La nonna e la mamma mi stavano aspettando fuori da quella minuscola cappella con le panche scure, dove io mi rifugiai per espiare la colpa di non essermi avvicinata a te. La mamma poi mi disse di aver compreso appieno il mio tormento, l’angoscia di quella mattina, quel rimorso così forte da togliere il fiato, quel senso di smarrimento che avevo provato davanti a te, nonno. Parlammo proprio di questa mia inaspettata reazione una volta tornate a casa, la mamma mi disse che avremmo dovuto farci forza vicendevolmente, che era necessario superare quell’angosciante barriera del dolore perché solo così saremmo potute stare vicino a te sino all’ultimo. Se mai ci fossimo fatte trascinare dalla corrente della paura e della disperazione, chi si sarebbe preso cura di te, chi ti avrebbe dato il buongiorno al mattino, nel freddo di una corsia d’ospedale, chi ti avrebbe aiutato a mangiare all’ora di pranzo e alla sera, chi avrebbe parlato con i medici, chi avrebbe potuto confortarti del fatto che stavi in ospedale ma che avevano la ferma intenzione di colmare ogni attimo, ogni istante con la nostra amorevole presenza?
Era proprio così, proprio come mi aveva detto la mamma che diventò forte come lo eri stato tu, nonno.
Quelle ore che mi separarono da te furono interminabili e le vissi con dolorosa angoscia. A pranzo non riuscii a mangiare nulla e alle due e un quarto ero già fuori la porta del reparto. L’attesa la colmai recandomi nella cappella dell’ospedale, feci così per tutte le tre settimane del tuo ricovero perché mi sembrava che quella preghiera fatta in ginocchio davanti al Cristo sofferente sulla croce e con il capo reclino, riuscisse a darmi un po’ di sollievo e di coraggio, lo stesso che avrei dovuto infonderti durante i nostri numerosi incontri in corsia. Poi la porta del reparto si spalancò ai visitatori ed io fui la prima ad entrare, mi diressi forte e sicura verso il tuo letto ma con grande inquietudine vidi che non c’eri più, le lenzuola erano state tirate via dal materasso ma sul cuscino c’era ancora la forma della testa…chiesi, con un tono disperato della voce, dove fossi e l’infermiera mi disse che ti avevano trasferito in un altro reparto. Giunte davanti alla porta dai vetri sabbiati, il cuore quasi non lo sentivo più, le tempie stavano battendo come tamburi, la fronte era madida di sudore ma il ricordo della vigliaccata del mattino stesso mi impedì di tentennare sull’uscio dell’entrata. La tua stanza era l’ultima sulla destra, quella di fronte alla saletta dove si riunivano i medici, gli stessi medici che tentarono di regalare a te qualche istante di vita in più, e a noi la sensazione che, fino a quando fosti stato ancora in vita, tu rimanevi la nostra luce, nonostante il buio attorno a te e la nostra forza, nonostante la tua estrema debolezza fisica. Sentii il rumore dei miei passi rimbombare sin dentro le meningi e tutto quello che era intorno appariva essere avvolto in una irrealtà fatta di camici bianchi, di tute verdi, di zoccoli di legno, di ciabatte di plastica colorata, di odore di alcool e di disinfettante, di rumori metallici, di macchinari con lunghi tubi, mentre fuori di lì, al di là di quelle finestre era giugno, il mese che più amavano entrambi perché segnava il preludio dell’estate, delle nostre estati da trascorrere fuori in veranda, al mare, o in campagna a raccogliere la frutta estiva così gustosa e dolce. Mentre davanti agli occhi mi passarono, come in un caleidoscopio, tutte le immagini di me e di te, seduti in giardino o ad innaffiare le piante di pomodoro, mi accorsi di essere arrivata a destinazione: ecco l’ultima stanzetta a destra, dove ti trovavi tu, nonno.