Le noci: tra miti, leggende e quel Miracolo narrato ne “I Promessi Sposi”

Furono i Persiani a portarle in Europa dall’Asia Minore e da allora sono state circondate da storie e leggende dai profondi significati simbolici.

Per i Greci le noci erano considerate doni degni di un re, mentre gli antichi Romani adoravano mangiarle, certi che l’albero dal quale nascevano fosse sacro a Giove, e a conferma della predilezione che i romani avevano per questi frutti, durante gli scavi di Ercolano, sono stati ritrovati fossili di noci carbonizzate dall’eruzione del Vesuvio.

Secoli dopo, durante il Medioevo l’albero del noce fu considerato come quello preferito dalle streghe sotto al quale, secondo alcune leggende, amavano riunirsi per preparare i loro miscugli.

I Britanni, sulla base di  testimonianze risalenti alla dominazione romana in quell’area, la notte del solstizio d’estate erano soliti bere un liquore scuro di noce, molto apprezzato, tempo dopo, anche dai francesi, dai quali sembra che gli italiani abbiano imparato l’arte di preparare il nocino, usando  i malli  delle noci ancora verdi ed alcool.

Coltivate in tutto il mondo, la produzione maggiore la vanta il Cile e la California, ma l’Italia non sta certo a guadare, vantando due tipi molto ricercati: la Sorrentina e le noci Lara.

La costiera a nord di Sorrento non è l’unica zona della Campania dove si trovano i noceti, se ne hanno  anche nell’agro di Nola, nell’area flegrea, nei comuni vesuviani e nella terra casertana.

L’altra eccellenza italiana è la noce Lara, con il suo guscio a globo e prodotta in Veneto.

Le noci, che l’immaginario collettivo vede come le protagoniste delle festività natalizie, portate in tavola in ceste, insieme all’altra frutta secca come mandorle e nocciole, in realtà rappresentano un alimento completo, con un elevato contenuto di Omega 3 e Omega 6, di Vitamina E, del gruppo B e ricche di minerali.

Inoltre, secondo la teoria delle segnature di Paracelso, farebbero bene al cervello e alle memoria perché il loro gheriglio somiglia molto alla struttura della corteccia celebrale.

Ottime per chi fa sport, in cucina accompagnano primi come il riso con il gorgonzola, arricchiscono l’ impasto del pane e la loro granella viene talvolta usata anche  per impanare carni o pesci.

E poi… come dimenticare che al di là di tutte che leggende antiche e moderne, le noci sono state celebrate persino dal grande Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”, il cui capitolo terzo,  si conclude proprio con il “Miracolo delle noci”.

Fra’ Galdino, infatti, dopo aver bussato alla porta di Agnese, riceve le noci in dono per il suo convento, e prima di andar via racconta una storia.

 Un giorno, il proprietario di un  noce decise di abbattere questo suo albero, certo che non avrebbe prodotto frutti, ma Padre Macario del vicino convento dei  Cappuccini gli disse che quello  stesso noce, in primavera, avrebbe invece dato abbondanti frutti. L’uomo si convinse e non solo seguì il consiglio del frate, quanto gli promise che, in caso di un buon raccolto, la metà delle noci sarebbe andata in elemosina al convento. Ma il giovane e scapestrato figlio del proprietario non mantenne la parola data: e quando un giorno andò al granaio per ammirare l’abbondante raccolto, si accorse che di questo non era rimasto altro che i fiori secchi della pianta.

                                Alessandra Fiorilli

Pan Canasta: quel panettone salato goloso, stuzzicante, invitante

Coinvolti a tal punto dal gioco delle carte da non voler rimandare nemmeno la partita al dopo pranzo, qualcuno pensò tra sé e sé: “Dovranno pure mangiare qualcosa”.

Ma questi  “ligi giocatori” non volevano proprio lasciare il proprio posto attorno al tavolo da gioco per sedersi attorno a quello di una cucina o di una sala da pranzo… sarebbe stato, quindi,  necessario portare loro qualcosa di stuzzicante, goloso da mangiare e al tempo stesso facile da prendere e da gustare senza sporcarsi: e così nacque, come vuole la storia, il Pan Canasta.

Un Pan Canasta riccamente farcito (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso era considerato il re degli antipasti: servito insieme agli immancabili voulevant ripieni e all’insalata russa, non poteva certo mancare come preludio ad una cena “all’ impiedi”, come era di moda sul finire del XX secolo, magari accompagnato da un bicchiere di spumante.

Poi, il lento declino. ma negli ultimi decenni, grazie agli ormai numerosi programmi televisivi di cucina che l’hanno rilanciato, sta vivendo un nuovo “momento di gloria”.

Per alcuni è il “panettone gastronomico” che si differenzia dal suo fratello dolce e protagonista della tavola di Natale, per il fatto di essere un prodotto lievitato sì, ma salato, pronto ad accogliere al suo interno salumi, formaggi, sottolio, carote tagliate alla julienne, insalata, ma anche uova sode, salsa tonnata, maionese, ma la fantasia e il gusto può fare il resto: c’è chi non disdegna farcirlo con il pregiato tartufo o in versione vegetariana, puntando su verdure, sottaceti, olive e salse.

Tagliato trasversalmente per essere poi imbottito a piacimento, appunto, di solito sulla sua cupola svettano spesso bandierine di carta multicolori, come quelle che si è soliti vedere nei bicchieri estivi di bibite ghiacciate.

La soddisfazione maggiore la si ha quando viene preparato in casa, con farina di manitoba e 00, latte, uova, lievito di birra, sale.

Il classico formato è quello simile al panettone, ma non mancano anche i mini Pan Canasta, ideali specie per le feste tra  bambini.

Un delizioso mini Pan Canasta (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

E così questo prodotto rustico, noto anche come Pan brioche, per la sua morbidezza, ha lasciato i fumosi tavoli da gioco per lanciarsi e reinventarsi con gusto, strizzando sempre l’occhio ad una golosità semplice, veloce e di fronte alla quale difficilmente si può declinare l’invito.

                              Alessandra Fiorilli

Ode agli gnocchi

Ci sono dei piatti che non sono soltanto delle pietanze da gustare, ma custodiscono immagini care, capaci, talvolta, di riportarci indietro in tempo.

Chi non ha mai assistito, da bambini, alla preparazione degli gnocchi, con la nonna dal grembiule ombrato di farina? E quante volte abbiamo guardato, incantati, il sapiente movimento delle mani che impastavano con passione semplici ingredienti?

E poi, avremmo sicuramente chiesto alla nonna di aiutarla: eccoci, dunque, forchetta alla mano, ad imprimere su quei piccoli cilindri di pasta, la forma della forchetta, in modo che quelle “rughe” avrebbero assorbito, voluttuosamente, il sugo con il quale sarebbero stati conditi.

Tanta è la poesia che si cela dietro gli gnocchi, da essere considerati non un semplice formato di pasta, ma una famiglia a sé, come confermato dal grandissimo gastronomo e scrittore Pellegrino Artusi, nella sua opera summa “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.

Preparati con le patate, con il semolino, come quelli detti alla romana, o con una semplicissima pasta choux, o pasta bignè, a base di sola farina ed acqua, sanno dominare la scena, anche se il loro condimento è semplice, come richiede la tradizione.

Degli gnocchi si ha notizia già dalla seconda metà del Cinquecento, ma due secoli più tardi arriveranno ad essere annoverati tra i piatti preferiti dai nobili, che sceglieranno di condirli con sughi ricchi e corposi.

A Roma questo piatto è legato un preciso giorno della settimana, quello del giovedì e questa tradizione affonda le sue radici nella cristianità, che vuole il venerdì “di magro” e quindi, un bel piatto di corposi gnocchi mangiati il giorno precedente, rende il povero pranzo del venerdì più sopportabile.

Nella Capitale non è raro trovare tipiche trattorie che ancora seguono questo rituale legato ad una tradizione particolarmente sentita nel secolo scorso.

Regione che vai, giorno dedicato agli gnocchi che trovi: in Campania si servono di domenica, conditi con un semplice sugo al basilico  e mozzarella e, se gratinati al forno, prendono il nome di gnocchi alla sorrentina per il particolare connubio di sapori tipici della costa mediterranea come l’odoroso basilico.

Nell’Italia del nord si preferisce condirli con il burro e la salvia, come era soliti mangiarli durante il Rinascimento,  e portarli in tavola il  venerdì.

Gli gnocchi non disdegnano, come loro compagni, neanche lo speck, le noci, i formaggi.

E quella corposità che avverti appena li porti alla bocca, sono tra le cose più buone che la cucina italiana è in grado di regalarci.

                                   Alessandra Fiorilli

La Pigna di tarallo: la sua storia e il suo significato simbolico

Tipica della città di Caserta e della sua provincia, la Pigna di Tarallo è l’altro dolce simbolo, accanto alla Pastiera, della festività pasquale in terra campana.

Può essere considerata la sorella dell’altro immancabile protagonista della tavola di Pasqua, il tortano o casatiello: non  a caso, la Pigna è anche conosciuta con il nome di “casatiello dolce”.

Grande manualità ed esperienza, quella che viene richiesta per la preparazione della Pigna, il cui impasto dovrà essere senza grumi e soffice.

E’ un dolce che racchiude in sé una profonda simbologia, come quella che si cela dietro la durata richiesta per la lievitazione: 72 ore, proprio il tempo che va dalla morte di Gesù alla sua Resurrezione.

 Al suo interno nessuna farcitura, e questa sua peculiarità, sino alla prima metà del secolo scorso, significava avere la colazione garantita per i più piccoli almeno per una paio di settimane: con il passar dei giorni, il dolce, infatti,  induriva e questo lo rendeva ideale per inzupparne una fetta nel latte.

Quello che invece, migliorava, era l’aroma sprigionato: un misto di vanillina e di limone in grado di regalare al palato un trionfo di sapori.

Qualche curiosità sul nome:  sembra che derivi da “pignata”, un recipiente di coccio usato per la cottura dei fagioli, e la cui forma era proprio ricalcata da questo dolce pasquale.

Il secondo appellativo, “tarallo”, è legato, invece, alla consistenza, alquanto simile a quella  dei rustici pugliesi, che assume dopo qualche giorno dalla preparazione.

Solitamente è  ricoperto da una glassa bianca,  ma c’è chi lo preferisce senza glassatura per godere della vista delle “fresature”, ovvero  aperture che ricordano le crepe sui fianchi di un vulcano e che non sono delle imperfezioni, quanto piuttosto un effetto della crescita della Pigna stessa.

E con la storia di questo dolce tipico pasquale, la rivista EmozionAmici augura a tutti i suoi lettori una Serena Pasqua, nonostante il difficile periodo che stiamo vivendo.

Ce la faremo, distanti fisicamente ma vicinissimi nel cuore.

                                                                                   Alessandra Fiorilli

La Lasagna: non un piatto della Festa, ma la Festa stessa.

E’ il simbolo della Festa e della famiglia che prende posto intorno alla tavola imbandita.

E’ gioia, voglia di stare insieme, è felice condivisione di momenti.

E’ la regina della gastronomia italiana: è la lasagna.

La sua origine sembra affondare le radici in epoca romana, quando si preparava il “laganon”, una sottile sfoglia con farina di grano e cotta direttamente sul fuoco: non a caso l’altro termine, “lasanum”,  dal quale potrebbe derivare il nome attuale,   indicava  proprio il treppiede che si portava sul fuoco per cuocere i cibi.

Apicio parla di una “lagana” descrivendola come un insieme di sfoglie sottili di pasta che venivano, poi farcite con carne. Il piatto degli antichi romani differiva, però, dal nostro, in quanto non si presentava come quello che siamo soliti portare in tavola: somigliava, infatti, più ad un pasticcio di pasta farcita.

Il Medioevo è l’epoca d’oro della lasagna, non a caso viene menzionata in molte opere di scrittori: da Jacopone da Todi a Cecco Angiolieri.

L’epoca successiva, quella rinascimentale, vede nel nord Italia, in particolare nell’Emilia Romagna, l’aggiunta delle uova all’impasto e l’accurata preparazione della lasagna la ritroviamo in una ricetta del XIV secolo, dove si parla di : “Strati di pasta e formaggi alternati”.

L’aggiunta del pomodoro, però, avverrà solo intorno al 1660, quando la  famosa “salsa napoletana” regalerà alla lasagna quel tocco in più.

E’ della prima metà del XVII secolo una ricetta contenuta in un libro pubblicato proprio a Napoli, dove si legge di : “Lasagne stufate, condite con mozzarella e cacio e poi messe in forno”.

Tradizione vuole che uno dei più ghiotti in assoluto della lasagna fosse proprio un re di Napoli, Francesco II di  Borbone, al quale venne dato persino il nomignolo di “re lasagna”, per indicare quanto fosse forte la sua predilezione per questo piatto.

Ippolito Cavalcanti, noto cuoco napoletano, nel suo ricettario del 1837, descriverà minuziosamente questo piatto a base  di: “Strati di pasta intervallati da un sugo di carne, piccole polpette, fette di mozzarella o provola, formaggio grattugiato”: la lasagna che tutti conosciamo ed apprezziamo è già nata.

Sarà un evento storico importante, quello dell’Unità d’Italia, a far accendere l’interesse di molti, attorno a questo piatto che diventerà, per gli italiani, il simbolo della festa per eccellenza.

Eppure, quando nel 1891 è pubblicato il volume “La scienza in cucina” del notissimo Pellegrino Artusi, lo stesso gastronomo, non menziona, nella sua opera, la lasagna.

Le variazioni che vengono apportate alla ricetta base fanno trasparire l’importanza che alcuni ingredienti rivestono nella tradizione gastronomica delle regioni italiane: in Liguria, ad esempio, il ragù viene sostituito con il pesto, in Veneto si ha l’aggiunta del Radicchio rosso IGP, mentre nelle regioni adagiate sugli Appennini si preferisce infarcire la lasagna con i funghi porcini e il tartufo, mentre in Sicilia non mancheranno, nel ripieno, le melanzane.

Dal Nord al Sud della nostra penisola, dal mare alla montagna, le variazioni alla ricetta originaria nulla tolgono al significato che la lasagna riveste nella tradizione, e non solo gastronomica, italiana.

                                Alessandra Fiorilli

Il radicchio rosso trevigiano: la carta d’identità di questo prodotto italiano IGP

L’Italia è una nazione che può vantare un grande numero di prodotti DOC, DOPIGP:  tra questi ultimi, anche il Radicchio Rosso di Treviso, la cui zona di produzione è esplicitamente dichiarata nel Disciplinare dell’ Indicazione Geografica Protetta e comprende 24 comuni  tra le province di  Treviso, Padova e Venezia.

IGP è il marchio che identifica il territorio il  quale, grazie a specifiche caratteristiche, è in grado di dare, a un prodotto qualità che lo differenziano da altri della stessa specie.

I terreni dei 24 comuni compresi nelle tre province venete suindicate, sono fertili e ricchi delle acque purissime di falda che provengono direttamente dalle Dolomiti. Scorrendo sotto la ghiaia, risalgono in superficie, originando corsi d’acqua quali il Sile, il fiume che si può ammirare passeggiando per la città di Treviso.

E proprio da questa  città, la storia vuole che tutto abbia inizio: si narra, infatti, che il vivaista Francesco Van Den Borre, giunto dal Belgio nel 1870 per realizzare un giardino nel trevigiano, abbia fatto arrivare, in terra veneta, la tecnica di imbiancamento che veniva usata per le cicorie belghe, nonostante la coltivazione del radicchio fosse già avviata nella zona di Treviso, già nel XVI secolo

La sua famiglia d’origine è quella della comune cicoria, ma a rendere questo prodotto così unico ed apprezzato, è la  particolare lavorazione cui viene sottoposto.

Il Radicchio  rosso si divide in due categorie: il Precoce e il Tardivo, quest’ultimo è molto più pregiato e  richiede un trattamento complesso.

Già il nome con il quale è conosciuto, “re dell’inverno”, ci fa comprendere come il suo sviluppo sia legato al freddo: non a caso, lo stesso Disciplinare di Produzione prevede che la raccolta del radicchio debba avvenire dopo due brinate.

Vediamo insieme come nasce il radicchio trevigiano IGP: messi a dimora i semi nei vivai, le piantine vengono, successivamente, collocate nel terreno, tra luglio e metà agosto.

Con l’arrivo della prima brinata, verso il mese di novembre, si ha la raccolta delle piante che vengono, così, ripulite delle foglie più esterne, legate tra loro e immerse in vasche con acqua risorgiva per ottenere l’imbiancamento, periodo, questo, che dura 20-25 giorni, durante il quale le radici del radicchio diventano bianche e assorbono le sostanze nutritive dell’acqua stessa.

In questo lasso di tempo, le piante, grazie al buio e alla temperatura che si aggira intorno ai 10-13° C, germogliano di nuovo.

Dopo la  fase della “toelettatura”, il radicchio viene lavato ed è pronto ad arrivare in tutto il mondo.

E così, sui banchi ortofrutticoli,  si offre, languidamente, con il suo rosso scuro intenso delle foglie attraversate da striature bianche.

Ricco di antiossidanti, con un basso contenuto calorico, essendo composto per circa il 92% da acqua, il radicchio aiuta a contrastare i radicali liberi e l’invecchiamento, oltre a rappresentare un’ottima fonte di vitamina A, B1, B2.

Il sapore piacevolmente amarognolo e la sua consistenza croccante lo rendono ideale per il consumo sia crudo, in insalata, che cotto alla griglia.

Ottimo come ingrediente principe del risotto al formaggio Asiago, il radicchio trevigiano è un prodotto d’eccellenza italiano e il simbolo di un’antica tradizione capace di regalare un prodotto unico.

                                                   Alessandra Fiorilli

Alla riscoperta della pasta fresca fatta in casa: oggi parliamo di orecchiette pugliesi e “pettole” casertane

I Social, in queste settimane, si stanno riempiendo di foto e video che ritraggono gli italiani alle prese con pane, pizza, pasta, dolci.

I nostri connazionali ci stanno regalando, così, l’immagine di un’Italia che sembrava scomparsa da tempo, e, in un istante, siamo tornati tutti bambini, quando le nonne o le bisnonne impastavano, con grande maestria e passione, acqua e farina per portare in tavola la pasta fresca fatta in casa.

Ciascun prodotto appartenente alla tradizione italiana ha una storia da raccontare: oggi, in questo articolo, parliamo delle orecchiette pugliesi e delle “pettole” casertane.

Tipiche della Puglia ma diffuse anche in Basilicata, varie sono le ipotesi sulla loro comparsa: c’è chi le ritrova persino in un testo del grande poeta latino Varrone, vissuto tra il 116 e il 117 a. C., il quale, in un suo testo, parlava di una pasta, le “lixulae”, di forma tondeggiante con un incavo nella parte centrale e che ricordano proprio le odierne orecchiette. 

Un’altra ipotesi sembra essere legata, invece, al Medioevo, quando, tracce di una pasta prodotta con il grano duro delle Tavoliere, si hanno nella città di  Bari e nel suo entroterra. Sembra, però, che fosse una tradizione importata dalla Provenza, località, questa, dalla quale la pasta a forma di orecchiette, partì alla volta della Puglia, insieme agli Angioini, i quali intorno al XIII secolo, ebbero il controllo di gran parte del suddetto territorio.

 La forma data a tale tipo di pasta in terra francese, aveva una sua motivazione molto profonda, legata alle carestie che si dovevano, spesso, fronteggiare in epoca medievale: l’incavo che si faceva al centro del piccolo disco di pasta spessa, serviva, infatti, a rendere più facile l’essiccazione e, di conseguenza, anche la conservazione.

Un’altra corrente di pensiero, invece, vuole che le orecchiette abbiano avuto i loro natali nel territorio di Sannicandro di Bari, tra il XII e il XIII secolo, periodo, questo, della dominazione normanno-sveva nell’attuale Puglia.

I Normanni, infatti, proteggevano la comunità ebraica che risiedeva in terra pugliese e gli ebrei erano soliti preparare dei dolci, con un incavo al centro, note come le “Orecchie di Haman”, da cui scaturì la classica forma del formato di pasta delle orecchiette, appunto.

Una data è certa: quella del 1500, quando, negli archivi della chiesa di San Nicola di Bari,  in un atto notarile di cessione di un  panificio dal padre alla propria figlia, fosse indicata, alla voce “dote matrimoniale” anche la famosa ricetta delle “reccjetedde”, nome, questo, con il quale le orecchiette sono ancora oggi chiamate a Taranto e provincia

A Bari, invece, sono note con il nomignolo affettuoso di “L strascnat”, termine, questo che indica la modalità con la quale la pasta viene lavorata, strusciandola, appunto, sulla spianatoia.

Con la superficie esterna ruvida e spessa, e il cuore più liscio, le orecchiette si sposano alla perfezione con le famose cime di rapa, ma non disdegnano neanche cavolfiori, broccoli o altri tipi di verdura mentre, in altre zone della Puglia, come il Salento, si usa condirle con un sugo corposo e cosparse di ricotta di pecora.

Altra tipica pasta fatta in casa sono le pettole casertane, le cui origini sono legate alle tradizioni contadine dell’agro aversano. Si narra, infatti, che un piatto di pettole e fagioli non mancasse mai sulle tavole dei contadini i quali, dopo una lunghissima e faticosa giornata trascorsa sui campi, potevano trovare sollievo in questo piatto tipico che vedeva il connubio perfetto tra le pettole, pasta fresca a base di farina e  acqua e i fagioli, la cosiddetta “carne dei poveri”.

Noto come “Pettl’e fasul”, ancora oggi è un tipico piatto della zona di Caserta, riscoperto in particolar modo, in questo periodo di reclusione forzata, quando il tempo a disposizione permette di rispolverare piatti dei nostri avi, la cui preparazione poco si addice alla fretta nella quale eravamo soliti vivere prima dello “stop” impostoci dall’emergenza sanitaria in corso.

In attesa che tutto torni alla normalità, intanto, le mamme impastano acqua e farina, proprio come facevano le massaie di una volta, mentre i ragazzi di oggi possono, così, assaporare dei piatti di pasta fresca che custodiscono in sé una storia antica, fatta di consolidate usanze e di preziose tradizioni.

                                           Alessandra Fiorilli

La tipica graffa napoletana e la sua “sorella”, la classica e golosa ciambella fritta

Una ciambella fritta…calda, morbida, cosparsa di zucchero.

E così, in questo periodo in cui l’emergenza sanitaria ha azzerato la nostra quotidianità, quanto ci manca una ciambella fritta mangiata in strada per celebrare un incontro casuale tra amici, un esame universitario andato bene, una serata dal cielo terso.

E quante volte quella stessa ciambella fritta mangiata in strada ci ha consolato, ha asciugato quella lacrima, ci ha addolcito l’animo stanco.

Nell’impossibilità di gustarla seduti ad una bar, in pasticceria, è sempre possibile prepararla in casa, anche perché la ciambella fritta è più di un semplice dolce: è un’amica, una confidente, una parentesi tra gli impegni quotidiani, una coccola.

Le sue origini, nonostante sia tra i dolci più apprezzati e consumati in Italia, sono, invece, austriache: si narra che sia giunta nella nostra penisola insieme agli Asburgo, i quali dominarono il Regno di Napoli che divenne parte integrante dei loro domini  con il Trattato di Utrecht del 1713.

Fu così che gli austriaci portarono con sé dei bombolotti fritti e cosparsi di zucchero: i Krapfen.

Sull’origine del nome ci sono due ipotesi: la prima, è quella legata a una certa pasticcera austriaca, Cecilia Krapf, la quale, alla prese con la preparazione di un impasto, lo fa,  accidentalmente, cadere in una padella di olio pronta ad accogliere altri alimenti da cuocere. Si rende, però, conto di aver creato un dolce gustoso e saporito che prenderà da lei il nome con il quale sarà noto in tutto il mondo.

La seconda ipotesi vuole che la parola Krapfen abbia origine dal termine austriaco “Krafo”, ovvero uncino, perché un’altra tradizione vuole che l’originaria forma ricordasse proprio quella di un uncino, appunto.

Con molta probabilità e per una chiara assonanza, da “Krafo” deriverebbe il nome con il quale le ciambelle fritte sono conosciute in Campania: graffe, che, a differenza delle classiche ciambelle consumate nel resto d’Italia, vengono preparate con le patate, oltre ai classici ingredienti quali la farina, le uova, il burro, il latte, la scorza di limone.

Qualsiasi sia il suo nome o la sua origine, quanto è bello gustare una ciambella calda ad occhi chiusi con quello zucchero che rimane sulle labbra e ai lati della bocca?

                                                   Alessandra Fiorilli

La storia della Zeppola di San Giuseppe, dolce tipico della Festa del Papà

La prima ricetta scritta della Zeppola di San Giuseppe la troviamo nell’opera “La cucina teorico pratica” redatta da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nato ad Afragola, paese in provincia di Napoli, dove poi è morto.

Parente del famoso poeta Guido e di nobili natali, la sua opera più nota, da lui rivista ed aggiornata più volte , è un omaggio alla cucina napoletana e, non a caso, tra le ricette spiccano quella della parmigiana di melanzane, della pizza fritta, dei vermicelli con le vongole, della minestra maritata.

Tra i dolci, invece, sono menzionate la famose Zeppole di San Giuseppe, che, nel trattato di Ippolito Cavalcanti, le troviamo preparate con farina, acqua, liquore d’anice, marsala o vino bianco, sale, zucchero e fritte nell’olio.

La zeppola che oggi conosciamo è arricchita, al suo interno, di crema pasticcera, la cui aggiunta successiva deriva, con molta probabilità, dalla dominazione francese sul territorio napoletano.

Mentre, invece, l’amarena sciroppata , si badi bene, e non la ciliegia, che viene posta alla sommità della zeppola  come decorazione, serve a regalare quel tocco di asprigno necessario a “spegnere” l’eccessiva dolcezza dell’impasto unito alla crema.

Così come per gli altri cibi fritti e che venivano solitamente mangiati in strada, anche le zeppole erano preparate sul momento, fritte da venditori che avevano, sino alla metà del secolo scorso,  i loro banchetti davanti la propria abitazione.

L’origine della zeppola legata ai festeggiamenti della Festa del Papà (anche se da anni ormai, compare dietro i banconi delle pasticcerie già durante il periodo di Carnevale, accanto alle tradizionali frappe e castagnole) sembra essere religiosa: alcuni, infatti,  narrano che  San Giuseppe, dopo la fuga dall’Egitto insieme a Maria e a Gesù, si diede alla vendita di frittelle per mantenere la propria famiglia.

Nell’antica Roma, invece, l’usanza di consumare frittelle fritte era legata alle feste delle Liberalia, che si tenevano proprio intorno alla prima metà di marzo, periodo nel quale si festeggiavano Bacco e Sileno, con fiumi di vino e, appunto, cibo dolce fritto.

Se la classica Zeppola di San Giuseppe ha origini napoletane, in altre parti d’Italia si è soliti preparare altri dolci che, in comune con quello campano, hanno i classici ingredienti per l’impasto e la crema come ripieno, ma non sono decorati con l’amarena, , come il Bignè di San Giuseppe, tipico di Roma.

In Toscana e in Umbria, molto diffusa è la frittella di riso, mentre in Emilia Romagna, è la raviola, simile al bignè romano di San Giuseppe.

Tanti auguri a tutti Papà dalla rivista EmozionAmici.

                                       Alessandra Fiorilli

Tra antiche tradizioni, classiche ricette e un pizzico di innovazione, ecco le protagoniste del Carnevale: le frappe e le castagnole.

Tra carri allegorici e cortei in maschera, tra stelle filanti e coriandoli, ecco arrivare anche loro: le frappe e le castagnole, i dolci tipici di questa festa antica, che affonda le sue radici nell’antica Roma dove, in onore di Saturno, si organizzavano feste goliardiche chiamate, appunto, Saturnalia.

Era questo, un periodo nel quale l’ordine delle cose poteva essere sovvertito per tornare, poi, rinnovati e rigenerati, ad un assetto nel quale la morigeratezza dei costumi  ed il rispetto delle regole avrebbero rappresentato, nuovamente,  il cardine fondamentale dell’intera società.

Durante i Saturnalia, non poteva certo mancare la celebrazione anche della gola: ecco nascere, i Frictilia, ovvero dei dolci fritti nello strutto che venivano distribuiti alle persone le quali, durante questo periodo delle storia romana, si riversavano, numerose, nelle strade.

E sempre un grande gastronomo  e cuoco, nonché scrittore romano, Marco Gavio Apicio, parla nel suo libro “De re coquinaria”, di frittelle a base di uova e farina tagliate a bocconcini, fritte nello strutto e cosparse di miele.

Con l’avvento del Cristianesimo la festa del carnevale rappresenta l’ultimo avamposto della celebrazione dei peccati di gola e della goliardia, non a caso il Martedì Grasso, che conclude il Carnevale, precede di un  giorno il Mercoledì Delle Ceneri, con il quale ha inizio la Quaresima, che conduce alla celebrazione della Santa Pasqua.

Proprio  il nome Carnevale sembri derivi dal latino “Carne levare”, ovvero togliere la carne,  perché, secondo l’ortodossia cristiana, nei quaranta giorni che vanno dal martedì grasso alla Pasqua di Resurrezione, non andrebbe consumata la carne.

Inalterate sono rimaste, invece, sin dall’epoca romana, le tradizioni legate alla preparazione e al consumo dei dolci: le classiche frappe, dirette discendenti delle  Frictilia, sono ancora il simbolo di questa festa, anche se la ricetta più simile a quella dell’odierna frappa, è quella che Domenico Romoli scrive, nel 1560, in un suo libro, dove parla di questo impasto a base di farina, uova, zucchero, stesa, tagliata a strisce, fritta nello strutto e cosparsa di miele.

Regione che vai, nome che trovi di queste gustose strisce di pasta dai bordi arricciati e spolverate di abbondante  zucchero a velo: chiacchiere, cenci, frappole, crostoni, bugie.

Una leggenda vuole che proprio il nome di chiacchiere, con cui sono conosciute in molte regioni d’Italia,  sia legato alla richiesta della regina di Casa Savoia al suo cuoco Raffaele Esposito, di deliziare le conversazioni, o chiacchiere, appunto, nelle stanze di Palazzo Reale  con dei dolci fragranti, semplici ma saporiti.

Con il tempo si sono aggiunte anche delle varianti alla ricetta originaria: c’è chi aggiunge all’impasto, ad esempio, il marsala, il Vin Santo o quello bianco.

Più recente, invece, l’origine dell’altro dolce tipico del carnevale: le castagnole, così chiamate perché, per la loro forma e dimensione, ricordano, appunto,  quella della castagna.

I primi cenni scritti di quest’altra delizia, li troviamo nell’Archivio di Stato di Viterbo: siamo nel 1700, ma c’è chi fa risalire la comparsa delle castagnole, impasto a base di uova, zucchero, farina, burro, un secolo prima, alla corte degli Angiò e dei Farnese.

Anche le castagnole, nel corso del tempo,  hanno visto aggiungere al loro impasto originario, il rum, il cioccolato, l’alchermes, così come le frappe hanno conosciuto anche un altro metodo di cottura, quella al forno.

Cambiano il tempo e le abitudini ma loro, le frappe e le castagnole, rimangono sempre le indiscusse protagoniste del Carnevale.

                                             Alessandra Fiorilli