Aritmie e tachicardie in quest’intervista con uno dei maggiori esperti italiani: il Dottor Massimo Grimaldi, Cardiologo.

Accompagna ogni singolo nostro respiro, si emoziona con noi, asseconda paura e timori, ma anche gioie e felicità.

E’ l’emblema stesso dell’essere in vita e, nel corso dei secoli, è stato osannato da poeti, letterati,  musicisti.

Rappresenta l’amore, impariamo a disegnarlo sin da piccoli e, da quando sono comparse le emoticon, il suo simbolo è tra i più usati.

Stiamo parlando del cuore, di quest’organo che percepiamo, che sentiamo, e la cui variazione di ritmo e velocità, se non dovuta a fattori esterni oggettivamente rilevabili, ci mette in allarme.

Il campo delle aritmie e delle tachicardie è vasto e, per far chiarezza, ho intervistato uno dei maggiori esperti della cardiologia italiana: il Dottor Massimo Grimaldi, il quale, nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior cardiologo d’Italia ai Top Doctord Awards, con la seguente motivazione: “Premio all’eccellenza come specialista di prim’ordine conferito dalla comunità medica italiana attraverso le segnalazioni ricevute durante il 2017.”

Il Dottor Massimo Grimaldi, Cardiologo (foto per gentile concessione del Dottor Massimo Grimaldi)

La branca che studia la formazione e la conduzione degli impulsi elettrici del cuore è quella dell’Elettrofisiologia Cardiaca. L’ Aritmologia   si occupa dei disturbi del ritmo cardiaco e proprio dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale di Artimologia il Dottor Grimaldi è il Responsabile, presso l’Ospedale F. Mulli di Acquaviva delle Fonti, Bari,  e sempre di questa branca è stato docente presso la Scuola di Specializzazione in Cardiologia presso l’Università di Foggia.

Dopo il conseguimento della Laurea con lode in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bari, si specializza in Cardiologia presso lo stesso ateneo, per conseguire poi il Dottorato di Ricerca in Fisiopatologia e Clinica dell’Apparato Cardiovascolare e Respiratorio presso l’Università di Pisa.

Esperienze maturate all’estero, numerose pubblicazioni a carattere scientifico, circa 6000 ablazioni transcatetere, completano il brillante e ricco curriculum del Dottor Grimaldi, il quale, in merito  alle aritmie, così si esprime:

Il cuore è un muscolo e ha bisogno di un impulso elettrico per  attivare la contrazione.  Normalmente il cuore si contrae per 60-80  battiti al minuto (b/m), nel momento in cui si registra una perdita di ritmicità  o un incremento (oltre i 100 b/m) o una diminuzione (al di sotto di 60 b/m) di tali battiti, parliamo di aritmia, che può essere fisiologica o patologica”.

Quante volte, a causa di un’emozione o di uno sforzo, avvertiamo che il nostro cuore sta battendo più velocemente; anche la febbre o la digestione accelerano la frequenza cardiaca. Ecco :”Tutte queste situazioni generano tachicardie che si definiscono fisiologiche in quanto sono provocate da una normale reazione del nostro organismo. Nulla di cui preoccuparsi se il cuore arriva a registrare, limitatamente a quel contesto, anche i 180 battiti al minuto”.

Importante è anche la modalità in cui il cuore accelera i suoi battiti, se avviene Gradualmente e  torna alla sua velocità normale in modo progressivo, non c’è nulla di cui allarmarsi, solitamente si tratta di tachciardie fisiologiche. Di contro quando l’accelerazione è improvvisa, brusca quasi sempre si tratta di tachicardie patologiche.”

L’aritmia assume fattezze che possono destare preoccupazione, richiedendo, così, il ricorso a uno specialista, :”L’aritmia che deve destare allarme è quella che insorge in maniera immotivata, ovvero non a causa di un’emozione o di uno sforzo. L’aumento, inoltre, dovrà essere brusco e il cambio di ritmo repentino. Pertanto, quando i battiti superano, velocemente e senza motivo, i 150-160 b/m, è il caso di approfondire, perché molto probabilmente ci troviamo di fronte ad un’aritmia patologica”.

Le tachicardie dunque possono essere sia fisiologiche che patologiche, ma quelle patologiche sono sempre pericolose? Possiamo dividere le tachicardie in due gruppi: quelle sopraventricolari che generalmente sono soltanto fastidiose e che provengono dagli atri, e quelle ventricolari, che invece nascono nei ventricoli, e che possono anche essere a rischio di vita. Quando le tachicardie causano una sincope, ovvero una perdita transitoria di coscienza, possono essere particolarmente pericolose ed è opportuno chiamare immediatamente il 118”. Tra le tachicardie sopraventricolari, ricordiamo la fibrillazione atriale, che è caratterizzata da un battito particolarmente irregolare. Questa aritmia non è immediatamente pericolosa per la vita, ma aumenta notevolmente il rischio di ischemie cerebrali se non opportunamente trattata.

La tachicardia:” Si può rilevare anche con un semplice elettrocardiogramma, che è un esame fondamentale. Nei casi in cui gli episodi sono sporadici la diagnosi può essere posta con un elettrocardiogramma di lunga durata chiamato ECG- secondo Holter. La durata del monitoraggio solitamente è di 24 ore ma può arrivare ad oltre 3 anni: in quest’ultimo caso, l’apparecchio è sottocutaneo e viene iniettato quasi come un micro-chip”.

Altro evento spesso viene riferito dai pazienti è quello del: Colpo in gola, che in realtà è un sintomo causato da un’extrasistole, ovvero una contrazione anticipata del cuore.  Queste, nonostante il paziente le avverta come fastidiose, nella maggior parte dei casi sono benigne, tuttavia se il soggetto è affetto da altre patologie cardiache o se avverte dolori al petto, sincopi o presincopi è meglio che consulti un medico”.

Ringrazio il Dottor Grimaldi per la sua grande capacità di aver illustrato, in maniera semplice e accurata le manifestazioni più frequenti legate alle aritmie cardiache.

                                            Alessandra Fiorilli                                                     

Fibromialgia: ce ne parla il Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) Direttore Centro Tumori, Fibromialgia, Stanchezza cronica, Ossigeno Ozono Terapia e Crioterapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group.

Una definizione, quella della Fibromialgia, che da sola riesce a circoscrivere non solo il quadro clinico di chi è affetto da tale patologia invalidante, ma anche tutti gli effetti prodotti dalla FBM nella sfera psichica del paziente: Condizione cronica non infiammatoria caratterizzata da dolorabilità diffusa, rigidità o dolore muscolare o articolare, dove ad esser colpiti sono i muscoli, i tendini e non le articolazioni” come ci dice il  Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) nonché Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group, con sede a Pordenone.

Il Professor Umberto Tirelli (Foto per gentile concessione ddel Professor Umberto Tirelli)

Procediamo con ordine: “Oltre alla condizione cronica suddetta, altri sintomi della Fibromialgia sono la stanchezza, la spossatezza, i disturbi di concentrazione e di memoria, le parestesie, ai quali vanno ad aggiungersi quelli di tipo psichiatrico (ansia, depressione ed attacchi di panico), dispepsia, colon irritabile e, nelle donne, vaginismo e dismenorrea”.

L’American College of Rheumatology aveva, nel 1990, legato la diagnosi di Fibromialgia a due condizioni particolari: un dolore diffuso simmetrico che durava da almeno tre mesi e la dolorabilità alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender point, anche se  :” Di recente lo stesso American College ha scelto di eliminare la valutazione sui tender point preferendo quella dei sintomi disfunzionali che comunque non sono propri solo  del quadro della fibromialgia,  ma comuni anche ad altre sindromi disfunzionali come la quella da stanchezza cronica”.

 Il dolore diffuso, la rigidità e il dolore muscolare o articolare, protratto nel tempo:” Fa sì che il soggetto affetto da Fibromialgia riscontra una inabilità a svolgere anche le più comuni attività quotidiane e, anche laddove queste vengano compiute, il recupero delle forze può richiedere un tempo imprecisato”.

Il Tirelli Medical Group (Foto per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 I 2/3 dei pazienti affetti da Fibromialgia, alla domanda su cosa avvertono sul proprio corpo, rispondono: Un dolore ovunque, dalla testa ai piedi. E non si tratta di un dolore qualunque, ma con specifiche caratteristiche: scottante, bruciante, vibrante, battente, martellante, profondo, tagliente, frequentemente viene riferita la sensazione di “ammaccatura”, o “corpo battuto”.

L’intensità del dolore non sempre è la stessa, infatti ci sono situazioni che lo fanno aggravare, rendendolo ancora più insopportabile: L’ansia e lo stress hanno un ruolo determinante nel peggioramento del quadro clinico, così come anche l’umidità il freddo, il sovraccarico ma anche l’inattività”.

La qualità del sonno peggiora moltissimo: “Tipico della Fibromialgia è la cosiddetta fatica al risveglio, causata da un sonno non ristoratore perché disturbato dal dolore. Dobbiamo dire che la fatica, piuttosto comune nella Fibromialgia, e che è presente nei pazienti con una percentuale che varia dal 75% al 90%, la si avverte soprattutto al mattino. Non a caso i pazienti si svegliano sentendosi già stanchi o più stanchi di quando sono andati a letto.”.

La Fibromialgia non colpisce in egual misura i due sessi “Il rapporto donne –uomini è di 8:1”.

Ancora sconosciute le cause scatenanti della fibromialgia: Potrebbe esserci lo stress, l’ansia, il sovraccarico di lavoro ma si è affacciata anche l’ipotesi di una ipersensibilità del cervello al dolore. Eppure, a tutt’oggi, la medicina non può indicare ancora una causa scatenante. Potrebbe trattarsi anche di una causa di tipo immunologico, forse legata ad un fatto infettivo che potrebbe essere scatenato persino da una situazione stressante”.

Ma come si giunge ad una diagnosi di Fibromialgia? Trascorsi 6 mesi dalla prima manifestazione di questo dolore invalidante ed entro 1 anno dall’insorgenza dello stesso, il medico, dopo aver escluso qualsiasi patologia legata ai muscoli e ai tendini, giungerà ad una diagnosi di Fibromialgia.  E’ da evidenziare come ci possa esser una sovrapposizione con la sindrome da fatica cronica (CFS), dove la spossatezza prevale sul dolore, che è invece prevalente nella Fibromialgia. E’ stato stimato che il 20/ 70% dei pazienti con Fibromialgia soddisfi anche i criteri per la CFS e viceversa, il 35%-70% dei pazienti con CFS presenti anche una FBM concomitante. Rispetto ai pazienti affetti solo da Fibromialgia, quel che soddisfacevano i criteri per entrambe le sindromi erano sottoposti ad un peggior decorso della malattia, una peggiore salute generale, un maggior numero di sintomi diversi tipici della CFS ed un maggiore impatto sulla qualità della vita. Di fronte a ciò alcuni ricercatori hanno evidenziato come queste due condizioni debbano essere considerate come differenti manifestazioni degli stessi processi biomedici e psicosociali”.

Cosa può fare il paziente di fronte ad una diagnosi di fibromialgia? “I trattamenti usati fino ad ora, ascrivibili alla sfera degli antidolorifici o degli ansiolitici o degli antidepressivi, non hanno prodotto grandi benefici. Da 2 anni, presso il nostro Centro di Pordenone, applichiamo l’Ossigeno Ozono Terapia sui pazienti affetti da Fibromialgia, con un miglioramento sul 70% dei pazienti trattati e con una pubblicazione su una rivista indicizzata. C’è da dire che l’Ossigeno Ozono Terapia è un antinfiammatorio, antidolorifico, energetico, usato anche per alleviare la fatica oncologica, perché purtroppo la chemioterapia, l’ormonoterapia, l’immunoterapia, la radioterapia, come effetti collaterali, hanno spesso anche quella di causare stanchezza”.

L’Ossigeno Ozono Terapia, con le sue proprietà antinfiammatorie ed analgesiche, prevede l’introduzione di una miscela di ossigeno e ozono nell’organismo del paziente: Per autoemotrasfusione e per insufflazione rettale, due volte a settimana per un mese e poi due volte al mese come terapia di mantenimento, secondo i protocolli della SIOOT (Società Italiana Ossigeno Ozono Terapia). Abbiamo registrato un incremento significativo della riduzione della sintomatologia nel 70% dei pazienti trattati, nessuno dei quali ha riportato effetti collaterali: questo a dimostrazione di come l’Ossigeno Ozono Terapia rappresenti un efficace trattamento per la Fibromialgia”

                                     Alessandra Fiorilli

“Tiere Motus” a Venzone: un Museo, un Sacrario della memoria, un grande esempio di come si rinasce dopo un terremoto disastroso.

Entrare nel Museo “Tiere Motus”, ospitato nel Palazzo Orgnani- Martina, a Venzone, borgo a circa 30 km da Udine, è entrare nell’animo, nei cuori, nelle menti, persino in ogni singolo battito del cuore di coloro i quali hanno vissuto il tremendo terremoto del 6 maggio 1976.

Appena se ne varca la soglia, le foto, alcune in bianco e nero, altre a colori, nonché i titoli a caratteri cubitali dei principali quotidiani nazionali, sembrano accoglierti nel loro grembo, fatto sì di dolore, ma anche di tanta dignità, e di una volontà ferrea che farà del Friuli terremotato un simbolo per tutta Italia.

Una delle sale del percorso espositivo del Museo “Tiere Motus” di Venzone (Foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documentazione Venzone), dove campeggia una significativa frase: “Il Friuli ringrazia e non dimentica”

“Tiere Motus” è un Museo, ma anche una sorta di Sacrario della memoria e quando sei lì, ad osservare l’esposizione fotografica, quasi ti verrebbe spontaneo chiedere il permesso di osservare tutte quelle immagini, perché trasudano una sofferenza unita ad una forza che permetterà al Friuli di risorgere.

A raccontarci la storia di questo Museo è la Direttrice dello stesso, la Dottoressa Floriana Marino, architetto, siciliana d’origine, veneziana per studio, avendo frequentato l’Università nel capoluogo veneto, e friulana per amore verso questo popolo che tanto le ha insegnato.

“Sono arrivata a Venzone quando ancora si stava compiendo la ricostruzione e da allora non sono andata più via. Prima di questo incarico, sono stata responsabile del gruppo di lavoro e ho partecipato alla codirezione del Centro di Documentazione sul Terremoto del 1976, dal quale poi nascerà il Museo grazie alla volontà dell’Associazione Comuni Terremotati e Sindaci della Ricostruzione del Friuli. “Tiere Motus” è un luogo  dedicato alla memoria storica, dove tutta l’esperienza del terremoto e degli anni successivi al sisma, trova qui la sua sede.”

“Tiere Motus” viene inaugurato nel 2009: Dopo anni di un lavoro molto intenso con un gruppo operativo molto qualificato con il quale abbiamo collaborato bene. E’ stato indubbiamente un grande lavoro e ha richiesto un grande sforzo, ma siamo stati molti soddisfatti del risultato”.

Un’altra Sala (foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documetazione, Venzone)

Nella mostra fotografica: “Che ha richiesto due anni e mezzo per l’allestimento”, le immagini scelte “Tra migliaia e migliaia di foto,   sono corredate da didascalie non messe in evidenza, questo perché abbiamo deciso che sarebbero state le foto a parlare, foto che esprimono, pur nella loro drammaticità, il carattere e la determinazione della gente friulana”.

Il lavoro certosino svolto: Ci ha visti impegnati nel volere raccontare gli accadimenti del ’76 e della ricostruzione, facendo attenzione a non essere autoreferenziali e sforzandoci di essere, nella narrazione, il più obiettivi possibili. Abbiamo cercato un continuo confronto e condivisione, proprio per far emergere le diverse voci”.

 E così nel museo di Venzone, il terremoto: Come evento intimo di tutti quei friulani che hanno perso case e congiunti, è diventato un luogo della memoria, depositario di ricordi individuali, che necessariamente sono diventati collettivi. Abbiamo voluto far conoscere come il Friuli e la sua gente abbia saputo voltare pagina e raccogliere la sfida della ricostruzione”.

Nonostante l’immane distruzione causata dal sisma del 1976 : Che ha interessato ben 137 comuni, 45 disastrati nella cosiddetta area cratere, con 989 vittime”, le foto esposte testimoniano il grande desiderio di tornare alla normalità : “Tra le tante, c’è una immagine che riguarda la fabbrica di arredamento Fantoni, anch’essa, come moltissime, pesantemente danneggiata dal terremoto, e che ritrae un documento, datato luglio 1976, dove si invitano gli operai ad un brindisi per il primo mobile nato dopo il sisma. Questo è uno dei tantissimi esempi della  determinazione e della grande forza d’animo di persone che, dopo aver perso tutto, si sono ritrovate a ricominciare daccapo, impegnandosi e lottando. Aggiungo, che la ricostruzione è stato un periodo intenso ma anche duro, fatto di scontri e discussioni accese.”.

 Prima la forza, dunque, poi la partecipazione collettiva al grande processo di ricostruzione che è testimoniato sempre dalle foto esposte al museo, visitato anche da molti turisti stranieri, i quali :“Possono, così, vedere da vicino e comprendere  una delle pagine di storia recente del Friuli, fatta di macerie, distruzione, dolore ma anche di impegno, ordine, compiutezza”.

“Tiere Motus” non è solo un percorso espositivo, ma si compone anche di una sala molto particolare: La sala del simulatore  è nata ancora prima del museo. Ricostruire in realtà virtuale il crollo del Duomo di Venzone la notte del 6 maggio 1976 e gli effetti sonori del terremoto  ha richiesto circa 2 anni di lavoro. Il visitatore viene catapultato, nell’istante stesso in cui cade giù il duomo di Venzone, a quella notte. Il suono assordante delle migliaia di pietre che vengono giù, delle vetrate della chiesa che vanno in frantumi,   ha un grande impatto sui visitatori. Ma l’effetto sonoro più rilevante è dato dal terrificante boato che nasce dal cuore della terra, l’ “Orcolat” per i friulani, il terribile mostro. La sala di proiezione è dotata di un impianto di diffusione in grado di generare frequenze infrasoniche che fanno rivivere la spaventosa voce del terremoto. Una curiosità: la prima volta che lo mettemmo in funzione, tutti uscirono fuori spaventati, ecco perché il volume è tenuto  al minimo per non creare panico tra la gente di Venzone”.

La Sala Simulatore (foto per gentile concessione di “Tere Motus”, Centro di Documentazione, Venzone)

Ringrazio la Dottoressa Floriana Marino non solo per la disponibilità, ma anche per la grande capacità di raccontare un dolore così grande: “Non dimentichiamo che  quasi tutte le famiglie dei comuni disastrati hanno pianto la perdita di un proprio congiuntocon garbo, sensibilità per far capire come “Dietro la lucidità del disastro ci sia stata una forza così grande”.

Alessandra Fiorilli

 

 

“Gusti di Frontiera”: a Gorizia, dal 26 al 29 settembre, 413 espositori da tutto il mondo per gustare cibo e tradizioni dei Cinque Continenti.

 

Anche quest’anno Gorizia, nell’ultimo fine settimana di settembre, grazie a “Gusti di Frontiera”, si trasformerà in una vetrina internazionale, dove il cibo e le tradizioni gastronomiche di tutto il mondo accoglieranno i visitatori di una manifestazione che sta crescendo di anno in anno. Non una semplice “fiera”, ma un vero e proprio grande evento di respiro internazionale che taglia il traguardo, proprio quest’anno, della sua 16° edizione.

Uno scorcio del caratteristico borgo medievale di Gorizia e, sulla sinistra, il Castello su cui sventola la bandiera italiana(Foto di Lorenza Fiorilli)

413 gli stands che quest’anno attenderanno i visitatori da giovedì 26 settembre a domenica 29. Una festa di colori, un tripudio di odori, sapori, un’ occasione imperdibile per gustare specialità gastronomiche e per passare, senza aerei né  e treni, da una  nazione all’altra.

Uno stand dell’Europa Orientale, con le tipiche focacce lievitate cotte su piastra (foto di Lorenza Fiorilli)

La manifestazione “Gusti di Frontiera”,  nata 15 anni fa,  è maturata nella consapevolezza che, dopo la caduta della cortina di ferro,  Gorizia non era più solo l’estremo avamposto del blocco dell’Ovest contro quello dell’Est, ma una città nuova, come ci conferma Arianna Bellan, Assessore dei Grandi Eventi, Lavoro e Urbanistica del capoluogo friulano: “Da un punto di vista geografico, Gorizia è ancora una città di confine, ma se per decenni questo ha rappresentato un momento di divisione, oggi si sta cercando di trasformarlo in un’occasione di crescita e di modello di cooperazione europea. Anche una manifestazione come questa, che mette al centro le cucine di tutto il mondo, valorizzando contestualmente quella locale, va in questa direzione”.  

Uno scorcio del Borgo dedicato ai Paesi anglosassoni: in foto uno storico bus rosso inglese (foto di Lorenza Fiorilli)

Nei primi anni “Gusti di Frontiera”, una kermesse il cui motto è “Il Mondo in Tavola”, riuniva nelle vie centrali soltanto: “Espositori provenienti dall’ Italia, dalla Slovenia, dall’ Austria, dall’Ungheria. Poi l’interesse è cresciuto moltissimo e sono pervenute richieste anche da altri Paesi, ciascuno dei quali ha portato a Gorizia proprie specialità gastronomiche che fanno parte integrante della cultura delle singoli nazioni”.

Il Borgo dell’America Latina e il tipico cibo messicano (foto di Lorenza Fiorilli)

Il 2018 è stato un anno importante, una pietra miliare per “Gusti di Frontiera”, in quanto davvero erano presenti, con i propri stands, tutti i Cinque Continenti . Ogni anno, quest’evento così importante per Gorizia, regala ai suoi visitatori una novità, come ci svela l’Assessore Bellan: “Nel  2018 è stata l’Australia, quest’anno sarà l’Africa”.

Lo stand dove gustare l’originale yogurt greco (foto di Lorenza Fiorilli)

L’interesse crescente verso questa manifestazione di respiro internazionale, non si è avuta solo tra “gli addetti ai lavori”, ma anche e soprattutto tra i visitatori che, di anno in anno, affollano sempre più numerosi le vie centrali e le piazze di Gorizia, come ci conferma, numeri alla mano, l’Assessore Bellan:” Lo scorso anno si stima ci siano stati 800000 partecipanti da giovedì, giorno di apertura degli stand, sino alla domenica. Una crescita importante, considerando che, ad esempio, nel 2012 sono accorse a Gorizia 200000 persone”.

Un evento come  “Gusti di Frontiera”, significa non solo una scrupolosa analisi preventiva degli spazi da assegnare alle centinaia e centinaia di espositori, ma anche una valutazione successiva, quando gli stand vengono smontati: “ I sopralluoghi iniziano dal mattino successivo, insieme a tutti gli addetti e al personale coinvolto nella manifestazione. Sono del parere che si lavora meglio quando lo si fa a mente fresca”, dice l’Assessore Bellan.

Un pò di Olanda… (foto di Lorenza Fiorilli)

Un grande sforzo organizzativo che inizia già dal mese di gennaio: “E’ proprio dalle prime settimane del nuovo anno che si comincia a pensare all’edizione successiva”.

Accurata e scrupolosa l’organizzazione della sicurezza: “Che coinvolge non solo le Forze dell’Ordine, ma anche l’Associazione Carabinieri in congedo, la Protezione Civile. Vogliamo offrire la massima serenità alle centinaia di migliaia di persone che accorrono in città nei quattro giorni di Gusti di Frontiera”.

Focacce dell’Europa Orientale da riempire con i tipici grandi hamburger e salse tipiche (foto di Lorenza Fiorilli)

E così Gorizia, durante questa manifestazione, diventa davvero la capitale mondiale del gusto, non solo perché ci sono stands dai cinque continenti, ma  perché arrivano :” Corriere su corriere da tutta Italia e moltissimi da ogni angolo della terra, grazie alla possibilità di raggiungere Gorizia da Trieste, dove c’è l’Aeroporto Ronchi dei Legionari”. Chi preferisce il treno, invece, ci sono collegamenti con i treni Alta Velocità  che raggiungono le vicine città di Udine e Trieste.

il Kurtoskalacs, tipico dolce ungherese dalla tipica forma a cono, cotto su uno spiedo cilindrico  che viene fatto girare sul fuoco. (Foto di Lorenza Fiorilli)

La città di Gorizia, dominata dall’alto dal suo bellissimo castello, (la cui visita, così come quella ai Musei della città, è gratuita durante Gusti di Frontiera) in occasione del grande evento internazionale, è divisa in tanti “Borghi”, ciascuno dei quali ospita gli stands relativi ai Paesi: avremo così il Borgo Francia “Con tante luci sugli alberi”, il Borgo dei Paesi  latini, con la loro paella e la sangria, il Borgo Orientale fino a coprire, così, l’intero globo terrestre.

Non mancherà, anche quest’anno, durante i quattro giorni dell’evento, il “Salotto del Gusto”, con ospiti e talk show sulle mille sfaccettature del cibo.

Alessandra Fiorilli

 

 

Come prevenire e fronteggiare il diabete: ce ne parla il Professor Riccardo Vigneri, uno dei massimi esperti del campo e Professore Emerito di Endocrinologia all’Università di Catania

Siamo pronti a fronteggiare la pandemia- diabete? E’ una domanda che dovremmo porci tutti perché, nonostante quello di tipo 2 si stia diffondendo in maniera preoccupante tra la popolazione italiana, mezzi per evitare il rischio di ammalarsi ce ne sono e ne parliamo con uno dei massimi esperti del campo: il Professor Riccardo Vigneri, Endocrinologo e Diabetologo, attualmente Professore Emerito di Endocrinologia dell’Università di Catania.

Il Professor Riccardo Vigneri (foto per gentile concessione del Professor Riccardo Vigneri)

Distinguiamo innanzitutto i due tipi principali di diabete: il tipo 1, che è quello più grave, perché trattasi di una malattia autoimmune che distrugge le cellule del pancreas e che riguarda solo il 10% dei pazienti, e quello di tipo 2, che riguarda la maggioranza dei casi. Il tipo 1 è insulino-dipendente, il tipo 2 è insulino-resistente: non manca l’insulina ma i tessuti sono “resistenti” cioè non ne sentono gli effetti. Per il diabete mellito tipo 1, poco possiamo fare perché c’è alla base anche una predisposizione genetica: anche diagnosticando col dosaggio degli anticorpi la fase di predisposizione l’intervento è poco o nulla efficace. Invece, per quello di tipo 2 molto dipende dallo stile di vita del paziente e quindi è possibile intervenire per evitarlo o ritardarlo.

Stile di vita che, purtroppo, negli ultimi anni , è cambiato molto: Mangiamo di più e male e ci muoviamo di meno. Quindi, se potessimo tornare alla dieta mediterranea e  fare i tanto decantati 10000 passi al giorno, che corrispondono a circa 40 minuti di camminata  a passo sostenuto per 5 giorni la settimana, potremmo dire che già stiamo facendo molto ed evitare molti casi di dibaete tipo 2”.

L’obesità, legata allo scorretto stile di vita, è una causa principale del disordine metabolico che può portare all’aumento della quantità di zucchero nel sangue:  Le cellule grasse predispongono all’insulinoresistenza. Ma anche sull’obesità c’è da fare un distinguo: esiste quella androide, tipica del sesso maschile che interessa il tronco e l’addome con forma “a mela”, che è caratterizzata dal grasso viscerale il quale favorisce l’insorgere della sindrome metabolica, e del diabete e l’obesità  ginoide, tipica del sesso femminile che interessa l’area gluteo-femorale con forma “a pera” caratterizzata dall’aumento del grasso sottocutaneo e che è meno dannosa. Infatti solo il grasso viscerale produce sostanze che riducono l’attività dell’insulina, e che ne impediscono l’azione sugli zuccheri ma anche sul metabolismo dei grassi come il colesterolo e i trigliceridi”.

C’è da evidenziare un aspetto molto importante: Il diabete non è una malattia, ma una sindrome con tante forme diverse e diverse fasi. Una fase importante è quando compaiono le complicanze croniche: quando tutti gli organi sono esposti ad una glicemia alta ed all’alterato livello di grassi, le pareti dei vasi si ispessiscono e si irrigidiscono e si hanno le gravi complicanze di difficoltà circolatorie a livello sia micro- che macro-vascolare, con  conseguente insorgenza di patologie gravi come l’infarto e l’ictus cerebrale e, per i piccoli vasi, del rene (il diabete è la prima causa di insufficienza renale) e retina  e il piede diabetico. Nella retina dell’occhio dei diabetici le migliaia di vasi che la irrorano si possono rompere, provocando emorragie, micro-cicatrici e quindi cecità: non a caso il diabete ne è la prima causa nell’adulto. Un’altra complicanza importante è quella del “piede diabetico”. L’insufficienza vascolare degli arti inferiore fa sì che una piccola ferita non si rimargina, si infetta, si ha l’ulcera diabetica che può attaccare l’osso e si può arrivare all’amputazione del piede o anche  dell’arto”

Negli ultimi 10-15 anni sono stati, inoltre,  effettuati degli  studi sulla stretta correlazione tra diabete e cancro: “ Nei diabetici  è aumentato il numero dei tumori per molti motivi, ancora non tutti chiari. Alcuni sono motivi locali, legati all’organo. Per esempio i diabetici hanno più frequentemente  epatiti virali e fegato grasso e ciò aumenta la predisposizione  al tumore al fegato due volte di più rispetto ai non diabetici. Molti altri tumori sono aumentati nel diabete: in generale vi è un aumento del 20-25% del rischio di tumore. Solo un tumore, quello alla prostata, è diminuito nel diabete, probabilmente perché nei diabetici sono spesso ridotti i livelli di testosterone”.  

C’è inoltre un meccanismo che spiega il nesso tumore-diabete: “Le cellule tumorali si sviluppano più rapidamente di quelle normali,  crescono  in maniera sregolata,  ma per crescere hanno bisogno di energia anche sotto forma di zucchero, la cui quantità è ovviamente, più elevata nei diabetici. Così pure alla crescita dei tumori contribuiscono l’insulino-resistenza e la terapia insulinica perché l’insulina è anche un fattore di crescita”

Quali, dunque, i mezzi per prevenire tale sindrome, oltre, ovviamente ad uno stile di vita più salutare? “Gli zuccheri semplici sono da diminuire drasticamente, (qualsiasi tipo, anche quello di canna). E questo vale anche per la frutta che contiene fruttosio. Non bisogna esagerare: la regola è mangiarne 3/4 porzioni equivalenti come volume ad un pugno chiuso evitando quella più zuccherina come fichi ed uva. La farina bianca (e quindi pane bianco e dolci) è da evitare perché produce un picco di assorbimento rapido, facendo aumentare, di colpo, l’insulina. Bene invece la pasta e il pane integrale e ottima la frutta secca: 4/5 noci e 6/7 mandorle al giorno vanno benissimo perché contengono grassi vegetali che aiutano a pulire i vasi, ma bisogna attenersi alle quantità indicate perché la frutta secca è molto calorica”.

Occhio anche allo  stress: “ Fa aumentare ormoni che antagonizzano l’ insulina come cortisolo ed adrenalina: quindi una vita stressata può essere deleteria per chi è predisposto al diabete”.

Ringrazio il Professor Riccardo Vigneri  per il tempo che mi ha dedicato e per il su stile asciutto e facilmente comprensibile.

Alessandra Fiorilli

Osteoporosi: ne parliamo con l’eminente Professor Luigi Sinigaglia, Direttore dell’UOC e del Dipartimento di Reumatologia e Scienze Mediche del Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico presso l’Istituto “Gaetano Pini” di Milano.

 

Ci sono malattie attorno alle quali si scivola spesso in luoghi comuni capaci, però, di trasformare una patologia in qualcosa di irreversibile, davanti alla quale si può solo abbassare il capo ed accettarla senza far nulla. E’ il destino al quale è andata incontro, per anni, anche l’Osteoporosi, da sempre legata, nell’immaginario comune, alla fine dell’età fertile della donna.

Per far luce su questa malattia, mi sono avvalsa della grande esperienza del Professor Luigi Sinigaglia, Medico Specialista in Reumatologia e Medicina Interna, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Reumatologia presso l’Istituto Ortopedico Gaetano Pini (Milano), presso la quale struttura riveste anche l’incarico di Direttore del Dipartimento di Reumatologia e Scienze Mediche del Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico. Il Professor Sinigaglia è stato anche  Presidente della Società Italiana dell’Osteoporosi e delle malattie metaboliche dello scheletro, attualmente è Presidente della Società Italiana di Reumatologia, autore di oltre 200 articoli su riviste Nazionali e Internazionali e Relatore a oltre 300 Congressi Nazionali ed Internazionali di argomento reumatologico.

Il Professor Luigi Sinigaglia (foto per gentile concessione del Professor Luigi Sinigaglia)

Iniziamo dalla definizione scientifica di Osteoporosi: “L’Osteoporosi è la più frequente delle malattie dello scheletro, che determina una fragilità scheletrica per alterazioni quantitative e qualitative della massa ossea, le quali conducono alla possibilità di fratture sia per traumi minimi o anche in assenza di traumi. Le fratture osteoporotiche più frequenti interessano il radio distale, l’omero prossimale, i corpi vertebrali e, nei pazienti più anziani, il collo del femore”.

Il Professor Sinigaglia ci aiuta anche a comprendere come, benché la menopausa sia il principale fattore di rischio, esista in medicina un’Osteoporosi primaria :”Chiamata  Osteoporosi primitiva, cioè non condizionata da alcuna malattia di base ed altre dette secondarie perché legate :” A malattie che sono di natura reumatica, metabolica, endocrina, gastro-enterologica, ematologica”. 

La differenziazione di questa malattia non si esaurisce tra primaria e secondaria, infatti come sottolinea il Professor Sinigaglia:”Esiste anche un gruppo di Osteoporosi geneticamente determinate. Queste forme sono solitamente precoci e il loro trattamento dipende dalla identificazione della malattia di base e dalla sua terapia. Ci sono poi Osteoporosi correlate all’impiego protratto di molti farmaci che possono danneggiare lo scheletro”.

Tra i fattori di rischio, nella donna, spicca  la menopausa :” Questa rappresenta un momento rilevante, in quanto coincide con la deprivazione in estrogeni. I suddetti ormoni hanno infatti un potente effetto protettivo sullo scheletro e quando cessa la produzione di estrogeni si attivano meccanismi cellulari che  incrementano il riassorbimento osseo con sottrazione di minerali dallo scheletro. Lo stesso meccanismo, anche se con minore evidenza, si verifica nel maschio, quando anche gli androgeni vanno incontro ad una diminuzione con l’avanzare dell’età.”.

In conseguenza di ciò, chi va in menopausa precoce o anticipata, ha un rischio maggiore, come ci illustra il Professor Sinigaglia: La menopausa anticipata o precoce è un potente fattore di rischio per Osteoporosi, specialmente se la menopausa è indotta da terapie mediche o dalla asportazione chirurgica delle ovaie. Queste pazienti devono essere controllate e trattate precocemente per evitare la fatale comparsa di fratture. Un’altra categoria di donne a rischio elevato è rappresentata da pazienti che sono in terapia con i cosiddetti inibitori dell’ aromatasi per un pregresso tumore al seno. Queste terapie hanno come fine quello di azzerare la produzione di estrogeni nell’organismo e queste donne, se non trattate convenientemente, sono esposte ad un elevatissimo rischio di frattura”

Eppure la fine dell’età fertile non è l’unico fattore di rischio, ma ne esistono altri, come ci dice il Professor Sinigaglia:” Lo scarso introito di Calcio con la dieta, la scarsa attività fisica, la magrezza, la familiarità, il fumo, il consumo eccessivo di alcolici, l’uso prolungato di farmaci cosiddetti “osteopenizzanti”, primi fra tutti i cortisonici”. E se la menopausa è un fattore di rischio non eliminabile, sugli altri è  possibile intervenire:” La correzione di questi fattori di rischio è parte integrante di un programma di prevenzione e trattamento”, tanto che possiamo parlare, anche per questa malattia, di prevenzione:” La prevenzione dell’Osteoporosi si basa sulla correzione dei principali fattori di rischio e deve iniziare già in giovane età: dieta ricca in Calcio e  attività fisica sono i capisaldi della prevenzione della fragilità scheletrica”.

L’Osteoporosi, inoltre, : “ E’ per un lungo periodo asintomatica, tanto che è stata definita  una malattia dalla “epidemiologia silenziosa”. I sintomi compaiono quando intervengono le fratture e sono rappresentati da dolori, limitazione funzionale, possibili conseguenze da invalidità permanente oltre che da riduzione della aspettativa di vita”.

Proprio per questo suo essere asintomatica, è necessario arrivare ad una diagnosi prima che la paziente si trovi a dover fronteggiare le fratture, la cui incidenza aumenta in concomitanza con l’Osteoporosi: :” I pazienti affetti da tale malattia hanno un elevato rischio di frattura che a volte può intervenire anche senza un vero e proprio trauma. L’obiettivo della terapia è quello di prevenire la prima frattura o di ridurre significativamente il rischio di una frattura successiva. Tutte le fratture osteoporotiche comportano dolore, possibile invalidità e correlano con una riduzione della sopravvivenza”.

A tal proposito, il Professor Sinigaglia ci dice come si giunge ad una diagnosi di Osteoporosi:”Ci si basa su una serie di accertamenti. Intanto è necessario  eseguire alcuni esami del sangue generali e relativi al metabolismo fosfo-calcico per escludere ogni altra causa di fragilità scheletrica. Nell’Osteoporosi questi esami sono solitamente negativi. L’esame che poi conferma la diagnosi è la Densitometria Ossea. L’organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che esiste un valore soglia densitometrico al di sotto del quale è possibile porre diagnosi di Osteoporosi. Il valore è rappresentato da un indice ( il T-score) che deve essere inferiore a – 2.5 deviazioni standard ed esprime la differenza del valore che si riscontra nel nostro paziente rispetto al valore atteso nella popolazione adulta giovane dello stesso sesso. Attenzione però al fatto che un valore basso di T-score non sempre significa Osteoporosi ma può essere espressione di altre malattie  in grado di determinare una fragilità dello scheletro. In altre parole la diagnosi di  Osteoporosi primitiva è sempre una diagnosi di esclusione che non può essere posta senza opportuni accertamenti”.

La Densiometria Ossea, esame che conferma  la diagnosi di Osteoporosi, è conosciuta con il suo acronimo MOC, Mineralometria Ossea Computerizzata :  Il metodo migliore e più accettato è la MOC a raggi X ( nota anche come DXA). Le misurazioni possono essere attuate alla colonna lombare, Al femore prossimale o al radio distale. Nei soggetti più giovani l’esame di scelta è la MOC della colonna Lombare”.

Chiedo al Professor Sinigaglia se, una volta accertata la diagnosi di Osteoporosi, esistano delle cure:” Sì, e sono cure anche molto efficaci che possono essere iniziate anche in soggetti con Osteoporosi ma che non hanno ancora avuto fratture, a giudizio del medico. La cura è invece  mandatoria in tutti i casi in cui si siano già verificate fratture da fragilità perché questi pazienti sono particolarmente a rischio di nuove fratture. Le terapie che abbiamo a disposizione sono straordinariamente efficaci. I dati dei trials registrativi dei diversi farmaci ci dicono che con queste terapie è possibile ridurre il rischio di fratture vertebrali del 70 % e di frattura del collo del femore del 40 %. Questi dati impongono una scelta terapeutica molto oculata da parte del clinico perché una terapia corretta può davvero cambiare la vita dei nostri pazienti”.

Quando si parla di Vitamina D, talvolta la si associa anche ad una cura, ma è sufficiente, se si scopre in tempo l’Osteoporosi, curarla solo con aumentato apporto della suddetta vitamina? :” La Vitamina D è un ormone prodotto dal nostro organismo( in particolare dalla cute quando viene esposta al sole) ed ha come funzione principale quella di consentire l’assorbimento intestinale del Calcio e del Fosforo. Tra i pazienti con Osteoporosi, soprattutto i più anziani, esiste una elevata prevalenza di pazienti con bassi valori circolanti di Vitamina D e questa condizione deve essere corretta, quando presente, con una suppplementazione. La terapia con Vitamina D tuttavia non cura l’Osteoporosi, ma una condizione di normovitaminosi D è essenziale perché i farmaci per l’Osteoporosi possano lavorare al meglio. Una volta che  si è iniziata una cura i tempi della terapia sono necessariamente lunghi ma con alcuni farmaci , quando il paziente è del tutto uscito da una fase di rischio elevato di frattura, è possibile, con cautela,  ipotizzare una “ vacanza terapeutica” tenendo però il paziente sotto stretto controllo clinico e densitometrico”.

Anche per l’Osteoporosi una dieta adeguata riveste la sua importanza: :”I consigli dietetici principali sono quelli di consumare quotidianamente alimenti che contengano adeguate quantità di calcio. In primo luogo bere latte e consumare latticini ( yogurth, formaggi freschi o parmigiano), bere acqua minerale  con elevato contenuto in Calcio ( almeno 250 mg per litro) e consumare anche alimenti come broccoli e cavolfiori, pesce azzurro e frutta secca che sono ricchi in calcio”.

E mai tralasciare il movimento:” Va privilegiato l’esercizio fisico in aria ( non in acqua perchè l’assenza di gravità riduce lo stimolo sullo scheletro). Ginnastica dolce in palestra, cammino a passo spedito per almeno mezz’ora al giorno. In caso di pazienti che hanno avuto fratture il programma deve essere personalizzato e graduale, spesso è necessaria l’assistenza di un fisioterapista”.

 

Come per tutte le altre malattie, la diagnosi e la cura sono importanti anche per l’Osteoporosi: ” Diagnosticare e curare adeguatamente l’Osteoporosi significa quindi in ultima analisi anche contribuire ad un allungamento della vita dei nostri pazienti”.

Ringrazio il Professor Sinigaglia per la disponibilità e la grande capacità di illustrare in maniera così eccelsa, efficace ed esauriente tutto quello che riguarda l’Osteoporosi.

 

Alessandra Fiorilli

 

 

La storia della Trattoria “Sora Lella” raccontata da uno dei nipoti della grande Elena (Lella) Fabrizi.

In tantissimi hanno conosciuto ed apprezzato la sua innata simpatia, il suo senso dell’umorismo grazie ai film di Carlo Verdone, che l’ha voluta al suo fianco dopo averla “scoperta”: “In un programma radiofonico trasmesso, negli anni ’80, da una radio romana, Radio Lazio, che aveva la sede nel cuore storico della Capitale”, come ci racconta Mauro Trabalza, uno dei  nipoti dell’indimenticabile “Sora Lella”, all’anagrafe Elena Fabrizi, nonché sorella dell’indimenticato Aldo Fabrizi.

La mitica “Sora Lella” (Elena Fabrizi) ritratta nella sua trattoria. Alle spalle, le locandine dei film interpretati dal fratello Aldo Fabrizi (foto per gentile concessione di Mauro Trabalza)

E proprio Mauro, insieme ai fratelli Renato e Simone e alla sorella Elena, che porta lo stesso nome della nonna, ci svela come la mitica Sora Lella si sia avvicinata al mondo della cucina.

“ Il 26 giugno del 1938 apre una sua trattoria nel quartiere San Lorenzo, si trasferisce poi a Tor Pignattara, successivamente  si ferma per dedicarsi alla famiglia, ma nel 1959, quando viene a conoscenza che stanno vendendo un ristorante sull’Isola Tiberina, nel cuore di Roma, non esita neanche un istante e lo acquista: era nata la trattoria Sora Lella”.

Gli anni ’60 vedono protagonista Aldo Trabalza, figlio di Lella, nonché  padre di Mauro, Renato, Simone ed Elena: “Papà è stato l’anima della trattoria– svela Mauro- e ha inventato anche un piatto che non manca mai e che  è quello più rappresentativo: “Tonnarelli (all’uovo) alla cuccagna”, per la cui preparazione , a base di vari tagli di maiale, sono usati 18 ingredienti”.

Aldo Trabalza, figlio della Sora Lella (foto per  gentile concessione di Aldo Trabalza )

E, sempre dal padre, Mauro e i suoi fratelli hanno imparato tanto, non solo in cucina, ma nella vita :” Ci ha insegnato il valore dell’umiltà e l’importanza di non sentirsi mai arrivati”.

Aldo in cucina(foto per gentile concessione di Aldo Trabalza)

Anche la morte del padre ha insegnato loro qualcosa, come ci svela Mauro:” Abbiamo capito il valore profondo della famiglia, della vita privata, che tanto abbiamo sacrificato in gioventù. Da qualche anno infatti, la domenica siamo chiusi: è il giorno che andiamo tutti insieme per vedere la Magica (Roma, n.d,r,) o per seguirla in trasferta”.

La famiglia Trabalza al completo, da sinistra verso destra: Simone, Elena, Mauro, Renato, Seduti, mamma Renata e papà Aldo (foto per gentile concessione di Mauro Trabalza)

Dal lunedì al sabato, invece, i clienti  della trattoria , possono degustare la cucina tradizionale romana, incluso il piatto inventato dalla Sora Lella in persona: Gli gnocchi all’amatriciana che, insieme ai rigatoni con la pajata, non mancano mai nel menù”.

60 anni di presenza nel panorama gastronomico della Capitale, i fratelli Trabalza hanno saputo coniugare tradizione : “Tanta” e innovazione “Specie nell’attenzione che mettiamo nella ricerca di prodotti stagionali, a km 0 e di presidi slow food e abbiamo anche provveduto ad alleggerire le dosi che era solito preparare nostro padre”.

Moltissimi i personaggi famosi che sono stati o continuano ad essere clienti abituali della trattoria “Da Elizabeth Taylor e Richard Burton che avevano casa qui vicino, a Anthony Hopkins, ghiotto della nostra pasta e fagioli, da Carlo Verdone al grande disegnatore Ugo Pratt, il quale chiedeva sempre un piatto di melanzane e peperoni tagliati a tocchetti. E poi ancora Giuliano Gemma, Ettore Scola, Mario Monicelli, Antonello Venditti, Jean Paul Belmondo, Paola di Liegi”.

Chiedo a Mauro se, sino a quando è stata in vita Lella Fabrizi, in molti andavano a mangiare in trattoria anche per vedere la nonna :” Sì…entravano, vedevano se c’era e, in caso di risposta negativa, chiedevano quando avrebbero potuto trovarla in trattoria per passare di nuovo e fermarsi a mangiare. Gli ultimi anni, quando era stanca ed affranta per la morte della figlia, diceva ai clienti della trattoria che chiedevano una foto con lei, “Nun so la Sora Lella, so la gemella”. Nonna è morta nel 1993, ma ci ha lasciato tanto ed è per noi grande orgoglio e gioia essere i suoi eredi e i nipoti di Aldo Fabrizi, al quale nonna portava a casa il suo piatto preferito: abbacchio alla scottadito e il vino di Frascati”.

…i piatti sono pronti per arrivare in tavola…(foto per gentile concessione di Aldo Trabalza)

Prima di terminare l’intervista con Mauro gli chiedo se la nonna fosse proprio come l’abbiamo conosciuta nei film di Carlo Verdone: “Sì, era proprio così, e anche la famosa scena della gambe in “Bianco Rosso e Verdone”, nel quale Carlo è alle prese con la ricerca di una sistemazione migliore per la gambe doloranti della Sora Lella che interpretava la nonna nel film, è presa dalla realtà: alcune volte, infatti, quando gli innamorati si dilungavano a tavola ben oltre la mezzanotte, lei garbatamente si avvicinava e diceva loro “Scusate sa…ma a me me fanno male le gambe..me vorrei allungà a letto, dovrei chiude…”. Tra la tradizione di nonna anche i dolci come la famosa crostata ricotta e visciole o solo visciole, , il salame di cioccolato e la zuppa inglese. E, quando è estate, a nostri clienti offriamo il tortino di ricotta e cioccolato preparato da mio fratello Renato, Executive chef della cucina, nonché uno dei migliori gelatai di Roma”.

Parlare con Mauro è stato come rivedere la Sora Lella, la sua allegria, la sua verace romanità che ha incantato tanti italiani, ma anche la Roma della “dolce vita” immortalata in tanti film.

Ringrazio Mauro per questo tuffo nei ricordi e per averci raccontato la storia di questa sua famiglia che ha ereditato dalla Sora Lella la passione per la tradizionale cucina romana e per una città che sembra proteggere, con il Cupolone, i suoi abitanti.

Alessandra Fiorilli

 

 

Alzheimer: ne parliamo con uno dei maggiori esperti in campo internazionale ,  il Professor Giovanni Battista Frisoni.

 

E’ stata definita la “malattia del lungo addio” e il suo nome, quando viene sentito per la prima volta dai familiari di un malato, disorienta, impaurisce, crea disperazione. Sembra, in un solo istante, che quei pezzi di vita che si dissolveranno, piano piano nel tempo nel cervello del paziente, travolgano, invece, da subito, i congiunti della persona alla quale è stato diagnosticato l’Alzheimer.

Di questa malattia neurodegenerativa ne parliamo con uno dei massimi esperti internazionali, il Professor Giovanni Battista Frisoni, il quale, nonostante i suoi numerosi impegni, mi ha dedicato del tempo per realizzare l’intervista che andrete a leggere.

Il Professor Giovanni Battista Frisoni (per gentile concessione del Professor Frisoni)

Giovanni Battista Frisoni incarna alla perfezione la determinazione, la volontà, l’impegno, la passione per il proprio lavoro. Avvicinatosi, dopo la maturità scientifica, alla medicina, dopo averne  conseguito la laurea con 110 e lode all’Università di Brescia, si specializza in Neurologia e, proprio da specializzando, si avvicina alla malattia dell’Alzheimer: “Stavo cercando un campo su cui studiare, non volevo fare il medico solo praticante ma dedicarmi alla ricerca scientifica, e così è stato.  Non mi sono mai pentito di questa scelta,  perché è un campo pieno di sfide e a me le sfide anche se mi intimoriscono, mi piacciono e mi attirano”, svela il Professor Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra e già direttore scientifico dell’IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia.

Proprio durante gli anni della specializzazione in Neurologia: ” A Brescia, stava per avere inizio una grande avventura: l’apertura del  primo reparto per i malati di Alzheimer presso l’ospedale Fatebenefratelli. Era il 1991 e il Professor Marco Trabucchi mi propone di essere uno dei quattro medici dello staff. Ero il più giovane e accettai con grande entusiasmo. E qui ho cominciato a studiare la neuroimmagine, ovvero una dettagliata rappresentazione del cervello ottenuta con tecniche di risonanza magnetica,  che, oggi, sono molto più accurate e sofisticate rispetto al passato e ci permettono  di avere delle valutazioni quantitative del danno. Fummo finanziati per 6 anni dalla Regione Lombardia, poi, dopo 10 anni divenimmo Istituto di Cura a carattere scientifico”.

Purtroppo, come evidenzia il Professor Frisoni: Intorno alla malattia dell’ Alzheimer   c’è una condivisione di un sentimento sociale che porta,  talvolta,  a sottovalutare anche i primi sintomi, perché molti pensano che disturbi della memoria siano sempre normali con il passare degli anni. Purtroppo le famiglie si  rendono conto  della gravità della malattia solo quando sono direttamente colpite,  specie nella fase avanzata, quando  hanno  problemi di gestione del proprio congiunto”.

La malattia di Alzheimer prende il nome dal medico che per primo, nel 1906, studiò il cervello di un suo paziente: “Dalle immagini del cervello al microscopio, vide dei grumi strani che chiamò placche senili e aggregati neurofibrillari. Fu questa la base di partenza per la studio e la ricerca che ha condotto la medicina a scoprire come le placche senili scoperte dal dottor Alzheimer siano composte di una proteina detta amiloide e che riusciamo a visualizzare con la PET(tomografia ad emissioni di positroni) e gli aggregati neurofibrillari, invece sono formati da proteina Tau”.  

Come per tutte le altre patologie, anche per l’Alzheimer esistono dei sintomi:  “Le dimenticanze accadono a molti, ma quello che dobbiamo chiarire è che ci sono delle amnesie non preoccupanti, le cosiddette anomie, legate a dimenticanze di nomi e luoghi e che sono sempre più frequenti con il passare degli anni, a partire già dai 50-60 anni, e quelle preoccupanti, le cosiddette amnesie episodiche, ovvero legate alla dimenticanza di interi episodi di vita, quali una vacanza, un film, dei quali ci si scorda di tutto ciò che ha circondato l’evento. In quest’ultimo caso siamo di fronte ad un vero e proprio “buco nero” della memoria passata”.

Un solo episodio non è necessariamente imputabile all’Alzheimer, perché, come ci conferma il Professor Frisoni: “Può succedere a tutti di dimenticare episodi singoli, quello che deve far riflettere è la frequenza con la quale tali dimenticanze si presentano. Se ci si accorge che sono frequenti e che si stanno verificando  da 6 mesi o più,  allora è il momento di chiedere un consulto”.

Il primo passo da seguire è quello di andare dal proprio medico di famiglia:” Il quale, nel caso in cui si accorge che potrebbero esserci dei sintomi legati all’Alzheimer , invierà il paziente da uno specialista, che in Italia è il geriatra o il neurologo,( in Inghilterra e in Germania è più spesso lo psichiatra).  Lo specialista raccoglie con il paziente e i suoi familiari l’anamnesi, la storia passo passo dei disturbi. Vengono poi effettuati degli esami neuropsicologici composti da semplici test ma rilevatori dello stato del salute del cervello, che possono mettere in luce le difficoltà di memoria. In circa 45-90  minuti al massimo, tutto compreso, ci si rende conto della situazione e lo specialista, di fronte ai risultati così ottenuti, può o rassicurare il paziente, perché il cervello si sa, invecchia anche esso e quindi è fisiologico avere con il passare dei anni elle dimenticanze, oppure continua per avere una diagnosi di certezza prescrivendo altre indagini, una combinazione di 2-3 tra le seguenti: PET, risonanza magnetica, puntura lombare, SPECT. Tali indagini permettono una diagnosi precoce con un elevato livello di certezza”.

Accertata la malattia si inizia il trattamento farmacologico Disponiamo di soli 4 farmaci, di cui tre sono della stessa famiglia, quindi ne abbiano, in pratica,  solo due. L’effetto di tali farmaci, inoltre, è quello di migliorare o stabilizzare i disturbi per al massimo 6-18 mesi. Purtroppo per l’Alzheimer non abbiano farmaci in grado di bloccarne la progressione, ma al massimo di rallentarne il decorso per un po’ di tempo. Faccio un esempio molto semplice: è come se curassimo una polmonite con un bronchiolitico e un’aspirina… passerebbero la tosse e la febbre ma la polmonite continuerebbe il suo decorso, fino alla morte, se non si intervenisse con gli antibiotici. Ecco, purtroppo “l’antibiotico” per l’Alzheimer non l’abbiamo ancora”

E qui si apre il discorso sui finanziamenti alla ricerca  sull’Alzheimer: Purtroppo i finanziamenti  sono, attualmente, 10-12 volte minori rispetto a quelli per il campo dell’oncologia, nonostante due fattori che dovrebbero far riflettere le istituzioni: i costi sociali di questa malattia sono doppi rispetto  a quelli sostenuti per il  cancro, e il numero dei pazienti colpiti è di gran lunga superiore a quello dei pazienti che ogni anno decedono  di patologie tumorali maligne”.  

Anche per l’Alzheimer è possibile parlare di prevenzione, intesa questa come stile di vita: “Il controllo del peso, dell’ipertensione e della malattie croniche come le dislipidemie possono sicuramente aiutare, così come una adeguata attività fisica.”.

Purtroppo, invece, di fronte all’ereditarietà, la prevenzione ha un ruolo più limitato: “ Avere avuto in famiglia un caso di Alzheimer, soprattutto se fra i 60 e 70 anni,   incide molto sul possibile insorgere della patologia. In tal caso il rischio è spesso legato  all’apoliproteina E. Il paziente può dunque entrare in un progetto di ricerca, come quelli in corso  sia a Brescia che a Ginevra. Sottolineo come qui siamo nel campo della prevenzione e che quando si parla di diagnosi precoce vuol dire che siamo già nella fase dove si hanno deficit oggettivi”.

Spesso, di fronte ad una diagnosi di Alzheimer, che fa perdere progressivamente: “Le proprie coordinate, la proposta biografia, la famiglia è devastata, ha una reazione di disperazione perché vede immediatamente  ciò che sarà, invece, la fase terminale della malattia: allettamento del paziente, incontinenza urinaria e fecale, necessità di nutrirsi con il sondino naso-gastrico ed altro.   Il mio compito, presso il Centro di Ginevra, è anche e soprattutto quello di incontrare le famiglie dei malati, di parlare con loro di spiegare come questa sia una malattia molto lunga, anche in  termini di 10-15 anni e che l’iniziale diagnosi nulla toglie alla qualità dignitosa di una vita. Molte famiglie riescono così a instaurare un dialogo costruttivo con il proprio familiare, mostrando  una grande disponibilità d’animo che li porta a comprendere come non tutto in questa malattia è dolore e sofferenza”.

Non posso concludere la mia intervista  senza aver ringraziato il Processor Frisoni, eccelso esempio di una medicina che unisce Ricerca e vicinanza al paziente e alle proprie famiglie.

Alessandra Fiorilli

 

 

La storia della famiglia Scaturchio: le loro creazioni artigianali, i classici dolci napoletani e quella ricetta segreta del famoso “Ministeriale”, medaglione di cioccolato fondente nato per amore di una ballerina.

Ci sono legami che vanno oltre: oltre il fatto di avere lo stesso sangue, di essere figli, nipoti di chi ha fondato un’attività di successo.

Ci sono legami impastati di passione, di amore per il proprio lavoro, di voglia di dare il massimo perché, anche se non porti lo stesso cognome del capostipite e non fai parte della sua famiglia, senti tuo quel posto, e avverti quel dovere morale di continuare a seguire le orme di chi non c’è più e ha amato la sua attività, rendendola famosa in tutto il mondo.

E’ questa la storia che andrò a raccontare: la storia della Ditta Giovanni Scaturchio, nome noto della pasticceria napoletana, il cui marchio nel 1996 è stato acquistato da nuovi proprietari, due imprenditori napoletani, nonché sorella e fratello,  i quali, rilevando il brand, hanno consentito alla storica pasticceria di poter continuare lungo la strada iniziata, nel 1905, da Giovanni Scaturchio.

Una singolare prospettiva dell’ingresso della sede storica della Ditta Giovanni Scaturchio, in Piazza San Domenico Maggiore (foto per gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

Con questa scelta hanno pertanto permesso di far rimanere nelle mani di napoletani il famoso marchio di una delle pasticcerie storiche, nonché di far continuare il lavoro del laboratorio come quando c’era la famiglia Scaturchio alla guida.

Non solo, ma i nuovi proprietari del marchio hanno anche aperto quattro nuovi punti vendita : al San Carlo, a Piazza Amedeo, al Vomero e “Casa Scaturchio”, una raffinata Sala da thè situata al piano nobile del Palazzo di Piazza San Domenico Maggiore, dove è ubicata la sede storica.

La vetrina del punto vendita al Vomero (foto per gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

A condurci per mano lungo i sentieri della storia degli Scaturchio sarà Giacomo Cautiello, Direttore del laboratorio pasticceria.

“Nonostante non ci sia nessuno che in ditta porti il cognome del fondatore Giovanni, posso affermare, con grande orgoglio, che l’80% di chi presta qui la sua opera è figlio o nipote di coloro che hanno avuto il pregio e l’onore non solo di conoscere ma di lavorare con Giovanni, prima, e con il figlio Mario, poi. Anche mio padre è stato uno dei vecchi dipendenti di Scaturchio, e non è un caso che la mia passione per la pasticceria sia nata proprio in questo laboratorio, nel quale andavo a trovare spesso mio padre che qui ha lavorato dal 1957 sino al giorno della pensione. Di quelle “visite” ricordo soprattutto i tipici odori che si respiravano specialmente a Natale.  Subito dopo aver conseguito il diploma di ragioneria, nel 1980, non ha avuto dubbi: sarei andato a lavorare per la famiglia Scaturchio. Ho iniziato dal basso e ho fatto di tutto e oggi, con orgoglio, dirigo il laboratorio della pasticceria. Sono innamorato di questo mestiere e sono molto severo: se un prodotto non è perfetto non lo faccio uscire”.

La giornata di Giacomo inizia alle quattro e mezza della mattina per finire alle sette e mezza di sera, tutti i giorni della settimana, escluso il martedì “Quando i pasticceri di Napoli si riposano”.

Il laboratorio è ubicato nella sede storica di Piazza San Domenico Maggiore: “Ed è frutto dell’ingegno di Mario Scaturchio, uomo lungimirante e capace, il quale  disegnò da solo tutto il laboratorio e che fece della pasticceria di famiglia una ditta all’avanguardia”.

Quando Giacomo parla di Mario lo fa ancora con riverenza e affetto: “Mario era un grande uomo, rispettoso e rispettato, e parlando delle altre pasticcerie di Napoli, amava ripetere che il sole deve nascere per tutti“

E sono proprio i passaggi della lavorazione dolciaria e che Mario segnava scrupolosamente, ad essere seguiti ancora oggi :La bagna del babà è quella originale di 90 anni fa, e, nonostante arrivino rappresentanti per proporci nuovi prodotti, noi siamo ligi a quello che è la nostra tradizione”.

Il Babà classico in versione torta (foto per gentile concessione della Ditta Scaturchio)

Tutto ancora artigianale nella pasticceria Scaturchio, dove:  Le macchine sono usate pochissime e solo poter aiutare a stendere la pasta”, dichiara Giacomo, il quale svela il segreto del successo mondiale del marchio: “Noi della pasticceria Scaturchio vogliamo offrire ai nostri clienti non semplicemente qualcosa di zuccherato, ma un sapore che deve inebriare e sciogliersi in bocca. Prima di chiederci cosa vogliono gli altri, ci chiediamo cosa vorremmo mangiare noi”

Un’altra versione della Torta Babà (foto per gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

L’offerta della pasticceria Scaturchio è ampia, ma il pezzo forte è indubbiamente la classica pasticceria napoletana: Il babà, la sfogliatella, di cui ne vendiamo anche 3000 al giorno, e la cassatine napoletane che sono diverse da quelle siciliane, perché non usiamo solo la ricotta di pecora, ma anche quella di latte vaccino”.

La regina della pasticceria napoletana: la sfogliatella (foto per  gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

La cassata (foto per gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

E’ nel famosissimo Ministeriale, medaglione di cioccolato fondente  con un cuore di crema leggermente liquorosa, che  la storia di una famiglia e di un marchio si fonde con la magia e il fascino del segreto di una ricetta.  Come sia nato  questo superbo cioccolatino, la cui ricetta è stata brevettata e ancora oggi è   nota solo a tre persone, Giacomo Cautiello, il proprietario del marchio Scaturchio e il pasticciere che materialmente li crea, ce lo racconta lo stesso Giacomo: “Giovanni Scaturchio aveva tre figli: Pasquale, Mario e Francesco , ottimo pasticcere e grande viveur che amava frequentare i tabarin e proprio in uno di questi, s’invaghì di una ballerina, Anna, e pensando a lei creò questo cioccolatino che tanto le somigliava, perché aveva un cuore dolce e morbido e fuori era croccante.”

Il famoso “Ministeriale” (foto per gentile concessione della Ditta  Giovanni Scaturchio)

Chiedo a Giacomo perché questa deliziosa creazione abbia preso il nome di Ministeriale: “Poiché il re veniva spesso a Napoli nel Palazzo Reale e Francesco pensò bene di volere far assaggiare questa sua creazione al sovrano, sulla cui tavola arrivo questo medaglione di cioccolato, ma solo dopo essere passato, per i necessari controlli,  di ministero in ministero: di qui il nome di Ministeriale”.

Una delle confezioni dei Ministeriali (foto per gentile concessione della Ditta  Giovanni Scaturchio)

Il nome di Scaturchio è, dal 1993, legato strettamente anche ad un altro capolavoro dell’arte dolciaria: la Torta Babà a forma di Vesuvio: “In quell’anno si tenne il G7 a Napoli e Mario  Scaturchio, insieme all’ingegno dell’insigne architetto Fabrizio Mangoni, misero a punto un dolce che celebrasse il simbolo di Napoli, il Vesuvio appunto, attraverso l’inventiva e la maestria degli Scaturchio, e nacque così la Torta  Babà. Quando fu portato al G7, i giapponesi, prima di mangiarlo, scattarono non so quante foto a quella che era un dolce ma soprattutto un’opera d’arte”,  opera che si può ammirare nella  vetrina nella sede storica degli Scaturchio, in  Piazza San Domenico Maggiore.

Il famoso Babà-Vesuvio, questo in monoporzione (foto per gentile concessione della Ditta Giovanni Scaturchio)

“Il babà- Vesuvio  lo produciamo sia in monoporzione che nel formato da  6 chili per 150-200 persone”.

Questa la storia della ditta Giovanni Scaturchio, dove ogni giorno nel laboratorio si impastano non solo ingredienti ma passione, amore, tradizione, fedeltà a quell’ idea che nacque nel 1905 grazie a Giovanni, che fu consolidata dal figlio Mario e che ora è portata avanti ed onorata da chi, pur non portando il cognome Scaturchio,  fa parte a pieno titolo della famiglia , come ci conferma Giacomo con questo suo ricordo personale: “Mia madre indossa ancora lo scialle che le fu regalato dalla moglie di Giovanni Scaturchio e mio padre , che come ho già detto ha lavorato per decenni nel laboratorio della pasticceria, ancora oggi, quando gli faccio assaggiare i nostri prodotti, mi fa notare se qualcosa non è perfettamente conforme al marchio Scaturchio”.

Il segreto di un successo mondiale: I nostri prodotto sono spediti in tutto il mondo con i famosi ruoti”, come ci dice Giacomo Cautiello, è nell’equilibrio tra passato e presente, e in quelle tradizioni che, pur affondando le radici nel secolo scorso, guardano sempre al futuro.

Alessandra Fiorilli

L’endometriosi: la Dottoressa Francesca Sagnella ci parla di questa patologia, della diagnosi, delle cure e degli effetti sulla fertilità della donna

La percentuale delle donne italiane in età fertile che soffre di endometriosi è compresa tra il 5 e il 10%. Purtroppo spesso vengono sottovalutati i sintomi tipici di questa patologia, che possono orientare verso una diagnosi precoce: dolore mestruale intenso (dismenorrea), spesso associato ad episodi di vomito e svenimento, rapporti sessuali dolorosi (dispareunia), dolore al retto e durante l’evacuazione.

Il dolore è invalidante: “Molte donne affette da endometriosi sono costrette a pianificare la propria vita in base al ciclo mestruale” , afferma la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana la quale, dopo averci parlato, sulle pagine di “EmozionAmici”, di infertilità e di menopausa, ci illustra cosa sia l’endometriosi.

La Dottoressa Francesca Sagnella

 “Innanzitutto partiamo dalla definizione di endometrio : è la mucosa che riveste la superficie interna della cavità uterina e che si rinnova ogni mese con il ciclo mestruale, nel caso non avvenga la fecondazione dell’ovulo. Parliamo di endometriosi quando il tessuto endometriale, che normalmente viene espulso con il mestruo, va a localizzarsi fuori dall’utero. Si formano quindi delle isole di endometrio ectopiche (ossia fuori dal sito fisiologico), prevalentemente nella pelvi e nell’addome, che vanno ad attaccarsi, in maniera piuttosto aggressiva, agli organi e alle sierose (intestino, ovaie, peritoneo); in casi molto rari, è stata descritta addirittura endometriosi sulle pleure e nei polmoni”. Il tessuto endometriale può risalire le tube per via retrograda durante il ciclo mestruale ma, mentre viene naturalmente eliminato dal sistema immunitario nelle donne sane, in quelle affette da endometriosi persiste, attacca la superficie di organi e sierose formando cisti o placche e continua a sanguinare: “Si instaurano, quindi, piccole emorragie nell’addome o laddove si siano formate isole di tessuto endometriale ectopiche, con conseguente infiammazione. Possiamo dire che questo tessuto endometriale ha degli aspetti in comune con le metastasi tumorali, anche se di natura benigna” , dichiara la Dottoressa Sagnella alla quale chiedo quali siano i fattori legati all’insorgere di tale patologia:

“Si tratta di una patologia ad eziologia ancora ignota. Sappiamo che esiste una predisposizione ereditaria sulla quale vanno ad incidere fattori ambientali , come ad esempio alcune sostanze chimiche contenute in alcune plastiche, definite interferenti endocrini, che svolgono azioni simili a quelle degli ormoni.

L’endometriosi è una patologia che negli ultimi decenni si sta riscontrando più frequentemente: “Oggi le donne hanno più eventi mestruali rispetto al passato  perché si fanno meno figli. Inoltre, grazie alla maggior conoscenza di questa patologia, viene anche diagnosticata con maggior frequenza”.

Cosa può fare la donna quando avverte sintomi quali quelli sopra descritti? “Purtroppo sono in molte a sottovalutarli, non a caso tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi, si stima che possano trascorrere anche diversi anni. Nel nostro paese, probabilmente grazie alla maggior diffusione della diagnostica ecografica, la diagnosi è spesso tempestiva. L’ecografia rappresenta, infatti, uno strumento indispensabile nella diagnosi di endometriosi” dichiara la Dottoressa Sagnella, alla quale chiedo quali siano le cure da intraprendere.

“Dato che i sintomi dell’endometriosi sono, come abbiamo già visto, strettamente correlati alla mestruazione, uno dei rimedi è quello di prescrivere alla paziente la pillola contraccettiva in continuo , ovvero senza la settimana di sospensione, in modo da non farla mestruare. Tra le terapie più recenti anche quella della pillola progestinica e, nei casi più gravi, può essere necessario indurre una menopausa farmacologica. Molto spesso, però, diventa indispensabile la terapia chirurgica, specialmente quando le lesioni endometriosiche coinvolgono strutture anatomiche importanti come gli ureteri (con conseguente rischio di danno renale) e l’intestino. Per quanto riguarda le cisti endometriosiche ovariche (endometriomi), l’indicazione alla chirurgia va molto ben ponderata, soprattutto se la paziente desidera avere una gravidanza. L’intervento stesso, infatti, può danneggiare la riserva ovarica della donna attraverso il danno termico che viene esercitato sull’ovaio per rimuovere la cisti. Quando possibile, infatti, si rimanda l’intervento dopo che la donna abbia concepito e partorito”.

E qui si apre un altro capitolo molto delicato: l’endometriosi , infatti, oltre a causare i sintomi invalidanti di cui abbiamo già parlato all’inizio dell’articolo, è anche una delle principali cause di infertilità, specie quando si riscontra un quadro aderenziale che coinvolga le tube e le ovaie:

“ Non è escluso che donne affette da endometriosi possano avere delle gravidanze naturalmente; qualora però ciò non avvenga, può essere di aiuto la medicina della riproduzione , in particolare la fecondazione in vitro. Nel caso in cui le ovaie risultino impoverite e la riserva ovarica insufficiente a causa delle cisti endometriosiche o di ripetuti interventi chirurgici (si tratta infatti di una patologia che tende a recidivare), una possibile soluzione all’infertilità è rappresentata dalla fecondazione in vitro eterologa, ovvero il ricorso a ovuli donati da un’altra donna. La gravidanza, per le donne affette da endometriosi, ha un forte potere terapeutico ”- conferma la Dottoressa Sagnella –”Spesso, infatti, favorisce la riduzione delle lesioni prodotte dall’endometriosi grazie al quadro ormonale gravidico e all’assenza di ciclo mestruale per 9 mesi ed anche oltre (in caso di allattamento prolungato). Attenzione quindi a non sottovalutare i sintomi-  raccomanda la Dottoressa Sagnella-  e a parlarne subito con il proprio ginecologo di fiducia”

Alessandra Fiorilli