Gli effetti della diagnosi di Alzheimer sui familiari del malato: ne parliamo con il Professor Giovanni Battista Frisoni, uno dei maggiori esperti in campo internazionale.

L’insorgenza di una malattia non riguarda solo il malato, ma anche tutti coloro che lo amano e che si trovano, di fronte ad una diagnosi in grado di stravolgere le proprie esistenze, a dover fronteggiare qualcosa di inaspettato e di tragico. Questo è ancor più drammaticamente vero per l’Alzheimer, la malattia neurodegenerativa della quale il Professor Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra, è uno dei maggiori esperti in campo internazionale.

Il Professor Giovanni Battista Frisoni (per gentile concessione del Professor Frisoni)

“Il malato d’ Alzheimer ci mostra le nostre stesse paure, le nostre fragilità. Questa patologia presenta non solo una propria specificità rispetto alle malattie d’organo, ma anche a quelle psichiatriche, in quanto richiede una rielaborazione del registro relazionale. Faccio un esempio pratico: in ciascuna famiglia ciascuno ha dei ruoli che sono tali anche dopo 20,30,40 anni. Durante questo lasso di tempo si sono instaurati una comunicazione verbale e non verbale e un gioco di ruoli costituenti  una struttura relazionale che la malattia, invece, costringe a dover revisionare per permettere che la relazione continui.  Difficilissimo adattarsi per il coniuge convivente: dopo decenni di vita comune e di adattamento su un certo registro di relazione (che sia dominante, accudente, controllante, o altro) il coniuge non malato deve revisionare il tutto… e non è detto che ne abbia la voglia, la forza o la capacità”.

Dopo questa illuminante prefazione, l’eminente Professor Frisoni, (già da me intervistato per EmozionAmici sulla malattia d’Alzheimer), ci parla, in dettaglio, di uno degli aspetti più dolorosi, e talvolta, sottovalutati: gli effetti emotivi dell’Alzheimer sui familiari del malato.

“Davanti alla diagnosi della malattia, la reazione non è univoca, ma spazia tra due estremi opposti: da una  consapevolezza che porta a dire: “Lo sapevo già”, ad un’amara sorpresa che si concretizza in un: “Ma cosa dice, Dottore, non è possibile!”.  In mezzo a questi due opposti, ci sono le sfumature e il determinante fondamentale della reazione è il livello di conoscenza della malattia, ovvero  le persone che la conoscono e la temono, sono anche le più attente, hanno  un alto livello di consapevolezza di  sé che li porta a  notare subito disturbi di memoria. Questo li conduce  a sottoporsi a controlli per vedere se hanno davvero l’Alzheimer, la cui diagnosi  non è sempre facile: il più delle volte, infatti, non si riesce a capire, nemmeno con una risonanza magnetica, se tali disturbi di memoria, o del linguaggio, o della parola che manca, o del non ricordare nomi, siano ascrivibili o meno all’Alzheimer. Ecco perché è spesso necessario ricorrere ai biomarcatori, quali la puntura lombare e la PET molecolare (tomografia a emissione di positroni, detta anche scintigrafia cerebrale)”.

 (Per chi fosse interessato ad approfondire tali aspetti, il link della precedente intervista è il seguente:  https://www.emozionamici.it/2019/07/31/alzheimer-ne-parliamo-con-uno-dei-maggiori-esperti-in-campo-internazionale-il-professor-giovanni-battista-frisoni/)

E quando, invece, arriva la diagnosi di Alzheimer: “Nella testa dei familiari c’è una storia che si proietta nel futuro: in molti non solo si chiedono cosa succederà al malato, ma già lo vedono nella fase terminale della malattia, quando sarà ormai allettato e bisognoso anche di essere imboccato. Qui in Svizzera dove lavoro, la diagnosi viene comunicata non solo ai familiari, ma anche al paziente e la prima cosa che cerchiamo di capire è la loro rappresentazione della malattia, ovvero la storia che il termine « Alzheimer » evoca in loro”.

La reazione dei familiari di fronte a tale diagnosi che, ancora più delle altre, fa paura, è estremamente variabile, come afferma il Professor Frisoni: Alcune famiglie si disperano sin dall’inizio, per loro la diagnosi fa crollare il mondo addosso, e questo succede soprattutto quando il malato ha elevate performance intellettuali, per il quale perdere la memoria significa non riconoscersi più per quello era. E, se da un lato tali persone hanno più risorse per gestire cognitivamente la malattia, è pur vero che queste stesse persone hanno di se stessi una rappresentazione maggiormente cognitiva. Ognuno di noi è la propria storia, noi raccontiamo noi stessi all’interno di un percorso di vita che è  verbale, ma  in gran parte emotivo e talvolta, come per i lavoratori manuali e gli atleti, anche motoria. Ma è ovvio che la prospettiva, anche se non a breve termine, di perdere la memoria, è devastante per chiunque, anche per chi, per tutta la vita, ha fatto lavori manuali”.

Si sente parlare spesso della “solitudine sociale” che colpisce i familiari di un malato d’Alzheimer: Nei primi anni di malattia, da un punto di vista delle maniere sociali, il paziente è spesso impeccabile: chi è stato un gentiluomo continua ad esserlo, così come la donna molto cortese, affabile, delicata, continuerà a comportarsi in questo modo con amici e parenti non stretti. Questo perché nelle interazioni sociali superficiali, ovvero quelle che non richiedono un grande livello di approfondimento intellettuale, il malato d’Alzheimer si comporterà con queste persone in maniera perfettamente adeguata a cortese, anche se non ricorda di chi si tratta e anche se poi appena voltato l’angolo avrà persino dimenticato l’incontro. Pertanto i familiari dei malati  si trovano a vivere in una distonia perché, nonostante il proprio congiunto ricordi poco o nulla, gli altri avranno l’impressione che al contrario sia in buona salute e spesso rimproverano il familiare: “Ma di cosa ti lamenti? Sta benone!  L’ho trovato persino ringiovanito”, questo ovviamente, lo ribadisco, accade solo nelle fasi iniziali dell’insorgere della malattia”.

Ma loro, i familiari, quando la porta di casa si chiude, sono soli con le dimenticanze continue del paziente e con le sue incessanti richieste, disperati e incapaci di poter gestire tutto, ecco perché è importante la Psicoeducazione, come ci spiega il Professor Frisoni: “In questi casi la parola chiave è rassicurazione. C’è ancora lo stereotipo del malato d’Alzheimer come aggressivo, ma in 99 casi su 100, l’aggressività che molti familiari temono, non è legata alla malattia, quanto piuttosto all’incapacità di relazionarsi in modo adeguato. Il malato che dimentica è angosciato: è un’angoscia senza nome, senza volto. La persona che già non riesce a capire cosa gli stia succedendo, e che ha il proprio coniuge il quale, anziché aiutarlo, gli dice in continuazione e di fronte alle dimenticanze: “Te l’ho detto mille volte…non ci stai proprio più con la testa…”, ebbene, questo atteggiamento porta il malato ad  aggredire l’altro verbalmente, se non in alcuni casi, anche fisicamente. Ecco, la Psicoeducazione consiste proprio nello spiegare ai familiari cosa sta succedendo per far capire loro che il malato non dimentica perché “è dispettoso “ o “me la vuol fare pagare”, , ma perché per lui gli avvenimenti della vita vengono cancellati nel giro di pochi minuti come orme sul bagnasciuga. Bisogna far comprendere ai familiari che il proprio congiunto è angosciato e ha bisogno di esser rassicurato, che ha bisogno di sentirsi dire:” Ci sono io, ci siano noi. Non ti preoccupare, ti aiutiamo. Gestiamo tutto questo insieme”:  ecco, queste parole hanno un effetto tranquillizzante in grado di eliminare l’aggressività alla base. Spesso, davanti a reazioni aggressive del malato, vengono prescritti gli psicofarmaci ai quali i pazienti sono molto sensibili, ma così facendo, non solo l’aggressività non va via, ma la situazione fisica peggiora, con una deambulazione che diventa spesso più lenta, più insicura, più instabile, esponendo il malato a cadute. Ricordiamo sempre che spesso non è il malato da curare ma il familiare da resettare. Ovviamente, in alcuni casi non vi è alternativa agli psicofarmaci e un bravo specialista saprà quando e come usarli”.

Chi si trova a dover gestire un malato d’Alzheimer, ha, a sua volta, bisogno di aiuto:” Un aiuto a livello sia fisico che psichico, infatti i familiari hanno necessità di parlare con un medico o uno psicologo, ma più spesso si rivolgono al medico perché sperano di avere da lui anche una rassicurazione da un punto di vista clinico. Spesso, però, il Servizio Sanitario Nazionale non è organizzato per offrire un tale tipo di aiuto che si va, dunque, a ricercare nelle strutture private, con notevole dispendio di denaro.

Talvolta è sufficiente dare il cambio ad un familiare in modo da offrigli la possibilità di ritagliarsi un’oretta per andare a fare la spesa, dal parrucchiere o per fare una passeggiata. Coloro i quali sono lontani dal malato, in mancanza di aiuti dalle Istituzioni, sono costretti a ricorrere all’ istituzionalizzazione del proprio congiunto, anche quando la malattia è ancora in una fase iniziale e potrebbe essere gestita con un minimo di supervisione.”

All’interno di questo quadro, ci sono anche gli altri, che spesso giudicano, additano e che, con una loro inopportuna interferenza, possono provocare ulteriore sofferenze in coloro che si prendono cura di un malato d’Alzheimer: “Una stigmatizzazione del malato che porta molti familiari a smettere di frequentare amici e lo stesso paziente non va più al circolo a giocare a carte o semplicemente al bar perché capisce che chi lo circonda lo esclude. Gli amici non sono abituati a svolgere il ruolo di rassicuratori sociali, a dire: “A noi fa piacere anche solo la tua presenza” ma si tratterebbe ancora una volta di cambiare un registro relazionale spesso radicato in anni di frequentazione. Dovremmo imparare a costruire una nuova cultura di inclusione, ma questa è una  lunga operazione nemmeno iniziata e, anche  laddove dovesse iniziare oggi stesso,  richiederebbe generazioni affinché venisse portata a compimento”.

Ringrazio il Professor Giovanni Battista  Frisoni, simbolo di una Medicina vicina al paziente, ai propri bisogni, alle famiglie, nonché  grande esempio di  una rara empatia e professionalità.

                                             Alessandra Fiorilli

L’importanza di seguire le stagioni nel consumo di verdura e frutta: ce ne parla il Professor Alessio Rolando Bolognino, Biologo Nutrizionista, Docente Universitario e volto noto della tv.

“La natura è intelligente: ci dà quello che ci serve e quando ci serve. In inverno, infatti, poiché  il corpo ha maggiormente bisogno di calorie, arrivano, ad esempio, cachi e castagne, mentre, in estate, i tipici frutti quali pesche, melone e cocomero, che sono  molto ricchi di acqua. La natura aiuta, con i suoi prodotti legati alle stagioni, anche il nostro sistema immunitario, durante i mesi freddi, e il sistema linfatico in quelli più caldi. Mangiare cibi fuori stagione, quali le zucchine a novembre le fragole a dicembre, vuol dire portare in tavola  prodotti poveri in Sali Minerali e Vitamine”.

Questo è l’autorevole parere, sull’importanza di cibarsi di verdura e frutta di stagione, del Prof. Rolando Alessio Bolognino,  Biologo Nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva,  Professore a c. del  Master in “Scienze della Nutrizione e Dietetica Clinica” presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma La Sapienza , del Master  in “Terapie Integrate nelle Patologie Oncologiche Femminili” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, del Master di II livello in “Medicina integrata e food management per la prevenzione e cura dei tumori” presso l’Università degli Studi di Catania, Istruttore di  Protocolli Mindfulness,  Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, sia RAI che Mediaset.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Dottor Rolando Alessio Bolognino)

Stravolgere, dunque, i cicli della natura significa nutrirsi di  prodotti che, in quel particolare periodo dell’anno, non forniscono il giusto valore al nostro corpo e alla nostra salute. Cosa c’è di meglio, in inverno, che consumare le tipiche verdure quali il cavolo nero, il cavolfiore, la verza, il carciofo, l’indivia, la zucca?

Le brassiccaceae o crucifere,  di cui fanno parte la famiglia del cavolo, del broccolo e la verza, pur essendo costituite principalmente da carboidrati sono, come tutte le verdure, povere in calorie. Troviamo, in queste verdure, abbondanza di Vitamina A, essenziale per la vista, di Vitamina  K, importante per la coagulazione del sangue, e di Vitamina C, che favorisce l’assorbimento  del ferro.  Inoltre, le stesse crucifere ostacolano l’angiogenesi, cioè la capacità propria del tumore di creare il proprio letto vascolare con cui si nutre e cresce”.

Le verdure sono erroneamente associate, talvolta, ad un’immagine “triste”: il loro essere servite lesse. “Invece ci sono tantissimi modi di prepararle: buonissime al vapore, al forno, stufate con acqua, un goccio di vino e spezie. Anzi, sulla cottura lessa c’è da dire che non è sempre la migliore, specie se si tende a bollirle per un tempo prolungato ed in abbondante acqua: così facendo, infatti, tutti i nutrienti vengono lasciati proprio nell’acqua”.

Anche e soprattutto nell’alimentazione di tutti i giorni, il Dottor Bolognino ci tiene a sottolineare come il primo approccio avvenga proprio con la vista: “Mangiamo con gli occhi e con l’olfatto”.

Vediamo, quindi, come portare a tavola le verdure rendendole sfiziose, saporite e accattivanti per il palato.

L’indivia, fonte di fibra solubile che rappresenta un valido aiuto per contrastate stipsi e costipazione, consiglio di provarla  grigliata e cosparsa di yogurt e salsa di soia, per un salutare e alternativo aperitivo. Il carciofo, in grado di ridurre l’assorbimento del colesterolo e con un’ azione diuretica, è gustosissimo trifolato, ovvero tagliato e cotto in padella con brodo vegetale bollente, oppure gratinato,  cosparso di pan grattato e pecorino, o ancora, ad omelette. La verza è ottima sotto forma di involtini, saltata o cotta all’aceto. Il cavolfiore è perfetto gratinato o in padella con pepe, vino bianco e acciughe. Mente il cavolo nero, con una quota di Vitamina C pari a 5 volte quella presente negli spinaci, si sposa nella famosa zuppa toscana, con fagioli cannellini e pane tostato, oppure si presenta sfizioso in chips al forno, o in padella sfumato con acqua, vino bianco e peperoncino. Ottima anche la zucca, ricca di Vitamina C, sotto forma di vellutata o al forno”.

Cucinare le verdure in modo sfizioso, senza doverle portare a tavola necessariamente lesse, le rende gustose anche ai bambini: “Offrirgliele  pastellate o fritte è un modo per preparare il gusto a sapori nuovi”.  

Ricette, quelle proposte dal Dottor Bolognino, capaci di rendere le verdure invitanti anche  per chi segue un regime alimentare ipocalorico per perdere peso:” Il giorno del pasto libero, invece di portare in tavola pizza, supplì e bevande gassate, benissimo una fetta di frittata ai carciofi”.

La regina della tavola invernale è la zuppa: “Cosa c’è di meglio e di più buono che mangiarne una calda quando fuori è freddo? Inoltre in inverno si tende a bere meno, quindi il consumo di zuppe e brodo vegetale ci aiuta anche ad idratarsi, senza tralasciare un altro aspetto che influisce sulla linea: le verdure danno un senso di sazietà a fronte di poche calorie”.

Ovviamente anche il consumo di determinate verdure va concordato con il medico, in presenza di alcuni patologie: “Ad esempio, le verdure lesse sono ideali per chi soffre di diverticolite, perché la bollitura rende la fibra più facilmente masticabile ed aggredibile dagli enzimi digestivi.  Oppure, chi assume anticoagulanti, deve prestare attenzione al consumo di verdure ricche di Vitamine K che possono interferire con la terapia. Il consumo di verdure come la verza, ricchissima di fibre, in caso di colon irritabile, può determinare la comparsa di fenomeni diarroici e/ o dolori addominali. Per quanto riguarda il  cavolfiore, ad esempio, è bene limitarne il consumo in caso di ipotiroidismo, in quanto rallenta maggiormente il funzionamento di quest’organo e la concentrazione di purine lo rende sconsigliato anche nei casi di calcoli renali e gotta. C’è una regola fondamentale da seguire nell’alimentazione: non è vero che tutto fa bene a tutti”.

                                                             Alessandra Fiorilli

La storia del “Al Bicerin”, il caffè più antico di Torino, dove anche Cavour amava sorseggiare la storica bevanda che dal 2001 è nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Piemonte.

Una storia, quella del  “ Caffè più antico della città”, come ci dice Alberto Landi, curatore de “Al Bicerin” ,  che affonda le sue radici in un tempo lontano.

Nato nel 1763,  lo storico locale è ospitato dal 1856 al piano terra dell’elegante palazzo antistante il Santuario della Consolata, a Torino, città nella quale Al Bicerin:  “Rappresenta, da secoli,  una sicurezza”, come dichiara Alberto Landi, il quale sottolinea un altro aspetto importante: “Nella scelta delle materie prime ci facciamo guidare dal senso profondo e dalla fedeltà alle nostre tradizioni e alle antiche ricette che si riflettono nella qualità dei  nostri prodotti”.

Oggi come ieri, infatti,  i torinesi, ma anche i turisti  italiani e stranieri, sono accolti  in un ambiente caldo e confortevole, ricco arredi in legno, di specchi, di lampade e di scaffalature progettate appositamente per ospitare i numerosi vasi di confetti.

La bevanda con la quale torinesi e turisti amano coccolarsi è il bicerin  a base di caffè, cioccolato, crema  di latte e servita rigorosamente nei bicerin, piccoli bicchieri di vetro, dai quali, appunto,  prende il nome.

Tra i personaggi che abitualmente hanno frequentato “Al Bicerin”,  un nome che ha fatto la Storia d’Italia:  Camillo Benso Conte di Cavour, il quale sorseggiava la bevanda mentre attendeva la famiglia in visita al prospiciente Santuario della Consolata.

“Al Bicerin” vanta anche un altro primato: è stato il primo locale a conduzione femminile  e l’unico dove le donne potevano entrare a gustare vermouth e rosolio.

Altri frequentatori  dello storico caffè torinese, sono stati:  Alexandre Dumas padre,  nel periodo del suo soggiorno nella città della Mole,  Friedrich   Nietzsche , il compositore Giacomo Puccini, gli scrittori Guido Gozzano, Italo Calvino, Umberto Eco, e i torinesi  Erminio  Macario, l’ Avvocato Gianni Agnelli, il re Umberto II con la consorte Maria Josè.

Non solo politica  e letteratura,  “Al Bicerin”   è stato amato anche dal cinema, non a caso  è stato il set di molto film, tra questi “La meglio gioventù”  di Marco Tullio Giordana, e “Ciao ragazzi” di Liliana Cavani.

A rendere  così unica la bevanda del bicerin  è la cioccolata che cuoce lentamente per ore in particolari pentole di rame, secondo un’antica tradizione, non a caso  nel 2001 la Regione Piemonte ha inserito proprio il bicerin nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari  Tradizionali della Regione.

I frequentatori  del locale possono gustare, oltre al bicerin, anche l’omonima torta glassata, a base di caffè e  cioccolata,  nonché   il Liquore  Regale , la torta di nocciole, il toast al cioccolato e i biscotti al burro.

                                                     Alessandra Fiorilli

Infarto: come riconoscerlo e quanto è determinante il fattore “tempo”. Ne parliamo con uno dei maggiori esperti internazionali, il Professor Paolo Calabrò

“Per infarto del miocardio s’intende la morte cellulare causata da un restringimento delle coronarie che portano il sangue al cuore. Tale restringimento è legato a problematiche dell’aterosclerosi, una patologia cronica, che dà manifestazione acuta proprio durante l’evento infartuale. Nell’aterosclerosi il trombo è un aggregato di piastrine che forma una sorta di “tappo“, il quale, appunto, va ad occludere completamente, o in parte, le coronarie”.

A parlare è uno dei massimi esperti in campo internazionale, il Professor Paolo Calabrò, direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria e direttore del Dipartimento Cardio-vascolare dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, Professore Ordinario della Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Causa principale dell’insorgere del infarto, sono gli elevati livelli di colesterolo nel sangue: “Oltre il 60% dei pazienti con infarto del miocardio, presentano livelli elevati di colesterolo, ecco perché è quanto mai importante tenerlo sotto controllo” come il Professor Calabrò ha esaurientemente illustrato in una precedente intervista pubblicata sulla rivista online EmozionAmici., il 12 Febbraio scorso e che potete leggere al seguente link : https://www.emozionamici.it/2020/02/12/ipercolesterolemia-familiare-dislipidemie-e-sindrome-metabolica-ne-parliamo-con-uno-dei-maggiori-esperti-internazionali-il-professor-paolo-calabro/

“La restante parte dei soggetti che annualmente va incontro ad un infarto, non presenta elevati livelli di colesterolo anche se, l’evento legato all’infarto del miocardio, è indicativo che qualcosa, ovviamente, non va”

I sintomi più frequenti dell’infarto sono: Dolore al torace, dispnea e astenia. Questa è la sintomatologia classica legata all’insorgenza improvvisa dell’infarto, anche se il soggetto diabetico e l’anziano, ad esempio, possono presentare un quadro atipico della manifestazione: si parla, infatti, di infarto silente che si verifica abbastanza di frequente. Ma anche in questo caso, il danno al cuore si riscontra comunque”

Dopo l’insorgenza dell’episodio infartuale: “Il paziente può riportare un danno minimo o un danno esteso al muscolo cardiaco, e nei casi più gravi, ne può conseguire un’insufficienza (o scompenso) cardiaco.”.

Coloro che dopo un infarto riscontrano danni più pesanti, di solito sono pazienti: Con uno stile di vita errato, che fanno scarsa attività fisica, fumano, abusano di sostanze alcoliche, e non assumono correttamente la terapia che viene prescritta loro ”.

Oltre a tenere sotto controllo i livelli di colesterolo nel sangue, dopo i 40 anni d’età, è consigliabile anche sottoporsi annualmente ad un elettrocardiogramma, nell’ambito di una prevenzione che può aiutare particolarmente coloro che presentano un rischio elevato di andare incontro ad un infarto del miocardio: “L’elettrocardiogramma non salva la vita, certo, ma è comunque necessario effettuarlo”.

E dopo un infarto cosa deve fare il paziente? “Da un punto di vista alimentare, potrà assumere tutti gli alimenti, ma in quantità moderata e poi dovrà seguire, nel periodo che segue alla dimissione ospedaliera, una riabilitazione, necessaria sia per i giovani che per i meno giovani. Tali sedute di riabilitazione cardiovascolare possono essere messe a punto già nella stessa struttura, dove è avvenuto il ricovero, come avviene presso il Dipartimento Cardio-Vascolare che ho l’onore di dirigere all’interno dell’AORN Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta”.

Il paziente già colpito da un infarto ha spesso il timore di dover affrontare un secondo episodio: “Questa eventualità dipende dal soggetto, dalla sua aderenza a terapie e controlli che gli verranno prescritti e dalla sua attenzione ai fattori di rischio di cui abbiamo già parlato”.

E’ importante conoscere il proprio fisico e prestare attenzione ai segnali che esso ci manda, perché una presentazione tardiva al Pronto Soccorso può comportare conseguenze gravissime, come: “Il crepacuore, ovvero la rottura del cuore, che rientra tra le complicanze meccaniche più gravi dell’infarto, ma che oggi, per fortuna, risulta essere relativamente rara“.

Purtroppo di presentazioni tardive al Pronto Soccorso se ne sono registrate moltissime durante il periodo del lockdown, causato dall’emergenza sanitaria COVID-19: “I pazienti si sono tenuti l’”infarto addosso”, come si dice in gergo, e lo stesso infarto ha avuto, dunque, tutto il tempo di danneggiare il cuore. Nelle prime settimane del lockdown non solo i pazienti che avrebbero dovuto eseguire i controlli di ruotine non si sono presentati, ma, cosa ancora più grave, come abbiamo detto, le persone con sintomi legati all’infarto, hanno scelto di rimanere a casa, dove, purtroppo, sono morti di crepacuore per la mancata presentazione al Pronto Soccorso. Attualmente, dunque, nelle strutture ospedaliere si sta registrando un super lavoro, ma anche un aumento dei casi di aritmie dovute al fatto che in moltissimi si sono tenuti lontani dagli ospedali durante l’emergenza sanitaria”.

                                           Alessandra Fiorilli

Napoli, al Gran Caffè Gambrinus, dove anche la Storia ha sorseggiato un caffè

1860: a Napoli, nella centralissima Via Chiaia, nasce il Gran Caffè Gambrinus, la cui gestione passerà, nel 1890, a Mario Vacca, il quale volle fortemente che le sale del locale, ormai punto di ritrovo per i napoletani, venissero affrescate dall’architetto Antonio Curri, che aveva già decorato con la sua arte, formatasi alla Scuola di Posillipo, la Galleria Umberto I, poco distante dal Gambrinus.

Il nome del locale simbolo di Napoli , deriva da quello  del Principe delle Fiandre Joannus Primus, considerato patrono della birra, bevanda, questa, non tipicamente partenopea, ma che salverà il Caffè Gambrinus negli anni ’70 del secolo scorso, quando il colera infesterà Napoli, come vedremo oltre.

La sua doppia anima, di Caffè Letterario al mattino e al pomeriggio, e di Caffè Chantant alla sera, farà del Gambrinus un punto di riferimento non solo per gli abitanti di Napoli, ma anche per i letterati, come Gabriele D’Annunzio, il quale durante il suo soggiorno nella città dominata dal Vesuvio,  dal 1891 al 1893,  proprio nelle sale affrescate del Gambrinus, dove s’ intratteneva, darà alla luce  la poesia “A vucchella, “ successivamente musicata da Francesco Paolo Tosti e appezzata in tutto il mondo grazie alla voce del grande Enrico Caruso. Ai tavoli del Gambrinus amavano sedersi anche Benedetto Croce, Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio, e questi ultimi,  come si narra, ebbero l’idea di fondare il quotidiano “Il Mattino”, proprio davanti ad una tazzina di ottimo caffè.

Non solo gli italiani, tra i quali anche musicisti come il compositore Pietro Mascagni, ma anche gli intellettuali stranieri subirono il fascino del Gran Caffè Gambrinus e delle sue sale: da Oscar Wilde al Premio Nobel per la Letteratura Ernest Hemingway, dalla Principessa Sissi al filosofo francese Jean-Paul Sartre.

In tempi più recenti, il caffè Gambrinus è stato il luogo preferito  da Maurizio De Giovanni, dalla cui penna sono nati i romanzi “I bastardi di Pizzofalcone”, poi diventati fiction di successo.

“Ancora oggi il Gran Caffè Gambrinus accoglie ed organizza incontri letterari e presentazioni di libri, a testimonianza di un fermento culturale ancora così vivo”, dichiara Massimiliano Rosati, il quale, insieme agli zii materni Antonio e Arturo Sergio, gestisce il Gambrinus, che nel corso della sua storia centenaria ha conosciuto, almeno sino al lockdown dello scorso mese di marzo, una solo chiusura: “Nel 1938, quando che i gerarchi  ritennero che i locali fossero un punto di incontro per gli  intellettuali contrari al fascismo”.

Ma nel 1946 il caffè riaprì e da allora ha ripreso la sua storia, come se quella parentesi durata 8 anni, non fosse mai esistita per gli animi dei napoletani, per i quali il Gambrinus  rappresenta:  Un motivo di orgoglio. Non è un caso che ogni qualvolta i nostri concittadini hanno un ospite in famiglia, decidono di fargli assaporare la vera anima napoletana, offrendogli il nostro caffè”.

Ma il Gambrinus non è solo sinonimo della bevanda simbolo di Napoli,  ma racchiude in sé le tradizioni più care, come:  “Il caffè sospeso  e la più classica pasticceria”.

Anche il turista è attratto dagli storici locali:  “In grado di  scatenare in lui una forte curiosità” , turista  che non va mai via senza aver gustato il caffè, che per Napoli è un sentimento”.

 E poi come non gustare il simbolo della Pasticceria napoletana come la:  Sfogliatella, che rappresenta la napoletanità nel suo essere e che ha avuto una svolta particolarmente felice dopo il 1994, anno in cui Napoli ha ospitato il G7. Non a caso,  da allora,  le nostre sfogliatelle, sia ricce che frolle, spesso insieme alla pastiera, sono spedite ogni giorno in tutto il mondo”.

Dietro lo sfarzo delle sale da thè  e alla ricchezza della pasticceria che fa bella mostra di sé, e al via vai continuo, ininterrotto di persone, c’è il sogno di un bambino, come ci racconta Massimiliano Rosati:  Mio nonno Michele,  agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, rilevò la conduzione del locale assieme ai figli Artuto ed Antonio, i miei zii,  e al genero Giuseppe Rosati, mio padre. Ecco… proprio nonno Michele, quando da bambino,   passava per via Chiaia con suo padre, era attirato dalle vetrine appannate del Gambrinus e un giorno, profeticamente, disse al mio bisnonno che di vetrine ne avrebbe aggiunte altre, quando un giorno sarebbe diventato il proprietario  del prestigioso locale: e così è stato. Ma prima di arrivare a realizzare questo sogno, la nostra famiglia ha dovuto affrontare il periodo buio dell’epidemia di colera del 1973, quando, a risollevare le sorti del locale fu la comunità di eritrei che abitavano a Napoli, e che facevano largo uso di birra da asporto, ovvero bevevano direttamente dalla bottiglia”.

 E quindi quella birra di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo,  “E’ stata  provvidenziale”.

Terminata l’emergenza sanitaria del colera, il Gambrinus ha conosciuto una crescita esponenziale, divenendo il locale preferito dei Presidenti della Repubblica Italiana, i quali, quando erano a Napoli non potevano fare a  meno di gustare un caffè nello storico locale:  “Negli anni ’80 Francesco Cossiga e poi, nel 2001 l’allora Capo di Stato Carlo Azeglio Ciampi che insistette per pagare il caffè. I miei zii all’inizio fecero resistenza, ma poi videro il grande appuntamento con la Storia: quello era il primo euro speso al Gambrinus. “.

Dopo decine e decine di anni di ininterrotta attività, sempre pronti ad accogliere i propri clienti, anche il Gambrinus ha dovuto chiudere nei mesi del lockdown in seguito all’emergenza sanitaria per il Covid-19: Ci siamo sentiti come un treno in corsa che si è schiantato contro un muro. La cosa più sconvolgente di quei mesi è stato il silenzio, non solo ovviamente, nei nostri locali,  ma in tutta Napoli, in tutta Italia. E in una città come la nostra il silenzio fa ancora più male perché per le vie, le piazze c’è sempre quel brusio piacevole che ti coccola e  ti fa compagnia”.

Poi la riapertura e quel: “Finalmente!” pronunciato da tutti, eppure, mentre tutto riprendeva vita e le voci tornavano a salire:  “Noi abbiamo ripreso a lavorare a testa bassa, così  alacremente e con rinnovato impegno, da far nascere, nei nostri laboratori, un  silenzio assordante:  perché quello non era il momento di parlare, ma di ricominciare il nostro impegno quotidiano”.

Ringrazio Massimiliano Rosati per la sua disponibilità, la sua affabilità tutta napoletana e lo ringrazio per quei suoni, odori e sapori che è riuscito a rendere così reali e vicini attraverso le sue parole,  le sue descrizioni di Napoli, della gente, delle personalità, dei turisti, che nel corso degli anni sono entrati al Gambrinus, dove anche la Storia si è seduta al tavolo per sorseggiare un ottimo caffè.

                                                 Alessandra Fiorilli

Adolescenti, alimentazione e stile di vita corretto: ne parliamo con il Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, Docente Universitario, autore di libri e volto noto della TV.

L’adolescenza, questa fase di transizione che rappresenta l’anello di congiunzione tra l’infanzia e l’età adulta, è  un momento nel quale si deve prestare attenzione anche all’alimentazione.

Come nutrirsi durante l’adolescenza e quali accorgimenti usare per trovarsi, negli anni a seguire, in salute e in forma? Ne parliamo con il  Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, Professore al Master in Scienze della Nutrizione e Dietetica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Professore al Master in Medicina Oncologica Integrata presso l’Università degli Studi di Roma “Guglielmo Marconi”, Istruttore di protocolli Mindfulness per la riduzione dello stress. Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, nelle trasmissioni “Uno Mattina”, “La Prova del cuoco”, “Buongiorno Benessere” su RAI 1, su “Tutta Salute” su RAI 3, Rete 4, LA7,  Sky.

“L’adolescenza è una fase delicata, rappresenta infatti, uno sviluppo che comporta cambiamenti fisici, psicologici e sociali. Quindi, anche l’alimentazione andrà incontro ad un mutamento sia in termini quantitativi che qualitativi. La colazione, il primo pasto della giornata, dovrà essere necessariamente tale da poter dare energia immediata: quindi, bene le fette biscottate con marmellata, latte e cereali. Gli spuntini, ottimi quelli a base di frutta, oppure con uno yogurt e delle mandorle, ad esempio, diventeranno necessari perché l’adolescente non dovrebbe stare più di 3/ 4 ore senza mangiare. In considerazione delle ore trascorse sui libri, dobbiamo altresì sottolineare come il cervello consuma calorie: in modo particolare ha bisogno, per il suo funzionamento, di zuccheri, ecco perché non vanno banditi dalla dieta. La scelta ovviamente cadrà sui carboidrati meno raffinati. Via libera anche a vitamine e verdure, queste ultime da consumare a pranzo e a cena, e non dimentichiamo come durante l’adolescenza, si ha un accrescimento muscolare e l’allungamento osseo, pertanto la dieta richiederà anche l’introduzione, rispettivamente, di proteine, di frutta secca e prodotti latto-caseari. Mentre il ferro, altro elemento importante nella dieta, lo troviamo nei legumi, alimenti, questi ultimi, poco amati dagli adolescenti, anche se poi molto dipende dai gusti e dalle abitudini”.

Abitudini le quali, poi, si riflettono anche sullo stile alimentare futuro, non è un caso che: “Il gusto dell’adulto di domani si formi nell’adolescenza”, come sottolinea il Dottor Bolognino, il quale punta anche l’attenzione su come sia fondamentale il ruolo della famiglia nello stile alimentare dei più giovani: “Già uno studio di 20 anni fa, ha evidenziato come, nell’86% dei casi, da genitori obesi si abbia la possibilità che anche i figli siano o diventino obesi”.

Statistiche alla mano, si sta registrando, a livello mondiale, un aumento di giovanissimi in sovrappeso, tanto da poter parlare di una vera e propria: “Pandemia. I ragazzi lasciati talvolta soli, con le famiglie smembrate per il lavoro e che delegano ad altri, rappresentano, per le industrie alimentari, un interessante oggetto di studio commerciale per le vendite.  Negli ultimi anni, si parla, infatti, di Neuromarketing, azione svolta dalle aziende per individuare quale combinazione di odori colori e sapori sia in grado di stimolare le aree del piacere cerebrali creando dipendenza nei consumatori. Questi cibi, sono, per i più giovani, come il canto delle sirene per Ulisse e i suoi compagni”.

Sono soprattutto le adolescenti, ad avere, nei confronti del cibo, un rapporto ambiguo, come dichiara il Dottor Bolognino:” La dieta non è sinonimo di poche calorie e di soffrire la fame, ma di un giusto apporto dei nutrienti. E non bisogna demonizzare i carboidrati, che forniscono 4 calorie per grammo, proprio come le proteine. Certamente è più facile mangiare un petto di pollo alla piastra con un filo d’olio a crudo piuttosto che un piatto di pasta lessa! Il problema, semmai, sono i condimenti, spesso responsabili dell’aumento delle calorie totali. E sono sempre le ragazze che pur di non rinunciare al “junk food”, saltano il pasto successivo”.

Anche i cambiamenti sociali si riflettono sulle abitudini degli adolescenti a tavola, difatti, proprio negli ultimi decenni, tali mutamenti hanno avuto ripercussioni anche sul regime alimentare dei più giovani. Nelle maggior parte delle case degli italiani, abbonda il “ready to eat”, il cibo pronto e veloce da mangiare. I cambiamenti sociali, con i genitori fuori all’ora di pranzo, si ripercuotono anche sul frigorifero e sulla credenza, all’interno dei quali si trovano, sempre più spesso e facilmente, dei cibi che producono forti piaceri palatali da gustare in 2 minuti di micronde, ricchi di conservanti ed esaltatori del sapore. Anche l’uso delle verdure crude in busta è aumentato. Come dico sempre ai pazienti, l’ideale è consumarla fresca, ma se la scelta è tra la verdura in busta che solitamente viene trattata con irradiazione per evitare la crescita di muffe, e un piatto pronto, sicuramente meglio la prima opzione, anche se non dobbiamo dimenticare come la verdura in busta sia più povera, rispetto alla fresca, di nutrienti. E tornando all’importanza del consumo dei legumi, se proprio non si ha la possibilità di consumarli freschi, sempre meglio optare per quelli in vetro piuttosto che quelli in latta”.

Determinante, dunque, educare sin da piccoli, alla buona alimentazione e alle scelte più giuste in campo alimentare: “Organizzo spesso nelle scuole medie e superiori degli incontri sul tema “cibo“, in cui intervengono sia gli studenti che le loro rispettive famiglie. È importante notare come i genitori, i quali, inizialmente partecipano con poco slancio, quasi “obbligati”, siano i primi a fare domande e a partecipare, poi, attivamente all’incontro, ringraziandomi per le informazioni date. La chiave di tutto è sempre la conoscenza”.

Le abitudini del “gruppo amici” influenzano anche quelle personali, sempre più spesso si va fuori a mangiare il tanto demonizzato “junk food”, il cibo spazzatura, ma non si disdegna, ormai, neanche il famoso aperitivo che i giovanissimi consumano sempre più spesso. Abitudini che da sociali diventano ovviamente, alimentari, con tutte le conseguenze del caso: ”Se non si riesce a dire “no” alla proposta di un pranzo o di una cena a base di “junk food” è importante non consumarlo più di una volta alla settimana. Cerchiamo di limitare i danni dov’è possibile: meglio, ad esempio, ordinare dell’insalata e del pollo ai ferri piuttosto che pollo fritto con patatine imbevute da salse di ogni genere. Anche il consumo dell’aperitivo rischia di trasformarsi da momento di ritrovo sempre più in voga tra i giovanissimi, in una vera e propria bomba calorica: si ha la sensazione di non aver mangiato nulla, invece si sono incamerate dalle 300 alle 1000 calorie, alle quali vanno ad aggiungersi quelle del soft drink, che spesso a 16 anni si consuma nella variante “alcolica leggera”. Nella seconda adolescenza, invece, il problema diventa più serio, perché l’aperitivo inizia ad essere alcolico. Ricordo che le calorie dell’alcool non danno energia, ma si convertono direttamente in grasso. Purtroppo l’abuso d’alcool sta diventando un problema serio perché, studi scientifici dimostrano come sia in grado di creare danni al cervello degli adolescenti, provocando alterazione nella formazione dei neuroassoni cerebrali”.

Uscire la sera con gli amici significa, specie d’estate, anche mangiare un gelato assieme: “Sicuramente è da preferire quello artigianale, meglio ancora se alla frutta. Quelli confezionati sono, infatti, più poveri di nutrienti e spesso più grassi. La panna, quando si può, è meglio evitarla”.

Di fondamentale importanza, per gli adolescenti, è anche l’attività fisica regolare o il praticare uno sport anche a livello agonistico: “Lo sport e la corretta alimentazione sono due anelli essenziali per lo sviluppo armonico psico-fisico dell’adolescente. In particolare, l’agonista ha spesso già una “forma mentis” verso la giusta alimentazione ed è più rigoroso, anche se non si deve mai eccedere in un controllo spasmodico delle calorie. È sufficiente anche una qualsiasi attività aerobica, ma se pensiamo che a fronte di circa 100 ore in cui si è svegli, solo 2-3 sono dedicate all’attività fisica, questo ci fa comprendere come i ragazzi non si muovano a sufficienza. E tutto questo influisce anche sullo stile alimentare che devono seguire: se ad esempio, trent’anni fa, la classica merenda era fatta  con pane olio e pomodoro, perché poi si andava in bicicletta o si giocava al parco con gli amici, oggi, schiavi di una vita sedentaria, tra libri cellulari tv e console, questo è meno possibile. Quindi,se ci si muove meno, l’apporto calorico giornaliero andrà comunque ridotto, altrimenti il peso continuerà a crescere”.

                            Alessandra Fiorilli

Quanto è importante per i bambini stare all’aria aperta?

L’arrivo del primo figlio porta con sé una serie di interrogativi di “vita pratica” per rispondere ai quali, talvolta, la neomamma si rivolge a chi ha più esperienza, ma spesso il timore di sbagliare e di non essere adeguatamente all’altezza fanno sorgere molti “nodi” che solo il Medico Specialista preposto potrà sciogliere.

Proprio i quesiti che più comunemente si pongono le neomamme, sono stati posti alla Dottoressa Patrizia Armenise, Pediatra.

Domanda) Dopo quanti giorni dalla nascita il neonato può uscire da casa?

Risposta) In realtà il bambino la prima uscita la fa gia quando lo si porta proprio a casa dall’ospedale in cui è nato, pertanto se è in grado di lasciare la struttura sanitaria,  potrà tranquillamente affrontare una passeggiata quotidiana nel parco, andare a trovare i nonni o dal pediatria per effettuare la visita.

D) Quanto  influisce il periodo dell’anno in cui si nasce?

R) Sicuramente sono più fortunati i bambini che nascono nel periodo primaverile o estivo rispetto ai piccoli nati nel periodo invernale, durante il quale i virus e batteri sono “in agguato” , pronti ad attaccare.

D) Quali sono gli indumenti da prediligere nei mesi più freddi?

R) D’inverno i bambini dovrebbero essere ben coperti, ma senza esagerare. E’ consigliato sempre vestirli “a cipolla”, ovvero a strati, in modo da sovrapporre indumenti più pesanti che possono essere agevolmente tolti, se ci si dovesse trovare in luoghi riscaldati. Una buona abitudine in inverno è quella di far indossare le magliette lana fuori e cotone sulla pelle. E ovviamente, quando il freddo invernale è pungente, d’obbligo il cappellino.

D)  Se si vive al mare, si può fare una passeggiata in spiaggia anche nelle belle giornate d’inverno?

R) Il mare è sicuramente un ambiente sano rispetto alla città trafficata ed inquinata, soprattutto d’inverno, stagione nella quale i bambini sono più esposti ai danni provocati dall’inquinamento ambientale.

D) Ci sono delle regole da seguire per una sana passeggiata?

R) Più che di regole da dare alle mamme , è il caso di parlare di consigli, quali: scegliere percorsi lontani dal traffico delle auto e non affollati, cercare di evitare di passeggiare in un luogo dove si incontrano molti semafori e dove, quindi, l’inquinamento da gas di scarico è più elevato e più diretto, purtroppo, verso il passeggino.

D)Anche il caldo richiede una protezione particolare? E quali sono le regole da seguire?

R) Particolare attenzione richiede la scelta degli indumenti che dovrebbero essere possibilmente di colore chiaro per respingere luce e calore e leggeri, in fibre naturali,  come cotone e lino.  Da evitare, invece,  le fibre sintetiche che non sono indicate in quanto non assorbono il sudore e favoriscono, pertanto,  le irritazioni cutanee.  I cappellini si usano se è davvero necessario: per esempio al mare, per proteggerlo  dal sole

D) Quali sono gli effetti positivi dello stare all’aria aperta per i bambini?

R) All’aria aperta i bambini rafforzano le proprie difese immunitarie perché virus e batteri non riescono a replicarsi. Anche i neonati, adeguatamente protetti, possono essere portati fuori nelle ore più calde d’inverno e nelle più fresche d’estate. I bambini dovrebbero giocare all’aperto in ogni situazione, non si sono controindicazioni, neppure quando fa caldo in estate e freddo in inverno, bastano alcuni accorgimenti: evitare di uscire in orari in cui la temperatura è troppo elevata d’estate ( 11-16) o,  se fa molto freddo, usare qualche accortezza in più negli indumenti da scegliere.

                                            Alessandra Fiorilli

Ipercolesterolemia familiare, Dislipidemie e Sindrome Metabolica: ne parliamo con uno dei maggiori esperti internazionali, il Professor Paolo Calabrò

Di ipercolesterolemia si parla quando il colesterolo, grasso fondamentale per l’uomo, prodotto principalmente dal corpo ed introdotto per un 20/30% con l’alimentazione, supera i 200 mg/dl.

Se l’ipercolesterolemia si associa al diabete e all’ipertensione, può causare, più facilmente, la formazione di placche aterosclerotiche e c’è una probabilità maggiore che si registrino eventi cardiovascolari come l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e l’ischemia degli arti inferiori.

Ne parliamo con uno dei massimi esperti in campo internazionale, il Professor Paolo Calabrò,  direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, direttore del Dipartimento Cardio-vascolare e Professore Ordinario della  Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione di Paolo Calabrò)

All’interno del quadro generale dell’ipercolesterolemia, esiste quella di tipo familiare, che si ha, più spesso: “A causa  dell’alterazione genetica del recettore LDL”, ossia il recettore del colesterolo cosiddetto “cattivo”.  Chi ha queste mutazioni e, quindi, alti livelli di colesterolo sin dalla nascita, va incontro ad una rapida formazione di placche aterosclerotiche. Attraverso dei prelievi ematici in alcuni Centri specializzati, come il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, è possibile eseguire dei test genetici che possono confermare o meno la diagnosi di ipercolesterolemia familiare.  Eseguiti gli esami ematologici di routine, come colesterolo totale, HDL, LDL, emocromo, glicemia, funzionalità epatica, tiroidea e renale, il paziente sarà seguito nel percorso di follow-up e, scelta la terapia migliore, tornerà presso il centro, per monitorare il tutto.  Uno screening familiare consente, quindi, di poter intervenire in maniera tempestiva all’interno di un quadro dove, purtroppo, l’assunzione di integratori alimentari, quali il riso rosso fermentato, hanno un ruolo marginale. In questi casi, il ricorso alle statine, che agiscono soprattutto sull’inibizione della produzione del colesterolo endogeno da parte del fegato, è necessario. Demonizzate da più parti, hanno subito un attacco indiscriminato. Non possiamo dire che non abbiano effetti collaterali, ma il più delle volte sono proprio necessarie, inoltre, quelle messe a punto più recentemente, risultano maggiormente tollerate.”

Talvolta alla statina, che va ad agire sul processo di sintesi, si associa anche all’ezetimibe, che ha la funzione di limitare l’assorbimento dello stesso colesterolo. “Ultimamente ci sono anche farmaci di ultima generazione, come gli inibitori di PCSK9 che sono mostrati sicuri ed estremamente efficaci nel ridurre il colesterolo LDL”.

Il paziente che è affetto da ipercolesterolemia familiare, però, non deve schermarsi dietro questa alterazione genetica e pensare che nulla possa fare, oltre ad assumere i farmaci: “Anche per questi soggetti è importante seguire uno stile di vita adeguato, ovvero un’alimentazione varia ma corretta, e praticare un’attività fisica regolare, che aiuta, specie nei pazienti in sovrappeso, a diminuire il gito vita, ad abbassare la pressione arteriosa e a e far rientrare a valori accettabili anche la glicemia, che può trovarsi in concomitanza ad alti valori di colesterolo.”

Per quanto attiene all’alimentazione, il Professor Calabrò sottolinea come: “Per alcuni cibi non è il caso di parlare di abolizione totale, come per i formaggi, quanto di riduzione e moderazione nell’assunzione. Il junk-food, invece, è da eliminare, ma questo vale per tutti e non solo per chi è affetto da ipercolesterolemia familiare”. 

Accanto ai soggetti che sono affetti da tale patologia,  c’è un’altra tipologia di pazienti, ovvero coloro i quali si trovano a dover fronteggiare elevati tassi di colesterolo e trigliceridi nel sangue a causa di un’alimentazione e di uno stile di vita scorretto:” Siamo di fronte da un quadro clinico misto, che in gergo medico chiamiamo dislipidemia, caratterizzato da colesterolo, trigliceridi, basso colesterolo HDL, il cosiddetto colesterolo buono; quadro, anche questo, che conduce allo sviluppo di placche aterosclerotiche. C’è comunque da fare un distinguo necessario: in presenza del solo colesterolo è più facile agire prima che si formino le placche, le quali, senza un trattamento specifico, per loro naturale storia, tendono ad aumentare. Nonostante tutto, chi dovesse riscontrare la presenza di placche aterosclerotiche, ad esempio attraverso un ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, non deve sentirsi “bollato”. La placca, grazie alla somministrazione di farmaci, può persino  diminuire”.

Si sente parlare sempre più spesso anche di Sindrome Metabolica: “Anche questa è causata spesso da uno stile di vita scorretto ed è caratterizzata da un aumento della circonferenza della vita, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete e dislipidemie”

Un cambio di alimentazione unito a un’attività fisica regolare, possono essere d’aiuto per combattere tale sindrome: “Sono sufficienti 30, 40 minuti di camminata a passo sostenuto ogni giorno per 4-5 volte la settimana. La camminata veloce, inoltre, è in grado di far aumentare il colesterolo buono. Bene anche l’assunzione, moderata, di vino rosso che contiene polifenoli”.

                                               Alessandra Fiorilli

HPV: screening, test, vaccino, contagio e rischi, ne parliamo con la Ginecologa Francesca Sagnella.

“E’ in corso uno screening gratuito organizzato dalla Regione Lazio rivolto alle donne di età compresa tra i 30 e i 64 anni, finalizzato alla ricerca del Papilloma Virus (HPV).

Questo test sta sostituendo il pap-test in quanto molto più efficace e sensibile, per la diagnosi precoce delle lesioni del collo dell’utero provocate dall’HPV, le quali possono evolvere in tumori della cervice uterina”.

Inizia così l’intervista con la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana, la quale, in merito a questa novità nel campo dello screening per l’individuazione del tumore al collo dell’utero, così si esprime :” Molte pazienti mi hanno chiesto delucidazioni riguardo all’invito, ricevuto dalle ASL di appartenenza, a sottoporsi al programma di prevenzione del tumore del collo dell’utero. Questa intervista è un’ottima occasione per fare chiarezza sull’argomento. L’HPV è considerato ilprincipale responsabile dei tumori della cervice uterina; ne sono stati individuati circa 200 ceppi,ma soltanto  alcuni di loro sono a rischio oncogeno (ceppi ad alto rischio).

Il test HPV HR offerto dalla Regione Lazio individua i ceppi ad alto rischio (HR), e pertanto le donne maggiormente predisposte a sviluppare lesioni precancerose indotte dal virus. In caso di esito negativo, il test verrà ripetuto dopo 5 anni.Nel caso in cui il test rilevi la presenza dell’HPV, verrà analizzato anche il vetrino del PAP test, prelevato contestualmente”.

La Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa

E le donne che contraggono l’HPV cosa debbono fare? Non esistono ancora medicine per curare l’HPV. Quel che possiamo fare è trattare le eventuali lesioni provocate dal virus. L’esame da fare, in caso di positività del test, è la colposcopia, ovvero un ingrandimento del collo dell’utero; se poi la situazione richiede un approfondimento, si esegue una biopsia e, in caso di necessità, si asporta la porzione del collo dell’utero sede della lesione (conizzazione) “.

Le donne che contraggono il virus dell’HPV hanno timore che ciò possa avere ripercussioni sulla fertilità: Nella maggior parte dei casi non ci sono conseguenze sulla fertilità e l’infezione da HPV non costituisce una controindicazione al parto vaginale, salvo particolari eccezioni. Tuttavia, inalcuni casi, è possibile che aumenti il rischio di alcune problematiche ostetriche come, ad esempio,il parto pretermine. Questa complicanza è più probabile qualora la paziente abbia subito una conizzazione molto estesa.”

Si tratta di un esame invasivo? ”Assolutamente no: la modalità di esecuzione del prelievo di celluleper l’HPV test è semplice e sovrapponibile a quella che si utilizza per il Pap-test.

L’analisi di laboratorio è invece molto più complessa, trattandosi di un test genetico che va a ricercare il DNA del virus. Per questo motivo ha un costo più elevato”.

Non a tutte le donne è consigliato sostituire il pap-test con l’HPV test: Nelle più giovani si preferisce effettuare il pap-test, in quanto si stima che circa l’80% delle donne, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, contragga il virus dell’HPV almeno una volta nella vita, con conseguente risoluzione spontanea dell’infezione. Si stima che il virus venga eliminato spontaneamente nel 50% dei casi entro un anno e nell’80% dei casi entro due anni”.

La principale via di trasmissione: “E’ quella sessuale, anche in assenza di rapporti completi, inquanto può avvenire anche attraverso il contatto tra mani e mucose o tra le mucose stesse. Anche il profilattico è meno efficace nel proteggere dall’HPV, rispetto ad altre infezioni , proprio perché copre solo una parte delle zone potenzialmente “abitate” dal virus”.

In caso di esito positivo dell’HPV test: “Il Partner deve essere informato, ovviamente, ma c’è da dire anche che tale virus non sempre si manifesta e spesso l’uomo può essere un portatore sano, avendo potuto contrarlo molto tempo prima, magari da un’altra donna”.

Cosa si può fare, quindi, per prevenire questa infezione? : L’unico metodo per prevenire l’infezioneè la vaccinazione. Dal 2008 è partita la campagna di vaccinazione gratuita, per le ragazze nel 12° anno di vita; dal 2017 la stessa vaccinazione è rivolta anche ai maschi”.

Che tipo di protezione offre il vaccino HPV?: “Esistono diversi vaccini che si distinguono per il numero di ceppi contro i quali è attivo. Il vaccino che viene utilizzato attualmente (Gardasil 9) è rivolto contro 9 ceppi, tra i quali i 7 più pericolosi (responsabili del 90% circa dei tumori della cervice) e due ceppi a basso rischio, responsabili dei condilomi genitali”.

Molte mamme temono che il vaccino possa essere pericoloso. Come possiamo rassicurarle?

Il vaccino è sicuro in quanto si va ad inoculare soltanto l’”involucro vuoto” del virus, non il suo DNA. Pertanto NON può infettare. In tal modo induce il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici”

Le possibili reazioni al vaccino: “ Sono quelle comuni, come una lieve alterazione della temperatura,dolori muscolari, fastidio nel sito dell’inoculazione; tutti effetti che, però, scompaiono in poco tempo”.

E’ possibile vaccinarsi anche oltre i 12 anni: “L’efficacia del vaccino è massima in chi non ha mai contratto il virus; la maggior parte degli studi che la documentano, ha preso in considerazione donne tra i 16 e i 25 anni, ma studi recenti ne evidenziano una certa utilità anche tra i 26 e i 45anni; in questa fascia è più probabile che la donna abbia già contratto alcuni ceppi, ma lavaccinazione potrebbe coprirne altri”.

                                                                 Alessandra Fiorilli

Il Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, ci parla del profondo significato della “dieta”, con uno sguardo rivolto a quella da seguire nella Terza Età.

Ogni fascia d’età presenta aspetti peculiari, da un punto di vista ormonale, che richiedono una dieta specifica.

Dieta…quante volte abbiamo letto e sentito questa parola e quante volte è stata associata a un regime alimentare sinonimo di privazione e talvolta persino di “fame”: tale termine, invece, è da leggere nel suo aspetto etimologico per comprenderlo completamente.

“Dieta” deriva dal greco “daita” e significa regime di vita che ha come suo pilastro un’alimentazione sana ed equilibrata avente come obiettivo il benessere a la salute, non dimenticando del tutto i piaceri della buona tavola.

Come già accennato all’inizio, un regime sano ed equilibrato è indicato ad ogni età, ma ci sono delle fasce o delle condizioni che ne richiedono uno ancora più specifico: è il caso dei bambini, degli adolescenti, delle donne in gravidanza, in allattamento  o in menopausa, degli anziani ma anche di coloro che sono in sovrappeso o obesi o di chi è affetto da particolari patologie.

Anche gli sportivi o chi segue un regime alimentare vegetariano o vegano ha necessità di seguire un’alimentazione specifica.

Dei vari aspetti di una dieta, con un’ attenzione rivolta a quella per la Terza Età, ne parliamo con il Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, Professore al Master in Scienze della Nutrizione e Dietetica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Professore al Master in Medicina Oncologica Integrata presso l’Università degli Studi di Roma “Guglielmo Marconi”, Istruttore di protocolli Mindfulness per la riduzione dello stress. Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, nelle trasmissioni “Uno Mattina”, “La Prova del cuoco”, “Buongiorno Benessere” su RAI 1, su “Tutta Salute” su RAI 3, Rete 4, LA7,  Sky.

Il Dottor Rolando Alessio Bolognino (Foto per gentile concessione del Dottor Rolando Alessio Bolognino)

L’anziano, fino alla metà del secolo scorso, era il nonno che, terminata la sua attività lavorativa, era a casa, quasi del tutto privo di interessi e che si accontentava di non aver malattie per dire di star bene.

Ma il benessere, oggi, è fatto di tante sfaccettature e non è più, fortunatamente, solo assenza di patologie, ma è un discorso che spazia dall’alimentazione all’attività fisica.

Per questo parliamo con il Dottor Bolognino dello stile di vita da tenere nella Terza Età.

Molti anziani hanno la tendenza a dimagrire, per disturbi legati alla masticazione o al gusto, ad esempio, o ad ingrassare, spesso per sedentarietà e assenza di attività fisica. E’ per questo che bisogna valutare attentamente, anche per l’anziano, i bisogni reali dell’individuo e le necessità. Come discorso molto generale sull’alimentazione, possiamo dire che eliminare cibi dalla dieta, a meno che non ci sia una patologia che lo richieda, non è mai un bene”.

L’anziano che vuole vivere bene la sua età: “Deve fare pasti piccoli e frequenti: mangiare per prevenire la fame, questa è la parola d’ordine. Così come è importante bere molto prima ancora che arrivi la sete, perché a quel punto c’è persino il rischio di disidratazione”.

Con il passare degli anni, ciascuno di noi, inevitabilmente, va incontro ad una perdita di massa muscolare Perdiamo ogni anno tra lo 0,1 o lo 0,4 % del muscolo, e questo fenomeno prende il nome di sarcopenia. E’ inevitabile, ma possiamo tutelarci mangiando bene e cercando di modificare lo stile di vita”.

A tal proposito, il Dottor Bolognino fa un distinguo tra: Vita attiva, quindi muoversi a piedi, salire le scale, passeggiare in bicicletta” e Attività sportiva, caratterizzata da un inizio e da una fine dell’allenamento e da un’intensità di lavoro programmata”.

Per la Terza Età, specie le donne, molto indicate sono : “Yoga, pilates, posturale, attività dolci che favoriscono comunque l’allungamento e la tonicità muscolare”.

Il sesso femminile deve fronteggiare, infatti, con il passare degli anni anche l’osteoporosi: Lo stadio precedente all’osteoporosi è quello dell’osteopania, ovvero la perdita di calcio da parte delle ossa. Per rallentarne il processo, anche in questo caso, a fare la differenza è il movimento, ovvero portare il carico sull’osso stimola quest’ultimo a trattenere il calcio e rimanere elastico. Quando il calcio, invece, non viene trattenuto dalla matrice ossea questa cristallizza divenendo fragile”.

Tornado alla dieta per la Terza Età, Il primo alimento magico è l’acqua oligominerale con residuo fisso (la  quantità di minerali disciolti) tra i 100 e i 200 mg/l “

Attenzione al latte, spesso non sufficiente per contrastare l’osteoporosi: “In realtà ho più successo quando tolgo il latte dalla dieta che quando lo inserisco. Al suo posto è da preferire lo yogurt, più digeribile e che ci permette di assumere calcio durante gli spuntini, quindi a metà mattina o a metà pomeriggio.”

Bene anche i: Formaggi magri, con una percentuale di grassi tra il 10 e il 12%, quale la ricotta di mucca o un buon formaggio stagionato come il parmigiano, ottimi come scelta per un secondo”.

Il cibo non è solo una necessaria fonte di sostentamento, ma ha un potere ancora poco conosciuto: “Occupandomi di nutrizione oncologica, ho potuto constatare come modificando la propria alimentazione, andando a preferire alcuni alimenti specifici durante la chemioterapia escludendone alcuni, consenta al paziente di ridurre drasticamente gli effetti negativi quali la nausea e il vomito”.

L’alimentazione è anche da considerarsi, quindi come: Cura e prevenzione”, tanto che “Alcuni tipi di tumore, come quello del colon e del seno hanno un rapporto fino al 70% con il cibo”.

E per quanto attiene all’uso di integratori, il Dottor Bolognino così si esprime:   “E’ da considerare solo se necessario. Assistiamo oggi a un fenomeno particolare: siamo una società alla ricerca del “senza”: glutine, lattosio, zucchero, grassi. Paghiamo di più per avere meno! E poi andiamo continuamente alla ricerca di integratori! L’eventuale uso di integratori è da valutare caso per caso”.

La dieta equilibrata: “Con alimenti di stagione è il toccasana per qualsiasi fascia di età e agli anziani:E’ consigliato assumere proteine in piccole quantità e facilmente digeribili. Quindi bene carne magra e sottile, pesce azzurro, uova purché siano di classe 0/1 (quindi allevate a terra), legumi. Ogni giorno poi consiglierei di inserire una centrifuga/estratto di verdura quali finocchio, carota, rapa, crescione, broccolo, spinacio, zenzero e un frutto, per rendere il sapore più gradevole”.

Al termine dell’intervista ringrazio il Dottor Bolognino non solo per i suoi preziosi consigli, ma soprattutto per la chiara incisività del suo messaggio, forte di una competenza in campo della nutrizione, ma soprattutto di una grande  passione per il proprio lavoro.

E grazie perché il Dottor Bolognino ci ha fatto comprendere come siano poche, ma fondamentali le regole da seguire per stare in salute.

Perché la vita, se non afflitta da patologie, è bella, ricca, piena, a qualsiasi età.

Alessandra Fiorilli