aspetto clinico più manifesto, di cui la gente parla e si lamenta.

E’ il caso dell’iperuricemia, ovvero :” Una condizione clinica caratterizzata da una concentrazione ematica di acido urico superiore ai range fisiologici, fissati a 7 mg/dl per il sesso maschile e 6,5 mg/dl per quello femminili”, come ci dice il Professor Rolando Alessio Bolognino il  Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.    

       

Quando la concentrazione dell’acido urico è molto elevata, si manifesta la “gotta”, patologia molto nota, conosciuta sin dai tempi antiche per essere molto fastidiosa e, in casi rari, anche invalidante.

Insieme al Professor Bolognino facciamo luce su questa patologia che ha cause sia genetiche che legate ad un’errata alimentazione, mettendo in evidenza come anche e, soprattutto in questo caso, una corretta dieta possa aiutare molto nella gestione di tale patologia, causata, come già detto sopra, dalla concentrazione, oltre il range fisiologico,  di acido urico :” Sostanza, questa, che  è un prodotto di scarto la quale si  origina dal metabolismo delle proteine, in seguito a scissione delle purine (costituenti di DNA e RNA).  Superati i  9 mg/dl, si procede con una terapia farmacologica adeguata come l’allopurinolo, il farmaco più comunemente impiegato, in grado di inibire l’enzima responsabile della produzione endogena di acido urico che,  in concentrazioni elevate,   si cristallizza e si deposita a livello delle articolazioni causando,  nel lungo termine, la gotta, ovvero una forma di artrite infiammatoria che si distingue per l’insorgenza di forti dolori e masse nodulari (tofi gottosi). Le conseguenze dell’iperuricemia si registrano anche a carico dei reni in forma di uropatia ostruttiva: i cristalli di urato possono condurre alla formazioni di calcoli e dolorosissime coliche. Le più recenti evidenze scientifiche, inoltre, riconoscono tra le conseguenze dell’iperuricemia anche l’ipertensione arteriosa”.
L’iperuricemia ha varie cause:
Circa il 70% dei casi può essere ricondotto a cause di natura genetica (sono stati individuati circa 27 geni associati a tale condizione clinica). Si parla, in questo caso, di iperuricemia primitiva, determinata da un’eccessiva produzione endogena di purine, degradate poi ad acido urico. L’iperuricemia può essere dovuta anche ad una diminuzione dell’escrezione di urato. Sono stati identificati differenti polimorfismi per il gene codificante per il trasportatore renale di acido urico, che possono quindi determinarne una concentrazione ematica elevata in quanto l’organismo non riesce ad eliminare l’urato per mezzo delle urine. Resta poi un 30% di casi in cui è l’alimentazione a determinare l’insorgenza di tale patologia”.

Come per altre condizioni cliniche, anche per l’iperuricemia la dieta riveste un ruolo molto importante, specie nella prevenzione di tale patologia: “La dieta, come abbiamo poco fa anticipato, è in grado di influenzare i livelli di acido urico nel sangue. Innanzitutto, occorre moderare il consumo di alimenti proteici, in quanto apportano notevoli quantità di purine. Attenzione, dunque, a quelle che sono le più diffuse strategie nutrizionali che promettono una rapida perdita di peso, come nel caso delle diete iperproteiche! Anche un approccio di tipo chetogenico può influenzare la concentrazione di acido urico nel sangue, poiché i chetoni competono con l’urato per essere escreti dal rene. Altro nutriente che può influenzare i valori di uricemia è il fruttosio: nonostante non contenga basi puriniche, è in grado di indurre la degradazione dell’ATP, molecola di scambio energetico dell’organismo, in acido urico. Una precisazione è d’obbligo: l’invito non è quello di diminuire il consumo di frutta (in rapporto al volume, la quantità di fruttosio in una mela o in una banana è davvero minimo), bensì occorre limitare l’apporto di dolci e soft drinks (il saccarosio, lo zucchero bianco per intenderci, è composto per il 50% da fruttosio!). Anche un adeguato stato di idratazione costituisce una buona pratica di prevenzione, in quanto una diuresi regolare consente di controllare i livelli di acido urico, espulso attraverso le urine.Esiste una categoria di soggetti  che più degli altri sono soggetti al rischio di soffrire di iperuricemia:
Chi soffre di nefropatie caratterizzate da una scarsa velocità di filtrazione glomerulare è naturalmente più soggetto allo sviluppo di iperuricemia se segue una dieta sbilanciata, in quanto la capacità di escrezione dell’ urato è ridotta. In caso di patologie ematologiche, come ad esempio i linfomi, oppure nel caso di trattamenti chemio e radio terapici, vi è un elevato tasso di turnover nucleoproteico (come abbiamo già detto, le purine compongono il nostro DNA!), pertanto se i soggetti non sono seguiti da un punto di vista nutrizionale si può assistere ad un aumento di acido urico. Naturalmente, poi, in presenza di familiarità per iperuricemia è bene la cura delle proprie abitudini alimentari è d’obbligo!”.
Ci sono cibi da limitare in presenza di tale condizione clinica?:
“È il contenuto di purine a dircelo! Pollame e carni bianche (come il vitello o il maiale magro), affettati magri e molluschi ne hanno un contenuto intermedio, che non supera i 150 mg per 100 g di prodotto e sono quindi da limitare. Tra i vegetali, occorre ridurre asparagi, cavolfiori, spinaci, funghi, assieme a lenticchie, fagioli e piselli e ai cereali integrali. In questo caso vige la regola del buonsenso: tali alimenti possono essere assunti con una frequenza ridotta e in quantità contenute”.

E quali, invece, i  cibi, invece, da evitare?:”  Gli alcolici senza alcun dubbio (in particolar modo la birra, a maggior contenuto di purine), in quanto l’etanolo impedisce l’eliminazione di urato da parte dei tubuli renali, e le bevande zuccherate per i motivi descritti poco fa. Nel mondo animale, si consiglia di evitare fegato e frattaglie, oltre al pesce azzurro (dunque acciughe, aringhe, sardine, sgombro) e frutti di mare. Non a caso, in passato, l’iperuricemia era conosciuta come la malattia dei ricchi, proprio perché erano gli unici che potevano permettersi pasti a base di carne, pesce, dolci e alcolici”.

Come per altre patologie, chiedo al Professor Bolognino se è possibile il reintegro  di alcuni alimenti, prima limitati nella dieta, in seguito ad un miglioramento del quadro clinico:

“Anche in questo caso, occorre appellarci al buonsenso! Se il valore dell’uricemia ritorna nel giusto range, è possibile reintegrare alcuni cibi tra quelli eliminati, ma sempre senza esagerare. Naturalmente il consiglio è sempre quello di rivolgersi ad una figura competente che sia in grado di studiare un piano di reintegro ad hoc, senza il rischio di tornare alla condizione di partenza.”.
Anche per l’iperuricemia, l’attività fisica, unita a farmaci, laddove prescritto dal medico e alla dieta,  può far molto:
Assolutamente sì! Ad eccezione nel caso di crisi gottose in cui è necessario restare a riposo, come nelle altre patologie reumatiche l’attività fisica contribuisce a recuperare la funzionalità delle articolazioni, in cui si depositano i cristalli di urato, rendendo il corpo maggiormente elastico e tonico. Si consiglia di iniziare con una ginnastica dolce ed aumentare gradualmente resistenza e difficoltà degli esercizi. Occorre preferire comunque un’attività ad intensità moderata, sotto la soglia anaerobica: il lattato, infatti nel tubulo renale compete con gli urati per essere escreto. Meglio preferire sport aerobici, dunque, come jogging, cyclette o nuoto”.

Ringrazio il Professor Alessio Rolando Bolognino, il quale, ancora una volta, ci ha illustrato una verità inconfutabile: il cibo non è soltanto sinonimo di sopravvivenza o di piacere ma può rappresentare una via sia per la prevenzione primaria sia per curare patologie, in sinergia, laddove è necessario, con i farmaci, perché come disse il filosofo Ludwig Feuerbach :”L’uomo è ciò che mangia”.

                                     Alessandra Fiorilli

Alzheimer: grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare di Diagnosi Precoce e Prevenzione. Intervista al Professor Giovanni Battista Frisoni, tra i maggiori esperti in campo internazionale.

C’è una caratteristica comune che lega tutte le malattie gravi, quelle che nell’immaginario collettivo difficilmente lasciano scampo, perché quasi incurabili, o perché rappresentano un tunnel nel quale, una volta entrati, non è possibile più uscirne.

E’ stato così per il cancro, di cui si aveva timore persino a pronunciarne il nome, bollandolo semplicemente come “Il brutto male”, è stato, ed è ancora così,  per l’Alzheimer, malattia, questa, che fa ancora più paura perché, gettando un’angosciosa ipoteca sul futuro, è in grado di cancellare ciò che maggiormente ci distingue gli uni dagli altri: la memoria, la personalità, le abitudini, il nostro vissuto fatto di ricordi, atti, azioni, emozioni.

Fortunatamente, grazie alla ricerca, oggi possiamo parlare di Diagnosi Precoce e di Prevenzione anche per la malattia di Alzheimer: a delinearci questi aspetti è il Professor Giovanni Battista Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra, Professore Ordinario di Neuroscienze cliniche presso la locale Università e già Direttore Scientifico dell’IRCCS Centro di San Giovanni di Dio “Fatebenefratelli” di Brescia.

“Iniziamo con l’illustrare la patofisiologia della malattia di Alzheimer, ovvero  le tappe che portano una persona completamente  sana a sviluppare disturbi cognitivi prima, e  perdita di autonomia, poi. Quello che abbiamo imparato negli ultimi anni è che ciò che accomuna l’Alzheimer a tutte le altre malattie degenerative, è  la lunghissima  fase preparatoria, di  15-20 anni, durante la quale il cervello comincia a sviluppare delle alterazioni patologiche,  inizialmente molto leggere, poi sempre più  gravi, che portano, pian piano e lentamente,  il cervello a non riuscire più ad effettuare tutte le attività cognitive con la stessa efficacia di un tempo. Tali cambiamenti sono il risultato di una deposizione di proteine neurotossiche, un fattore, questo, che è comune a molte malattie neurodegenerative, quali, ad esempio,  la malattia di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica. Ciò che caratterizza e differenzia le suddette malattie, è il tipo di proteina neurotossica  e la zona del cervello nella quale va a depositarsi.

Quelle che si riscontrano nell’Alzheimer sono la proteina beta-amiloide e la proteina Tau,  che vanno a depositarsi nelle zone del cervello deputate ai processi della registrazione e consolidazione delle tracce mnesiche, ovvero della memoria.

La deposizione di tali proteine inizia 15-20 anni prima che compaiano i sintomi  e, iniziando  nelle zone della memoria, si allarga progressivamente, fino a coinvolgere il cervello  quasi  completamente”

Grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare anche per questa malattia di Diagnosi Precoce: “  E’ possibile quando c’è già il riconoscimento della malattia in persone che hanno, appunto, superato la soglia dei disturbi di memoria, in altre parole dopo quei 15-20 anni nei quali le proteine si sono accumulate nel cervello. C’è da dire, però, che  non tutti i disturbi di memoria sono legati alla malattia d’Alzheimer, si possono infatti avere delle dimenticanze più del normale,  legate a situazioni di stress, depressione, disturbi del sonno, solitudine, neoplasie, disturbi di circolazione celebrale, scompensi glicemici, e molte altre cause ancora. La diagnosi precoce permette di capire se i disturbi di memoria di una persona sono dovuti a una di queste condizioni o a una malattia di Alzheimer. Per far questo, si effettua una puntura lombare e un prelievo del  liquido cerebrospinale, lo stesso liquido acquoso nel quale il cervello è immerso. Oltre alla puntura lombare si può effettuare anche la scintigrafia cerebrale che ci permette di vedere quali parti del cervello tali proteine hanno colpito”.

Alzheimer e Prevenzione, sia primaria che secondaria: un binomio che, almeno sino a un po’ di tempo fa, sembrava impossibile, ma oggi non più.

“La Prevenzione primaria riguarda tutti quegli interventi che possono essere posti in essere in qualsiasi momento prima dell’insorgenza dei sintomi, dall’infanzia all’età adulta. La si fa per così dire “a pioggia”, con attenzione agli stili di vita, quali un’attività fisica regolare, un’alimentazione basata sulla dieta mediterranea, un’adeguata attività mentale, il  controllo di malattie  croniche quali ipertensione e ipercolesterolemia. Sono da evitare assolutamente le sostanze tossiche per il cervello quali droghe e da limitare altre sostanze neurotossiche, quali fumo e alcool”.

In un futuro non molto lontano, inoltre :” La prevenzione ci permetterà  di identificare le persone a rischio e trattare solo quelle realizzando, così una prevenzione molto più mirata, che chiamiamo prevenzione secondaria.  Sono in corso, infatti, trial clinici di somministrazione di medicinali su persone sane ma con amiloidosi  cerebrale, nelle quali vengono testati  farmaci anti-amiloide. In questi trial speriamo si potrà dimostrare che le persone che ricevono il farmaco, pur essendo ad   alto rischio, svilupperanno una demenza meno frequentemente delle persone  non trattate farmacologicamente. Quello che stiamo cercando di fare è di seguire una procedura simile  a quella che si ha per le malattie cardiovascolari. Si tratta il paziente con ipertensione o ipercolesterolemia, ad esempio, prima che lo stesso incorra in  un infarto o un ictus. Solo che tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo o il diabete è molto più semplice rispetto alla misurazione delle proteine neurotossiche  attraverso puntura lombare o PET,  che sono molto più  complicate e costose. Quello che sarà, invece, possibile fare prossimamente è misurare nel sangue le proteine neurotossiche amiloide e tau grazie a macchine sofisticatissime di ultimissima generazione che permetteranno di individuare persone ad alto rischio di sviluppare la malattia”.

La speranza che si possa parlare di Alzheimer in modo differente rispetto al passato arriva da una grande notizia: “Proprio quest’anno, a giugno, la FDA ha approvato il primo farmaco che in persone con malattia di Alzheimer ne rallenta di circa il 23% la progressione. La notizia ha fatto rumore  perché  c’è una rassegnazione sociale nei confronti della malattia di Alzheimer, in quanto percepita come  incurabile, di fronte alla quale non c’è nulla che si possa fare. Ebbene, questi farmaci, cambieranno anche la percezione della malattia”.

Un altro grande traguardo sarà raggiunto tra breve: “Attualmente test ematici per rilevare eventuali marcatori non si hanno ancora nella fase di pratica clinica, ma solo nei progetti di ricerca, anche se potremmo sperare di averli tra circa 2 anni, mentre programmi di prevenzione potranno essere in atto fra 5-10 anni. E’ una sfida enorme ma non impossibile, se pensiamo ai grandi passi in avanti che sono stati fatti in questo campo.   Basti pensare che quando io, quasi 30 anni fa, giovane medico, iniziai in questo campo, un mio collega del centro Fatebenefratelli pubblicò un articolo, dal significativo titolo:  “Alzheimer: malattia  o nebulosa”. Alcuni non ne parlavano neanche in termini di malattia e oggi stiamo lavorando a programmi di prevenzione”

E se tanto è stato fatto per questa malattia che fa ancora tanta paura, e se oggi c’è una speranza, sorretta da Ricerca sul campo, lo dobbiamo anche  medici come il Professor Giovanni Battista Frisoni, appassionato, e che  a tanta scienza affianca un’umanità palpabile e una grande vicinanza alle famiglie e ai pazienti di questa malattia che viene ancora  chiamata quella “ del lungo addio”.

                                               Alessandra Fiorilli

L’olio d’oliva: esaltato da Omero e Ippocrate, oggi pilastro della dieta mediterranea grazie alle sua eccellenti caratteristiche e qualità delle quali ci parla il Professor Rolando Alessio Bolognino.

“Oro liquido”, “La grande medicina”: sono queste le definizioni con le quali, rispettivamente, il grande scrittore  Omero e Ippocrate, il padre della medicina, tributavano all’olio d’oliva.

Il condimento simbolo della dieta mediterranea, era infatti usato, nei tempi antichi,  anche per curare  dermatiti e per lenire la sintomatologia legata all’apparato gastrointestinale.

Per conoscere a fondo questo alimento abbiamo parlato con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente universitario a contratto presso l’università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness. Autore di libri e pubblicazioni scientifiche, divulgatore scientifico in radio e televisione.

Siamo abituati a vedere, sugli scaffali dei negozi, molti tipi di olio di oliva, ma ciascuno presenta delle caratteristiche proprie, come ci illustra il Professor Bolognino: “La Comunità Europea classifica le diverse tipologie di olio di oliva sulla base di tre elementi: la percentuale di acidità libera, il tipo di processo attraverso cui è stato ottenuto il prodotto e l’analisi organolettica. Ad esempio l’olio extra vergine di oliva deve presentare un tasso di acidità non superiore allo 0,8% e un gusto assolutamente perfetto. L’Italia è un Paese stupendo, ricco di diverse cultivar , capaci di dare all’olio EVO, così come al vino, diversi profumi e diverse fragranze”.

Nell’immaginario collettivo l’olio è considerato un condimento, mentre, invece, è classificato, per le sue peculiarità, un vero e proprio alimento: “In quanto presenta una composizione lipidica pari al 99%, oltre ad una frazione minore di sostanze che esercitano azioni protettive per il nostro organismo, come polifenoli e vitamina E. Può infatti essere considerato un alimento funzionale, ovvero un alimento che ha la capacità di influire su una o più funzioni fisiologiche”.

E se, come abbiamo già detto, Ippocrate usava le proprietà medicamentose dell’olio d’oliva, oggi continua a rivestire un ruolo fondamentale per la nostra salute, un prezioso alleato, come afferma il Professor Bolognino: “L’olio extravergine di oliva viene considerato l’“oro liquido” della dieta mediterranea. Gli effetti positivi derivano principalmente dalla presenza di polifenoli e vitamina E. Questi ingredienti svolgono un’azione antiossidante in quanto salvaguardano le membrane lipidiche, prevenendo fenomeni di ossidazione. Inoltre, i polifenoli mostrano proprietà ipocolesterolemizzanti, poiché, in sinergia con l’azione dell’acido oleico, promuovono un abbassamento del colesterolo LDL ed un innalzamento del colesterolo HDL”.

Ottimale è consumare l’olio a crudo, come sottolinea il Professor Bolognino: “In questo modo   viene mantenuto inalterato il patrimonio di sostanze antiossidanti, preziose per il nostro organismo perché permettono di combattere l’infiammazione e l’invecchiamento cellulare provocato dai radicali liberi. Invece l’olio cotto, come tutti i grassi in cottura, tende a subire l’ossidazione e perossidazione dei grassi, con produzione di sostanze tossiche, come i lipoperossidi. In più, a livello gustativo, il consumo a crudo ci permette di apprezzarne maggiormente le note e gli odori che caratterizzano questo straordinario prodotto. Dunque ne guadagna sia la salute che il palato!”.

Molti anni fa si ebbe un dibattito, che correva lungo il linguaggio pubblicitario, nel quale l’uso dell’olio d’oliva per le fritture casalinghe era particolarmente demonizzato, chiedo al Professor Bolognino se, al contrario di quanto si è detto, lo si possa usare anche per le fritture: “E’ un ottimo prodotto per friggere, ma ha un punto di fumo inferiore ad alcuni oli di semi, come quello di girasole . Inoltre la sua struttura renderebbe il prodotto finale un po’ pesante, quindi assolutamente non adatto a fritti vegetali o di piccoli pesci. Ricordiamo che al superamento del punto di fumo viene favorita la produzione di acroleina, sostanza nociva che esercita un’azione tossica per il fegato, ma anche irritante nei confronti della mucosa gastrica”.

Grande attenzione, negli ultimi anni, verso i prodotti Bio. Anche l’olio è da preferire biologico?

È sempre bene prediligere un olio biologico sia perché viene meno l’utilizzo dei pesticidi sulle olive, impiegati per contrastare l’azione dei parassiti, sia perché nelle grandi aziende produttrici vengono spesso utilizzate delle sostanze chimiche che correggono le impurità e i valori di rancidità dell’olio. In più, un olio biologico è garanzia che tutti i processi adottati per la realizzazione del prodotto, dunque dalla coltivazione della pianta fino all’ immissione in commercio, siano stati realizzati in un determinato territorio rispettando i processi di crescita e trasformazione dell’oliva”.

Da prestare attenzione, nel momento in cui lo si acquista, alla dicitura “spremitura a freddo” che dovrebbe comparire sull’etichetta: “Le alte temperature possono contribuire alla dispersione di sostanze fenoliche, vitamine termolabili (la vitamina C e le vitamine del gruppo B) e acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, ma anche al peggioramento dei caratteri organolettici. Attraverso la spremitura a caldo, alcuni caratteri come la piccantezza o l’amarezza vengono persi, facendo emergere delle note dolci “piatte”. In più, bisogna considerare che proporzionalmente all’aumento della temperatura impiegata durante processo di estrazione, vi è una maggior appiattimento dell’aroma fruttato”.

Essenziale anche il colore della bottiglia: “Anche il packaging influisce sulla qualità di un buon olio. È consigliabile che sia conservato in bottiglie di vetro scuro, in modo tale che venga protetto dall’esposizione alla luce. Questa, infatti, può provocare fenomeni di foto-ossidazione responsabili dell’irrancidimento dell’olio e della perdita di preziose sostanze polifenoliche, come l’oleuropeina e l’olecantale, sostanze molto attive anche nella prevenzione oncologica”.

Diete ipocaloriche e olio: vediamo qual è il giusto equilibrio : “L’olio di oliva è un alimento che non deve mancare all’interno di una sana e corretta alimentazione, dunque anche nelle diete ipocaloriche. L’importante è che la composizione dei macronutrienti (proteine, carboidrati e lipidi) sia ben bilanciata. Consideriamo che circa il 30 % del nostro fabbisogno energetico giornaliero dovrebbe derivare dai lipidi, di cui l’olio di oliva rappresenta la fonte primaria. Infatti, oltre ad apportare preziosi componenti, permette un corretto assorbimento delle vitamine liposolubili, l’assunzione di acidi grassi essenziali ed una maggiore lubrificazione del colon, favorendo così il transito intestinale. Tra le azioni benefiche più importanti dell’olio extravergine d’oliva è doveroso citare: prevenzione del diabete, contrasto dell’ipertensione e miglioramento del profilo lipidico HDL, contrasto verso le malattie neurodegenerative, azione antiossidante”.

Pane e olio: la merenda di un tempo. Anche oggi è ancora valida, se dopo facciamo un po’ di attività fisica, come i bambini di tanti anni fa? “Diciamo di sì, con le adeguate differenziazioni tra le persone. Nelle giuste quantità, costituisce una merenda sana e nutriente, poiché apporta sia carboidrati sia grassi “buoni” provenienti dall’olio. Rispetto al classico frutto o yogurt che troviamo alla voce “spuntino” in ogni piano alimentare ha più calorie…ma basta avere una vita attiva e muoversi quando si può e sarà un’ottima scelta da mettere nella giornata, soprattutto per i più giovani (che invece preferiscono le merendine, che hanno maggiori calorie ma di qualità molto inferiore)”.

Ringrazio il Professor Bolognino per aver, così esaustivamente, illustrato, in tutti i suoi singoli aspetti, le caratteristiche di un alimento tanto amato dagli italiani e che diventa l’immancabile elemento principe di moltissimi piatti.

Ipertensione: quanto è importante lo stile di vita. Ce ne parla il Professor Paolo Calabrò, tra i massimi esperti della cardiologia internazionale

Termini medici quali “pressione arteriosa” e “ipertensione” sono tra i più usati anche nel linguaggio quotidiano e se molti dichiarano di avere in casa uno strumento per la misurazione domiciliare, alcuni preferiscono recarsi in Farmacia e altri ancora si sentono tranquilli solo quando il Medico di famiglia, con lo sfigmomanometro, misura la pressione, ovvero :” La tensione, prodotta dal battito cardiaco, sulle  arterie”, come ci dice uno dei massimi esperti nel panorama della cardiologia internazionale, il Professor Paolo Calabrò, direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria e direttore del Dipartimento Cardio-vascolare dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, Professore Ordinario della Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione del Professor Paolo Calabrò)

Tenere la pressione sotto costante controllo è sempre una buona regola perché l’ipertensione, silente e subdola, può creare molti danni alla salute: “Esponendo il soggetto che ne soffre ad un rischio maggiore di andare incontro ad un ictus o infarto”.

Due sono i valori che vengono riportati nella misurazione:” La Minima, o diastolica che si ha nel momento in cui il cuore si rilassa, la Massima, o sistolica, che in realtà coincide con il momento della contrazione cardiaca del ciclo cardiaco, ovvero quando il cuore trasmette la sua massima forza sulle arterie”.

Non tutti sanno che, oltre al metodo più frequente e tradizionale della misurazione, “Non invasivo”, c’è ne è anche un altro:” Al quale si ricorre quando il paziente è ricoverato nei reparti di terapia intensiva o in degenza post-operatoria, dove è richiesta una misurazione continua e costante della pressione continua. Tale metodo richiede l’inserimento di cateteri direttamente nei vasi sanguigni”.

Nel caso della misurazione domiciliare, la regola da seguire è quella degli antichi latini “In medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo, ndr), perché, se è vero che la pressione arteriosa è da sottoporre a controlli regolari, è pur vero che la sua misurazione più volte al giorno può creare, a volte, inutili timori, come dichiara il Professor Paolo Calabrò:  “Il controllo domiciliare che molti fanno della propria pressione è una buona pratica da seguire, se si pensa che c’è una percentuale dei pazienti che fa registrare la cosiddetta “ipertensione da camice bianco”: trattasi soprattutto di soggetti ansiosi i quali, di fronte al medico tendono ad entrare in uno stato di agitazione tale da registrare dei valori pressori più elevati”.

E’ buona regola, però, anche nel caso della misurazione domiciliare:” Non fermarsi mai alla prima misurazione che spesso registra valori più alti

Non cadere, però, neanche nell’ossessione di controllare la pressione più volte al giorno: “Molto spesso ai miei pazienti consiglio di misurarla tre volte la settimana in orari diversi: il lunedì al mattino, il mercoledì all’ora di pranzo e il venerdì di sera”.

Da seguire, in caso di misurazione domiciliare, alcune semplici e basilari regole per non incorrere in una risultato falsato da possibili interferenze esterne:” Ovviamente anche il luogo dove si realizza la misurazione ha una sua importanza: l’ambiente deve essere, pertanto, confortevole e rilassante. Bisogna inoltre stare seduti e attendere alcuni minuti prima di procedere alla misurazione. Il braccio dovrà essere libero, non compresso da maglioni o camicie, che potrebbero inficiare una corretta misurazione”.

Una singola misurazione “fuori dalla norma”, non deve, però, mettere in allarme: “Non basta un singolo valore per parlare di ipertensione o di ipotensione.  I valori ottimali per la pressione, secondo quanto stabilito dalla Società Europea di Cardiologia, sono per la Massima, minori o uguali a 120 e per la Minima, uguali o minori a 80, e comunque sono da considerare normali fino a valori di 130/85. Quindi, tecnicamente, chi registra 130/85 non deve temere di avere la pressione alta. Inoltre, un dato fondamentale da tenere sempre in considerazione è che il singolo valore non è da considerarsi in assoluto, ma deve essere rapportato, di volta in volta, al singolo paziente. Ad esempio, per un anziano valori compresi tra 130/135 di Massima sono da considerarsi non patologici, in quanto, con il passare dell’età le arterie sono più rigide, andando incontro ad un naturale irrigidimento che rende il passaggio del sangue più difficoltoso, con un aumento conseguente della pressione. Gli stessi valori sopra menzionati, invece, se si dovessero riscontrare in un ragazzo di 15 anni richiederebbero un’attenzione particolare”.

Il valore della pressione, quindi:” Deve essere studiato nell’ambito di un quadro clinico più generale. In pazienti, ad esempio, con diabete mellito i valori devono essere più bassi, perché già il diabete espone il paziente a rischi più elevati”.

L’ipertensione, inoltre:” Si divide in essenziale che è quella che preoccupa di più i medici perché non si riesce ad individuare una chiara causa e secondaria, legata, invece a patologie come l’insufficienza renale, il rene policistico e le malattie endocrine e metaboliche”.

E quindi è sempre consigliato seguire una buona regola:” Il paziente affetto da Ipertensione Arteriosa deve essere consapevole dell’aumento del rischio cardiovascolare, ma non deve per questo sentirsi malato: è sufficiente, infatti, adottare alcuni accorgimenti o piccoli cambiamenti nello stile di vita. Ad esempio, è buona norma combattere l’obesità, ma anche il sovrappeso, evitando uno stile di vita sedentario. A volte un’attività fisica regolare, 2-3 volte alla settimana per circa mezz’ora, sarà sufficiente a riportare i valori nella normalità e tale attività è la prima “pillola” da prescrivere al soggetto iperteso insieme ad una dieta che vedrà la riduzione della quantità di sale  e condimenti, mai, però, abolire un alimento perché la dieta, soprattutto quella Mediterranea, deve essere sempre completa. Bene anche l’aumento del consumo di fibre e verdure perché aiutano ad eliminare le scorie e migliorano il transito intestinale, evitando quella tensione che rischia di essere una concausa dell’ ipertensione stessa. Ottimo anche il consiglio di incrementare l’introito di acqua e l’uso di tisane. Pertanto, possiamo concludere dicendo che prescrivere farmaci è la cosa più semplice ed ovvia, ma non sempre è la strategia più indicata come approccio iniziale al paziente con ipertensione arteriosa”.

Attenzione infine anche allo stress: “Molto diffuso, specie tra i giovani professionisti che lavorano anche 12-14 ore al giorno e che non sempre hanno la possibilità di seguire un’alimentazione sana e completa. In particolare, in questo periodo di pandemia COVID-19, si sta riscontrando un aumento dei casi di ipertensione collegati proprio al particolare momento”.  

Alessandra Fiorilli                                  

Curare l’artrosi con l’Ossigeno Ozono Terapia: ce ne parla un luminare in questo campo, il Professor Umberto Tirelli

L’artrosi è una malattia degenerativa che interessa le articolazioni. Quasi il 50% della popolazione oltre i 60 anni di età, soffre di questa patologia che può variare da forme più lievi a più gravi.

Tale percentuale aumenta anche  sino al 90% quando si  parla di soggetti con più di 80 anni. Tutto ha inizio da un’alterazione della cartilagine che conduce, successivamente, alla degenerazione dell’ articolazione”.

Inizia così la mia intervista con l’eminente Professor Umberto Tirelli, Specialista in Oncologia, Ematologia e Malattie Infettive, Past Primario Oncologo e attuale Senior Visiting scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN), Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group e tra i primi Top Italian Scientists dalla rivista Plos Biology del 2019.

Il Professor Umberto Tirelli (per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 Tra i primi fattori di rischio, dunque :  L’età avanzata, ma non sono da sottovalutare anche l’obesità, la familiarità, il diabete, il tipo di lavoro svolto: infatti è esposto ad un rischio maggiore chi sta molte ore in piedi e per le donne, un altro fattore determinante è la menopausa”.

La sintomatologia legata all’insorgenza dell’artrosi si manifesta: “Con dolore e limitazione dell’attività articolare, infatti, le articolazioni tendono a diventare rigide, quasi bloccate. L’anziano lamenta il fatto di avere dei dolori alle ossa e spesso di non riuscire a camminare”.

L’artrosi di divide poi in: Primaria, detta anche idiopatica, se legata ad una predisposizione genetica, secondaria se causata da traumi. E nel caso dell’anziano, si parla di artrosi localizzata se ad essere interessata è solo una singola articolazione, di solito quella del ginocchio, dell’anca o della spalla, oppure generalizzata se riguarda più articolazioni”.

Ad essere maggiormente interessate, sono il ginocchio e la colonna vertebrale: “Dove spesso si  notano anche delle profusioni discali”.

Alle prime avvisaglie di un’articolazione che tende a diventare sempre più dolorante e rigida, solitamente: “Si ricorre, come esame diagnostico, ad una semplice lastra che già da sola è in grado di mostrare  i segni dell’artrosi. A quel punto si potrà anche approfondire con una risonanza magnetica”.

Accertata la diagnosi di artrosi, segue la fase del trattamento:” Spesso si ricorre alla chirurgia, utilizzando protesi, specie se ad essere interessata dall’artrosi sono le articolazioni dell’anca, del ginocchio e della spalla”.

Anche per l’artrosi, però possiamo fare molto per evitare di soffrirne nella Terza Età, o comunque, per non incorrere nelle forme più gravi :” Svolgere regolarmente attività fisica è sempre una buna cosa, anche una semplice camminata va benissimo. Una grande attenzione, però, è da porre anche al peso corporeo: da evitare, quindi, di incorrere nel sovrappeso ma soprattutto nell’obesità”.

Al primo insorgere dell’artrosi :” Bene anche ricorrere alla fisioterapia”  e, per quanto attiene ai farmaci :” Solitamente si ricorre al paracetamolo e in genere ai Fans ma c’è da dire che non sempre i farmaci sono poi così efficaci per la cura dell’artrosi. Una cura, invece,  efficace e senza effetti collaterali è quella che prevede il ricorso all’Ossigeno Ozono Terapia che può essere somministrata in via sistemica, quando i dolori provocati dall’artrosi sono diffusi in tutto il corpo, oppure in via locale se invece, il dolore è localizzato ad una sola articolazione”.

Il gruppo di lavoro del Professor Umberto Tirelli (per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

Il motivo per cui  proprio l’Ossigeno Ozono Terapia  si è rivelata efficace nella cura dell’artrosi, ce lo spiega, a conclusione dell’intervista,  il Professor Tirelli :” L’ozono ha un elevato potere antinfiammatorio e proprietà antidolorifiche, andando a migliorare il microcircolo e quindi la sintomatologia legata all’artrosi.  L’Ossigeno Ozono Terapia, inoltre, è estremamente indicata per quegli anziani che non possono essere sottoposti a intervento chirurgico”.

Ringrazio il Professor Umberto Tirelli, il quale mostra sempre una grande disponibilità nei miei confronti, trovando del tempo da dedicare al giornale EmozionAmici, sul quale troverete una prima intervista al Professor Tirelli sulla fibromialgia, anch’essa curata con l’Ossigeno Ozono Terapia.

D’altronde, non c’è da stupirsi che il Professor Tirelli, un luminare della scienza, sia anche un esperto divulgatore, con ottime doti comunicative: nel suo curriculum di due pagine fitte fitte,  accanto alla sua attività di ricerca, spicca anche l’essere stato vincitore, nel 2003, del IV Premio Festival della Televisione Italiana per la comunicazione medico scientifica.

                                           Alessandra Fiorilli

L’importanza di seguire le stagioni nel consumo di verdura e frutta: ce ne parla il Professor Alessio Rolando Bolognino, Biologo Nutrizionista, Docente Universitario e volto noto della tv.

“La natura è intelligente: ci dà quello che ci serve e quando ci serve. In inverno, infatti, poiché  il corpo ha maggiormente bisogno di calorie, arrivano, ad esempio, cachi e castagne, mentre, in estate, i tipici frutti quali pesche, melone e cocomero, che sono  molto ricchi di acqua. La natura aiuta, con i suoi prodotti legati alle stagioni, anche il nostro sistema immunitario, durante i mesi freddi, e il sistema linfatico in quelli più caldi. Mangiare cibi fuori stagione, quali le zucchine a novembre le fragole a dicembre, vuol dire portare in tavola  prodotti poveri in Sali Minerali e Vitamine”.

Questo è l’autorevole parere, sull’importanza di cibarsi di verdura e frutta di stagione, del Prof. Rolando Alessio Bolognino,  Biologo Nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva,  Professore a c. del  Master in “Scienze della Nutrizione e Dietetica Clinica” presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma La Sapienza , del Master  in “Terapie Integrate nelle Patologie Oncologiche Femminili” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, del Master di II livello in “Medicina integrata e food management per la prevenzione e cura dei tumori” presso l’Università degli Studi di Catania, Istruttore di  Protocolli Mindfulness,  Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, sia RAI che Mediaset.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Dottor Rolando Alessio Bolognino)

Stravolgere, dunque, i cicli della natura significa nutrirsi di  prodotti che, in quel particolare periodo dell’anno, non forniscono il giusto valore al nostro corpo e alla nostra salute. Cosa c’è di meglio, in inverno, che consumare le tipiche verdure quali il cavolo nero, il cavolfiore, la verza, il carciofo, l’indivia, la zucca?

Le brassiccaceae o crucifere,  di cui fanno parte la famiglia del cavolo, del broccolo e la verza, pur essendo costituite principalmente da carboidrati sono, come tutte le verdure, povere in calorie. Troviamo, in queste verdure, abbondanza di Vitamina A, essenziale per la vista, di Vitamina  K, importante per la coagulazione del sangue, e di Vitamina C, che favorisce l’assorbimento  del ferro.  Inoltre, le stesse crucifere ostacolano l’angiogenesi, cioè la capacità propria del tumore di creare il proprio letto vascolare con cui si nutre e cresce”.

Le verdure sono erroneamente associate, talvolta, ad un’immagine “triste”: il loro essere servite lesse. “Invece ci sono tantissimi modi di prepararle: buonissime al vapore, al forno, stufate con acqua, un goccio di vino e spezie. Anzi, sulla cottura lessa c’è da dire che non è sempre la migliore, specie se si tende a bollirle per un tempo prolungato ed in abbondante acqua: così facendo, infatti, tutti i nutrienti vengono lasciati proprio nell’acqua”.

Anche e soprattutto nell’alimentazione di tutti i giorni, il Dottor Bolognino ci tiene a sottolineare come il primo approccio avvenga proprio con la vista: “Mangiamo con gli occhi e con l’olfatto”.

Vediamo, quindi, come portare a tavola le verdure rendendole sfiziose, saporite e accattivanti per il palato.

L’indivia, fonte di fibra solubile che rappresenta un valido aiuto per contrastate stipsi e costipazione, consiglio di provarla  grigliata e cosparsa di yogurt e salsa di soia, per un salutare e alternativo aperitivo. Il carciofo, in grado di ridurre l’assorbimento del colesterolo e con un’ azione diuretica, è gustosissimo trifolato, ovvero tagliato e cotto in padella con brodo vegetale bollente, oppure gratinato,  cosparso di pan grattato e pecorino, o ancora, ad omelette. La verza è ottima sotto forma di involtini, saltata o cotta all’aceto. Il cavolfiore è perfetto gratinato o in padella con pepe, vino bianco e acciughe. Mente il cavolo nero, con una quota di Vitamina C pari a 5 volte quella presente negli spinaci, si sposa nella famosa zuppa toscana, con fagioli cannellini e pane tostato, oppure si presenta sfizioso in chips al forno, o in padella sfumato con acqua, vino bianco e peperoncino. Ottima anche la zucca, ricca di Vitamina C, sotto forma di vellutata o al forno”.

Cucinare le verdure in modo sfizioso, senza doverle portare a tavola necessariamente lesse, le rende gustose anche ai bambini: “Offrirgliele  pastellate o fritte è un modo per preparare il gusto a sapori nuovi”.  

Ricette, quelle proposte dal Dottor Bolognino, capaci di rendere le verdure invitanti anche  per chi segue un regime alimentare ipocalorico per perdere peso:” Il giorno del pasto libero, invece di portare in tavola pizza, supplì e bevande gassate, benissimo una fetta di frittata ai carciofi”.

La regina della tavola invernale è la zuppa: “Cosa c’è di meglio e di più buono che mangiarne una calda quando fuori è freddo? Inoltre in inverno si tende a bere meno, quindi il consumo di zuppe e brodo vegetale ci aiuta anche ad idratarsi, senza tralasciare un altro aspetto che influisce sulla linea: le verdure danno un senso di sazietà a fronte di poche calorie”.

Ovviamente anche il consumo di determinate verdure va concordato con il medico, in presenza di alcuni patologie: “Ad esempio, le verdure lesse sono ideali per chi soffre di diverticolite, perché la bollitura rende la fibra più facilmente masticabile ed aggredibile dagli enzimi digestivi.  Oppure, chi assume anticoagulanti, deve prestare attenzione al consumo di verdure ricche di Vitamine K che possono interferire con la terapia. Il consumo di verdure come la verza, ricchissima di fibre, in caso di colon irritabile, può determinare la comparsa di fenomeni diarroici e/ o dolori addominali. Per quanto riguarda il  cavolfiore, ad esempio, è bene limitarne il consumo in caso di ipotiroidismo, in quanto rallenta maggiormente il funzionamento di quest’organo e la concentrazione di purine lo rende sconsigliato anche nei casi di calcoli renali e gotta. C’è una regola fondamentale da seguire nell’alimentazione: non è vero che tutto fa bene a tutti”.

                                                             Alessandra Fiorilli

La storia del “Al Bicerin”, il caffè più antico di Torino, dove anche Cavour amava sorseggiare la storica bevanda che dal 2001 è nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Piemonte.

Una storia, quella del  “ Caffè più antico della città”, come ci dice Alberto Landi, curatore de “Al Bicerin” ,  che affonda le sue radici in un tempo lontano.

Nato nel 1763,  lo storico locale è ospitato dal 1856 al piano terra dell’elegante palazzo antistante il Santuario della Consolata, a Torino, città nella quale Al Bicerin:  “Rappresenta, da secoli,  una sicurezza”, come dichiara Alberto Landi, il quale sottolinea un altro aspetto importante: “Nella scelta delle materie prime ci facciamo guidare dal senso profondo e dalla fedeltà alle nostre tradizioni e alle antiche ricette che si riflettono nella qualità dei  nostri prodotti”.

Oggi come ieri, infatti,  i torinesi, ma anche i turisti  italiani e stranieri, sono accolti  in un ambiente caldo e confortevole, ricco arredi in legno, di specchi, di lampade e di scaffalature progettate appositamente per ospitare i numerosi vasi di confetti.

La bevanda con la quale torinesi e turisti amano coccolarsi è il bicerin  a base di caffè, cioccolato, crema  di latte e servita rigorosamente nei bicerin, piccoli bicchieri di vetro, dai quali, appunto,  prende il nome.

Tra i personaggi che abitualmente hanno frequentato “Al Bicerin”,  un nome che ha fatto la Storia d’Italia:  Camillo Benso Conte di Cavour, il quale sorseggiava la bevanda mentre attendeva la famiglia in visita al prospiciente Santuario della Consolata.

“Al Bicerin” vanta anche un altro primato: è stato il primo locale a conduzione femminile  e l’unico dove le donne potevano entrare a gustare vermouth e rosolio.

Altri frequentatori  dello storico caffè torinese, sono stati:  Alexandre Dumas padre,  nel periodo del suo soggiorno nella città della Mole,  Friedrich   Nietzsche , il compositore Giacomo Puccini, gli scrittori Guido Gozzano, Italo Calvino, Umberto Eco, e i torinesi  Erminio  Macario, l’ Avvocato Gianni Agnelli, il re Umberto II con la consorte Maria Josè.

Non solo politica  e letteratura,  “Al Bicerin”   è stato amato anche dal cinema, non a caso  è stato il set di molto film, tra questi “La meglio gioventù”  di Marco Tullio Giordana, e “Ciao ragazzi” di Liliana Cavani.

A rendere  così unica la bevanda del bicerin  è la cioccolata che cuoce lentamente per ore in particolari pentole di rame, secondo un’antica tradizione, non a caso  nel 2001 la Regione Piemonte ha inserito proprio il bicerin nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari  Tradizionali della Regione.

I frequentatori  del locale possono gustare, oltre al bicerin, anche l’omonima torta glassata, a base di caffè e  cioccolata,  nonché   il Liquore  Regale , la torta di nocciole, il toast al cioccolato e i biscotti al burro.

                                                     Alessandra Fiorilli