Cibi congelati e surgelati: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista

Congelare e surgelare, nell’accezione comune, vengono talvolta erroneamente usati come sinonimi: è necessario fare chiarezza su queste due modalità di conservazione del cibo e sulle loro caratteristiche. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione: :” Procediamo con un primo distinguo: tra cibo congelato e cibo surgelato ci sono delle differenze e le più rilevanti riguardano le temperature e il tempo necessario per raggiungerle”.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (Foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Vediamole in dettaglio :”  Un alimento congelato raggiunge in media i -5/-15°C con tempi lunghi, i cristalli di acqua che si formano sono grandi e al momento dello scongelamento fanno perdere parte dei valori nutrizionali. Gli alimenti surgelati raggiungono, invece,  i -18°C rapidamente e i cristalli che si formano preservano l’alimento”.

Inoltre :” Il congelamento è tipicamente domestico, la surgelazione avviene solo a livello industriale”.

Il discorso sulla temperatura è di rilevante importanza: “ E’ sicuramente il parametro principale quando si parla di sicurezza alimentare. La formazione di cristalli di ghiaccio rende inaccessibile l’acqua ai microrganismi, impedendone la proliferazione. Bisogna sapere però che le basse temperature non uccidono i batteri ma li inattivano; questi, infatti,  rimarranno “ibernati” fino allo scongelamento”.

C’è una tendenza diffusa a congelare un alimento acquistato fresco e a congelarlo, ma in molti si chiedono se questa procedura possa in qualche modo alterare le qualità organolettiche e le proprietà nutritive: Il cibo nel congelatore indubbiamente  conserva vitamine e minerali meglio e più a lungo rispetto a quello che viene lasciato per giorni nel frigorifero, con il rischio, poi di doverlo gettarlo via.  C’è da aggiungere, però, come le tempistiche lunghe che consentono la formazione di cristalli di acqua di grandi dimensioni, possono rompere le cellule e modificare la struttura dell’alimento, alterandone le proprietà nutritive e organolettiche”.

C’è chi, per motivi di tempo, cuoce le verdure per congelarle e tirarle via dal freezer al momento del bisogno: Alcune tipologie di verdure come spinaci, bieta, fagiolini, broccoli, carote, asparagi, verza si prestano ad essere congelate dopo essere state sbollentate un paio di minuti e raffreddate”.

 In molti, però,  si chiedono se ad essere congelate possono esserlo anche le verdure fresche e persino la frutta: E’ necessario prestare attenzione  alla frutta e alla verdura che si sceglie: alimenti ricchi di acqua come lattuga, cetrioli, cipolla, ananas, cocomero, durante il congelamento andranno incontro a rottura delle pareti cellulari, perdendo, una volta scongelati, sapore e proprietà nutritive”.

Congelare in modo corretto significa anche controllare bene la data di scadenza del prodotto che si vuole mettere in freezer :” Secondo le Direttive europee, nonché del Ministero della Salute, carni in prossimità della scadenza non dovrebbero essere congelate  perché c’è il rischio che si sia verificata già la proliferazione batterica: quindi si congela un alimento già contaminato. Il modo migliore potrebbe essere cuocere gli alimenti e successivamente congelarli per ridurre al minimo la possibile contaminazione batterica.”

Importante anche porre attenzione alle dimensioni del cibo da congelare:” Preferire quelle piccole mentre il pesce :”Va sempre prima eviscerato”.

Importante anche la temperatura del cibo che si intende congelare: Gli alimenti possono essere congelati se freddi o a temperatura ambiente. Non si possono congelare alimenti ancora caldi, questo è deleterio sia per l’alimento che per il freezer. Un cibo introdotto caldo abbassa la temperatura del freezer e rischia di compromettere la conservabilità di tutto ciò che è congelato”.

Da osservare scrupolosamente il tempo massimo nel quale poter consumare i prodotti congelati in casa:” E’ buona norma  farlo entro 3 mesi dalla loro preparazione, anche se per alcuni si può arrivare fino a 1 anno”.

Pure il modo di confezionamento deve essere corretto: Se l’alimento non è confezionato ermeticamente, l’aria penetra al suo interno e ne favorisce la disidratazione. La superficie che è entrata in contatto con l’aria assume un colore grigiastro”.

Diverso il discorso per i cibi surgelati che acquistiamo al supermercato: “I prodotti surgelati, come specificato anche dal Ministero della Salute, sono “teoricamente” non deperibili, a patto che venga mantenuta la catena del freddo, quindi il prodotto può essere consumato anche oltre la data riportata sulla confezione (non supererei un paio di mesi), anche se possono esserci delle alterazioni a livello di sapore e/o consistenza”.

Di vitale importanza  rispettare la catena del freddo : Come sostiene anche il Ministero della Salute, è assolutamente sconsigliato ricongelare il cibo scongelato. E tale pratica è ammessa solo nel caso in cui il cibo, prima di essere ricongelato, sia stato cotto. Il motivo è che ricongelare il cibo scongelato farebbe proliferare i batteri, e la cottura, invece, ne bloccherebbe la crescita arrivando ad ucciderli.

Una curiosità sulle uova: Le uova intere con il guscio non possono essere congelate, perché il freddo lo farebbe esplodere, con un rischio   di contaminazione  molto elevato. È, pertanto,   necessario separare albume e tuorlo. L’albume può essere conservato tal quale e durare 3-5 mesi. I tuorli andranno sbattuti e si dovrà aggiungere 1-2g di zucchero per tuorlo se saranno utilizzate per un dolce, oppure di sale se serviranno per una preparazione  salata. Questo eviterà che il tuorlo diventi granuloso”.

                                             Alessandra Fiorilli

Il pane…semplicemente. Parliamo di quest’elemento principe della dieta mediterranea con il Professor Rolando Alessio Bolognino.

Celebrato nelle poesie, protagonista di molti detti e proverbi popolari,  è sinonimo di lavoro, di fatica, ma anche di casa e di convivialità. E se alcune testimonianze fanno risalire la sua prima comparsa persino alla preistoria, quando gli uomini macinavano ghiande commestibili cuocendole su rocce roventi, sono stati  gli antichi Egizi,  intorno al 3500 a.C. , ad aver messo a punto  la lievitazione naturale. E sempre loro, consapevoli della grande importanza del pane, cominciarono a usarlo persino come mezzo di pagamento. I Greci lo preparavano usando anche spezie e miele, mentre i Romani riempirono la loro città di centinaia e centinaia di forni dove veniva impastato e cotto.

Il pane, a partire dagli anni ’80,  è stato più volte additato come il nemico uno della forma fisica, reo di far accumulare chili di troppo. Facciamo la necessaria chiarezza grazie al Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma,  Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione: “ Il pane, grazie ai carboidrati che contiene, rappresenta una fonte di energia e, unitamente alle fibre, proteine, vitamine non riesce, da solo, ma soprattutto nelle giuste quantità , a far aumentare di peso”.

Il Professor Rolando Alessio Bolognino (foto per gentile concessione del Professor Rolando Alessio Bolognino)

Sfatiamo anche un altro mito: il pane fa ingrassare, contrariamente ai prodotti industriali come cracker, grissini e gallette: A parità di peso questi alimenti contengono molte più calorie del pane, ma grazie al più basso contenuto di acqua, hanno nutrienti più concentrati. Inoltre, per renderli gradevoli, vengono aggiunti zuccheri e grassi che, invece, non si trovano nel pane”.

Mentre le gallette :” Sempre a  parità di peso presentano un valore energetico molto vicino a quello del pane, ma avendo un indice glicemico più alto, non sono raccomandate per tutti. Se vogliamo, però, consumarle, dovremmo preferire quelle con meno sale e più fibra”.

Anche il pangrattato, un derivato del pane molto usato nella cucina italiana, è meglio artigianale piuttosto che industriale :” Il pangrattato è semplicemente il risultato della macinazione di pane raffermo che viene sottoposto anche a tostatura prima del confezionamento. Se invece leggiamo l’etichetta di quello industriale possiamo notare come ci siano, tra gli ingredienti, anche olii vegetali e sale. E ricordiamoci che possiamo prepararlo anche noi a casa, macinando il pane raffermo.  Anche in questo caso dobbiamo prestare attenzione alla quantità”.

Quando si parla di pane è necessario, però, fare un distinguo tra i vari tipi che troviamo in commercio: ”Se associamo la parola pane a quella di benessere e salute, dobbiamo porre l’accento sulla necessità che si parli sempre e comunque di un prodotto di buona qualità: infatti possiamo affermare che se è preparato con farine di tipo integrale o ai multicereali, diventa persino un valido alleato per perdere peso e per contrastare diverse patologie”.

Differenti tipi di pane e differenti quantità di calorie :”Il pane bianco per 100 grammi apporta circa 265 calorie e fornisce 3,2 g di grassi, 49 g di carboidrati, 9 g di proteine, 30g di acqua, 491 mg di sodio, 115 mg di potassio, 2,7 g di fibra alimentare, 260 mg di calcio e percentuali più o meno consistenti di vitamina A e B6. Nel pane integrale, che presenta maggiore quantità di fibra alimentare e sali minerali, troviamo una minore quantità di grassi e le calorie sono inferiori”.

La quantità ideale  di pane da consumare risente di molti parametri :”Partiamo dal dire che l’apporto calorico giornaliero dovrebbe provenire tra il 45 e il 60% dai carboidrati. Dobbiamo però considerare lo stile di vita, l’attività fisica giornaliera, le patologie pregresse. I LARN raccomandano una porzione media di 50 grammi di pane, tenendo però presente che un soggetto in salute che pratica esercizio fisico quotidiano potrà consumarne di più, mentre un soggetto sedentario avrà bisogno di un quantitativo minore. E’ comunque buona regola evitare nello stesso pasto di consumare il pane con altri carboidrati per evitare i picchi glicemici”.

Mentre per i soggetti diabetici :” Sarebbe consigliabile il consumo di prodotti integrali, perché la fibra contenuta in tali alimenti rallenta l’assorbimento del glucosio, quindi i livelli di glicemia si alzano meno rapidamente. Ma se proprio non si vuole rinunciare al pane bianco, è necessario limitarne la quantità”.

Una curiosità sul pane raffermo :” E’ caratterizzato dalla presenza di una particolare forma di amido resistente, l’amido retrogrado, che si forma in quegli alimenti i quali,  una volta cotti, sono lasciati raffreddare. L’amido retrogrado non è facilmente attaccabile dagli enzimi digestivi, quindi non si avrà assorbimento di glucosio, e non si osserverà, di conseguenza, un aumento elevato della glicemia”.

 Coloro che soffrono invece di colon irritabile “: Dovrebbero evitare di consumare il pane integrale perché, contenendo più fibre, queste, dopo essere state fermentate dal microbiota intestinale, causano    gonfiore addominale e alterazioni nella consistenza e frequenza dell’alvo”.

Nonostante negli ultimi anni ci sia  stato un maggiore interesse verso altre tipologie di pane, che non sia il classico bianco od integrale, sono molte le farine, con proprie caratteristiche, a darci un prodotto che, da solo, è in grado di soddisfare stomaco e palato: “ A fare la differenza è la tipologia di grano usato. Tra i più noti spiccano il grano tenero, il cui nome scientifico è Triticum Aestivum  e il grano duro, Triticum durum. Il più usato nel campo della panificazione è il primo che, raffinato, dà vita alle farine di tipo 00, la 0, la 1, la 2 e l’integrale, in base alla quantità di fibra che rimane. Il grano duro serve per l’ottenimento della semola che, oltre ad essere ampiamente usata per la produzione della pasta, è anche l’ingrediente principe del famoso pane di Altamura. La farina di segale, che dà vita all’omonimo pane, scuro e con crosta più doppia, presenta  un contenuto di glutine leggermente inferiore rispetto alla farina di frumento, con una maggiore quantità  di sostanze minerali e fibre. Molto aromatica e con sentori di nocciola è la farina di farro, con un alto contenuto di glutine e con una maggiore quantità di proteine e minerali rispetto a quella di frumento”.

Il grano saraceno, invece :”Oltre a rientrare nella categoria dei grani pregiati, ha anche una bassissima concentrazione di glutine che ne aumenta la digeribilità, mentre il basso indice glicemico permette di tenere sotto controllo i livelli di insulina”.

Mentre i grani antichi :” Contengono percentuali di glutine inferiori a quelle dei grani moderni, risultano più digeribili ma l’impasto è meno elastico”.

Negli ultimi tempi si trovano altri tipi di pane, quali quelli di mais o di riso: “ Questi cereali  sono privi di glutine,  quindi  consigliati a chi non può consumarlo, come i celiaci. Ma proprio perché non  contengono glutine, queste farine  non sono particolarmente adatte alla lievitazione, per la bassa forza che hanno, quindi si otterranno dei prodotti che avranno delle caratteristiche organolettiche differenti rispetto al pane tradizionale, oltre anche a delle differenze nutrizionali”.

Sempre di recente e sempre più frequentemente si sente parlare di pane con lievito madre :” Il lievito madre presenta un numero maggiore di microrganismi che digeriscono un numero superiore di varietà di componenti della farina. Si chiama anche pasta acida perché crea un ambiente che favorisce la fermentazione lattica con produzione di acido lattico, conferendo un sapore caratteristico ai panificati che risultano anche  più facilmente digeribili

Mentre il tradizionale lievito di birra :” E’ caratterizzato da colonie di un fungo microscopico (Saccaromyves Cerevisiae), che vengono allevate e pressate allo stato fresco nei tipici panetti morbidi, ricchi fino al 70 per cento di umidità. Questi lieviti attivano la fermentazione alcolica una volta inseriti nell’impasto”

I lieviti chimici invece: “ Sono composti da una miscela di bicarbonato di sodio e acido tartarico, che rende i dolci soffici e porosi in un tempo brevissimo”. 

C’è un aspetto della farina del quale non sempre ne se parla, ma che è utile sapere perché ci aiuta a scegliere quella migliore per l’uso a cui è destinata :” La capacità di assorbire acqua e trattenere l’anidride carbonica che viene a formarsi durante le varie fasi della lavorazione, prende il nome di “forza della farina”. E tale caratteristica fa sì che più una farina è forte, più riesce a tenere bene la lievitazione. Pertanto le farine forti, ovvero quelle che hanno un indicatore di forza tra 320 e 260 W sono indicate per pane e pizza, quelle tra 250-190 W per la pasticceria mentre con un indicatore 180-190 sono le migliori per la preparazione di pasta frolla e biscotti”.

Di qualsiasi tipo esso sia, il pane rimane il principe della tavola, specie di quella mediterranea e recarsi dal fornaio tutti i giorni è anche un piacere, ma se non si ha questa possibilità e lo si acquista per tutta la settimana, ecco come conservarlo al meglio :” E’ necessario riporlo in un sacchetto di carta al fine di conservare meglio l’umidità, ancora meglio sarebbe riporlo in un’ulteriore sacchetto per alimenti di plastica, cosi da limitare l’evaporazione”

C’è chi, invece, acquistandolo in grandi quantità, preferisce congelarlo: “ Con il congelamento sicuramente aumenta il tempo di conservazione, ma andiamo ad alterare le caratteristiche organolettiche del pane, una volta scongelato la sua gradevolezza al gusto potrebbe essere modificata”.

Se, nonostante tutte le accortezze per conservarlo nel migliore de modi, dovessimo accorgersi della presenza di muffa :“ E’ buona norma non eliminare soltanto la parte ammuffita, ma gettare l’intero alimento, questo perché, anche se non visibile, la muffa potrebbe essere penetrata anche all’interno”.

                                       Alessandra Fiorilli

Merano si prepara a celebrare le sue tradizioni e il suo territorio con la “Traubenfest”, la “Festa dell’Uva”

Adagiata all’incrocio fra Val Passiria e Val Venosta, abbracciata dalle cime del Sud Tirolo, coccolata da un clima mite, Merano è stata, sin dal 1800, meta di una villeggiatura che apprezzava questo perfetto connubio tra l’ambiente montano e le temperature mediterranee.

Molti gli illustri ospiti della città che, vantando un’aria pulita e cristallina, sorge a 325 metri di altitudine: dall’imperatrice Sissi, la quale strinse con la città un legame d’amore profondo, allo scrittore Franz Kafka.

Gli ospiti che nel 1800 arrivavano dal Nord Europa trovavano a Merano un clima gradevole, anche durante la stagione invernale, il dolce fragore del fiume Passirio e le sue Terme, che ancora oggi sono l’emblema di una città a forte vocazione turistica.

Proprio sul finire del XIX secolo, precisamente nel 1886, il meranese Carl Wolf, Scrittore Autore e Regista Teatrale, ideò la “Festa dell’Uva”: “Non si conosce il motivo preciso di questa scelta. Possiamo presumere, però, che la decisione di Wolf fu dettata dal fatto che la stagione prettamente turistica finisse proprio nella seconda metà del mese di ottobre. Pertanto, per concludere degnamente tale periodo, pensò di organizzare una festa per celebrarlo e per onorare i frutti autunnali del territorio, quali le mele e l’uva”, ci dice Evi Kobald, responsabile di quest’appuntamento annuale così carico di valori simbolici per la città.

Particolare del Carro della Corona di Mele. (Per gentile concessione dell’Azienza di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

“Sin dal secolo XIX, le città a vocazione turistica come Merano, accoglievano i propri villeggianti dal periodo pasquale fino alla prima decade di ottobre che era, per questo motivo, considerato dai meranesi il culmine di quel periodo dell’anno chiamato “l’autunno d’oro”, per la ricchezza dei frutti che la terra donava”.

Un momento della sfilata (Per gentile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/Karhleinz Sollbauer)

Nonostante ormai Merano offra ai suoi turisti appuntamenti anche durante l’autunno inoltrato e l’inverno come: “Il WineFestival a Novembre e i mercatini di Natale che si snodano lungo il Passirio”, la Festa dell’Uva rimane un momento importante, non solo per la città di Merano, ma anche per le centinaia di migliaia di turisti che ogni anno rimangono incantati dalla sfilata.

Anche quest’anno, sabato 14 e domenica 15 ottobre, la città prediletta dalla Principessa Sissi, è pronta ad onorare, con questa festa, le sue più antiche tradizioni e quei prodotti che l’hanno resa famosa.

Quest’anno la due giorni di cultura, gastronomia e artigianato locale, si arricchirà di una novità: “Ospiteremo il 75° Anniversario dell’Associazione delle Bande musicali dell’Alto Adige che hanno già festeggiato queste “nozze di brillante” a Bolzano, lo scorso mese di maggio. A Merano si esibiranno le bande giovanili, nella mattina di domenica 15 ottobre, nelle tre piazze: Terrazza Kurhaus, Piazza Terme e Via Cassa di Risparmio. La città è lieta di accogliere questi giovani e ci piace pensare che, essendo loro il nostro futuro, saranno proprio loro i continuatori, negli anni a venire, delle tradizioni locali e dei valori”.

Le bande musicali che sfilano lungo il corteo: “Arrivano principalmente dall’Alto Adige e ricevono, ad inizio anno, la comunicazione e l’invito, mentre per la altre bande dal resto d’Italia, che chiedono di prendere parte all’evento, è prevista una valutazione della commissione incaricata la quale valuterà i costumi e il numero dei componenti: il gruppo deve essere di almeno 35-40 persone”.

Un particolare degli abiti di alcuni partecipanti (Per gentiile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

La Festa dell’Uva, che riempirà anche quest’anno le vie e le piazze di Merano con le sue musiche, gli abiti tradizionali, i cavalli, l’uva, le mele, richiede un grande impegno: Ad inizio anno si comincia a predisporre un calendario di massima, ma è dal mese di luglio che i lavori entrano nel vivo, grazie alla collaborazione tra le varie istituzioni e l’Azienda di Soggiorno della città”.

La passione e l’orgoglio della propria terra è tangibile durante tutta la sfilata del corteo che, lo scorso anno, ha richiamato: Circa 30000 turisti”.

Il momento culminante della festa è la sfilata dei due carri maggiormente rappresentativi: “Il carro della Corona di Mele fu realizzato per la prima volta nel 1949 ed è il più antico della Festa dell’Uva. E’conosciuto anche come il carro di Marlengo perché è proprio da questo paese situato su un pendio ad ovest di Merano, che arrivano le mele protagoniste assolute di questo carro dalle grandi dimensioni: lungo 5 metri e largo 2,20 metri, ha un peso di 2,3 tonnellate delle quali 500 chili sono dovuti proprio alle mele. A trainare il carro ci sono 4 cavalli guidati da persone esperte le quali devono aver conseguito un apposito patentino”.

Il secondo carro, presente alla sfilata dal 1951, è quello: “Dell’uva gigante, il Kundschafter, che arriva da Lagundo, paese ricco di vigneti e che si trova alle porte di Merano. E’ alto 4,5 metri, largo 1.60 e pesa circa mezza tonnellata. Il solo grappolo misura un metro e mezzo di altezza”.

Particolare del Carro dell’Uva (Per gentile concessione dell’Azienda di Soggiorno di Merano/ Karhleinz Sollbauer)

E se lo scorso anno: “Sono stati 45 gli elementi del corteo, quest’anno saranno ben 75”.  

La storica sfilata che, partendo da Porta Venosta, sfilerà per via delle Corse, corso Libertà Superiore, Passeggiata Lungo Passirio, Ponte Teatro, Piazza Terme e via Garibaldi, sarà solo il momento conclusivo di una due giorni di festa che avrà inizio sabato 14 ottobre, quando Merano accoglierà i turisti con mostre fotografiche e mercatini meranesi con prodotti alimentari regionali e artigianato locale.

Le tradizioni sono quel legame che uniscono, in unico nodo d’amore per il proprio territorio, il passato al futuro, passando per un presente che vuole celebrare le radici e gli antichi valori: è quello che accadrà a Merano sabato 14 e domenica 15 ottobre.

                                              Alessandra Fiorilli

Viaggio nel mondo dell’acqua: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Biologo nutrizionista e Ricercatore

L’acqua: non solo uno dei quattro elementi naturali, ma il simbolo stesso della vita.

Di questo fluido così essenziale per la sopravvivenza umana, gli scienziati sono andati alla ricerca anche in altri pianeti e la sua assenza o presenza nel sottosuolo è sempre stata legata alla famosa frase “C’è acqua, c’è vita”.

Di questo elemento così indispensabile ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.

  

       

L’acqua e l’uomo: un binomio inscindibile:” L’acqua è fondamentale per il corpo umano poiché svolge funzioni essenziali per la vita. Infatti, è necessaria per distribuire le sostanze nutritive nei vari distretti corporei e rimuovere i prodotti di scarto che derivano dai processi metabolici, espulsi tramite sudore e urine. In più, lubrifica le articolazioni attraverso la stimolazione della sintesi di liquido sinoviale e sostiene lo sviluppo del tessuto muscolare, ostacolando l’effetto catabolico del cortisolo (ormone dello stress). L’acqua è fondamentale anche per regolare la temperatura corporea e per garantire un corretto transito intestinale

A ogni età la sua quantità di acqua:  “Secondo i LARN, 800 ml è considerata un’assunzione adeguata per i neonati a partire dallo svezzamento, selezionando acque minimamente mineralizzate per non sovraccaricare i reni ancora non perfettamente sviluppati. Per i bambini che hanno raggiunto i 6 anni di età la quantità raddoppia, con l’indicazione a preferire un’acqua  medio minerale ricca in calcio, magnesio e fluoro per supportare le fasi di crescita. In età adolescenziale, 1900-2000 ml è la richiesta minima da soddisfare, scegliendo un’acqua medio minerale bicarbonato calcica e magnesiaca. L’apporto idrico di riferimento per gli uomini è di 2500 ml, mentre 2000 ml per le donne, optando in questo caso per un acqua oligominerale. In caso di gravidanza e allattamento il fabbisogno aumenta rispettivamente di 350 ml e 700 ml”

Bere solo quando si ha sete: un errore alquanto comune. Perché non bisogna attendere di avere la sensazione di sete? :”Beh, perché quando si registra lo stimolo della sete il nostro corpo ci sta inviando un segnale importante: il bilancio idrico è già in perdita! Un po’ come fosse un campanello di allarme, questa sensazione ci avverte che ci stiamo disidratando (ed infatti si inizia a percepire anche secchezza delle fauci). Proprio per questa ragione, occorre distribuire equamente nel corso dell’intera giornata la quantità di acqua necessaria per il nostro organismo, così da garantire in ogni momento un regolare apporto idrico. L’impulso che ci spinge a bere è regolato da un’area situata nell’ipotalamo (una struttura del sistema nervoso centrale, collocata tra i due emisferi cerebrali), chiamata centro della sete”.

Non sempre si beve la quantità necessaria di acqua nel corso della giornata e specialmente le persone anziane  tendono a bere meno di quanto occorrerebbe loro. Per quale motivo?

“Per un discorso di natura fisiologica: i sistemi di comunicazione dell’organismo perdono  efficienza col passare degli anni, per cui gli anziani non sempre avvertono la necessità di dissetarsi. In più, possono essere presenti ulcere in bocca oppure malattie a carico delle vie aeree superiori (come il mal di gola) che rendono la deglutizione dolorosa, oppure patologie come l’Alzheimer che possono compromettere la funzionalità dell’aerea ipotalamica deputata all’elaborazione dei segnali di sete”.

L’acqua corrente di casa  e quella potabile e sempre fresca delle fontanelle di una volta, poi l’avvento delle acque imbottigliate, quale è la scelta migliore? :” Per un discorso di tutela ambientale (oltre che di risparmio e comodità),  meglio l’acqua del rubinetto, a patto che se ne conosca la composizione! Innanzitutto, per essere definita potabile, deve avere delle particolari caratteristiche organolettiche (limpida, inodore, incolore ed insapore) oltre ad essere priva di contaminanti microbiologici e chimici. Spesso il problema non è l’acqua che scorre nell’acquedotto, ma quella che da quest’ultimo, attraverso tubature mal conservate, arriva dentro le abitazioni. Sarebbe opportuno, dunque,  farla analizzare prima di consumarla abitualmente e verificare che i livelli di sostanze usate a scopo disinfettante, come il cloro ad esempio, siano entro i limiti di legge”.

Sugli scaffali dei supermercati si trovano tantissime etichette tra le quali scegliere, ma in presenza di alcune patologie, anche benigne, c’è un tipo particolare di acqua da prediligere? :” Sicuramente in presenza di ipertensione il consiglio è quello di preferire un’acqua oligominerale ed iposodica, così da favorire un miglior controllo della pressione ematica.  In caso di calcoli renali, la più indicata è senza dubbio quella bicarbonato-calcica, in grado di ostacolare i processi di formazione di cristalli di acido urico e ossalati. Questo tipo di acqua è consigliata anche in presenza di gastrite, poiché tampona l’ eccessiva acidità dello stomaco causata da una più elevata secrezione di acido cloridrico. L’acqua solfata  facilita il ripristino del regolare transito intestinale ed è quindi indicata in caso di stitichezza, mentre quella calcica è assolutamente consigliata per i  soggetti con osteoporosi e osteopenia, considerando l’aumentato fabbisogno del minerale in questione”.

Bere in gran quantità durante i pasti è consigliabile? :”Meglio bere lontano dai pasti: oltre a diminuire l’efficienza dell’acido cloridrico, rallentando così la digestione, bere con abbondanza al pasto dilata lo stomaco, alterando il senso di pienezza e causando gonfiore addominale che ci accompagnerà per tutta la digestione. Beviamo con abbondanza nella giornata, mentre durante il pasto è meglio bere solo quando abbiamo sete”

Anche praticare attività fisica richiede un apporto della giusta quantità di acqua:

“Innanzitutto, in caso di attività fisica è preferibile bere sia prima che durante la sessione di allenamento, così da compensare nell’immediato la perdita di acqua attraverso la sudorazione (una disidratazione del 2% può già compromettere l’esito della performance sportiva). Per gli sportivi si consiglia di aggiungere al fabbisogno idrico raccomandato per la propria fascia di età specifica circa 150-300 ml di acqua per ogni 20 min di esercizio fisico svolto, preferibilmente medio minerale per reintegrare i Sali persi con la sudorazione”.

Bere molta acqua prima di coricarsi la sera, invece, non può essere considerata una scelta ottimale:” L’acqua prima di andare a dormire francamente la eviterei per non doversi alzare durante la notte interrompendo il sonno e alterando la produzione di melatonina. Da dopo le 18.00 meglio bere solo se si ha sete. Al risveglio, invece un bicchiere di acqua tiepida, magari con l’aggiunta di un limone spremuto, è un aiuto per la regolarità intestinale per quelle persone che hanno l’intestino pigro”

Acqua ghiacciata: per alcuni specie d’estate, è un’abitudine alla quale è difficile riuscire a rinunciare, anche se, come afferma il Professor Bolognino: La digestione prevede un afflusso di sangue a stomaco ed intestino, e quando si consuma acqua ghiacciata (lo stesso discorso vale per un alimento freddo) si innesca un meccanismo di vasocostrizione, alterando la capacità digestiva dello stomaco. È così che questo shock termico causa la classica congestione. Se preferiamo bere un po’ di acqua fresca, meglio tirarla fuori dal frigo un quarto d’ora prima di consumarla!”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio  Bolognino il quale, grazie al suo linguaggio asciutto ma efficace, tecnico ma comprensibile a tutti, ci regala sempre un’angolazione scientifica dalla quale poter vedere aspetti quotidiani del mondo dell’alimentazione e dello star bene.

                                 Alessandra Fiorilli

L’importanza della prima colazione: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

Gli Italiani e la prima colazione: chi la consuma velocemente a casa, chi preferisce farla al bar con il classico cappuccino e cornetto, chi arriva sino all’ora di pranzo  solo con il tradizionale caffè mattutino, chi invece, non rinuncia ad una colazione ben equilibrata che permette di sedersi a tavola all’una, senza il morso della fame che porta a mangiare molto di più del dovuto.

All’interno di questo scenario così variegato, abbiamo avvertito l’esigenza di far luce sulla prima colazione, su quali alimenti prediligere, sul ruolo che riveste per una sana ed equilibrata alimentazione e ne abbiamo parlato con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.    

        

In molti forse lo ignorano, ma il primo pasto della giornata riveste una grande importanza : La colazione è fondamentale, perché al momento del risveglio è necessario fare il pieno di energie e rimettere in moto il metabolismo corporeo, in funzione anche delle attività previste dopo la pausa notturna quando si verifica un calo dei livelli metabolici di tutto il corpo.  Dedicare del tempo alla prima colazione significa avere un risveglio sereno e gratificante. Inoltre, moltissimi studi dimostrano che c’è una correlazione tra la condizione di sovrappeso/obesità e l’abitudine a saltare la colazione. Una prima colazione sana e nutriente contribuisce a stimolare e ad accelerare il metabolismo”.

Al mattino non si dovrebbe essere né eccessivamente parchi nelle calorie né abbondarne eccessivamente: Il nostro organismo ha bisogno di energia, per funzionare. Al mattino, dopo una notte di riposo, il momento in cui abbiamo consumato la cena è passato da almeno 10-12 ore e dobbiamo rifornire il corpo di nutrienti. Stando al documento sulla prima colazione co-firmato da SINU e SISA (rispettivamente, Società Italiana di Nutrizione Umana e Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione), una colazione adeguata dovrebbe fornire una quota di energia compresa tra il 15 e il 25% del totale quotidiano”.

Come e quanto le proteine, i carboidrati e i grassi dovrebbero essere presenti in percentuali nella prima colazione? :”Naturalmente ci sono differenze soggettive da tenere in considerazione, e dipende anche da che colazione scegliamo …se dolce o salata. In linea di massima, la condizione ottimale sarebbe assumere i macronutrienti in modo equilibrato, quasi ricalcando la suddivisione giornaliera, e far corrispondere i carboidrati al 45-60%, le proteine attorno al 15-20% e i grassi compresi tra il 20% e il 35%, facendo il pieno di vitamine e minerali. Ciò che conta, però, è il bilancio giornaliero e settimanale, dunque è possibile anche discostarsi da tali valori che sono del tutto indicativi. Occorre sempre prestare attenzione alla qualità dei macronutrienti introdotti, che può invece fare la differenza durante la mattinata nella regolazione della glicemia, parametro che influisce sul controllo della fame e dei metabolismi energetici dell’organismo”

Eppure, ancor oggi, sono in molti a saltare la prima colazione:” Spesso si tende a saltare questo pasto per assecondare i ritmi frenetici della vita moderna.  Consiglio di non andare di corsa nel momento della colazione, impariamo a far partire la giornata con calma. Chi prende solo un caffè e scappa al lavoro a che giornata stressante va incontro? Per di più, l’assunzione di bevande nervine (come lo è il caffè) senza alcun cibo solido potrebbe irritare il tratto digerente e favorire, nel lungo periodo, l’insorgenza di reflusso gastroesofageo. Come per qualsiasi pasto se mangiamo male e ripetiamo l’errore spesso questo avrà ripercussioni sulla salute”.

Alcuni ritengono che l’età sia  un fattore per spingerci a capire se sia più importante o meno, ritendendo, ad esempio, che per i bambini sia più indispensabile che per gli  adulti  :” La colazione è indispensabile a qualsiasi età! Certamente la colazione di un bambino o di un ragazzo che deve crescere e deve immagazzinare per ore le nozioni scolastiche sarà diversa da quella della persona anziana, che può alzarsi con calma e ha ritmi giornalieri sicuramente più tranquilli e meno dispendiosi da un punto di vista energetico. Nel primo caso la colazione sarà sicuramente più incentrata sui carboidrati, energie  a veloce e lento rilascio a seconda della forma degli zuccheri che vengono consumati e dei grassi perché servono tante energie. La colazione di una persona anziana dovrà soprattutto non far mancare le proteine, che, fin dalla prima colazione, possono aiutarlo a prevenire o rallentare il processo di sarcopenia, la  fisiologica perdita di massa magra che diventa sempre più evidente con il trascorre degli anni. Per l’adulto la sana via di mezzo tra le due colazioni è ottimale”.

Italia è sinonimo di “colazione dolce”, ovvero caffè o cappuccino con cornetto o prodotti da formo, thè e biscotti. Ma cosa è meglio prediligere? :” La colazione dolce è meglio farla con gli zuccheri giusti: cereali integrali, marmellate senza zucchero aggiunto o composte, il miele, la frutta da mangiare, spremere o centrifugare. Ciò a cui invece dobbiamo prestare attenzione  sono le merendine , i biscotti, le creme spalmabili, i succhi di frutta, lo zucchero che utilizziamo per dolcificare tè, caffè, tisane. Questi zuccheri sono qualitativamente peggiori rispetto ai precedenti. Ma per entrambi vale sempre la moderazione. Anche lo zucchero migliore preso in quantità eccessivo è comunque dannoso. L’indicazione è “meglio una punta in meno che in più”! Al dolce ci si abitua, ma ci si può anche disintossicare (ricordiamo che gli zuccheri possono provocare dipendenza!). Naturalmente questo vale per lo zucchero che possiamo controllare noi , mentre per i prodotti che acquistiamo è importante scegliere quelli giusti. Cosa controllare in etichetta? Che tipi di zucchero ci sono e quanti sono! Oltre al comune saccarosio, zucchero bianco, gli zuccheri possono essere presenti con tanti altri nomi, per esempio, sciroppo di glucosio-fruttosio, maltosio, destrosio, sciroppo di mais, o di riso. Possono essere naturali o artificiali, come aspartame, sucralosio e ciclammati.
Ricordate: un prodotto è migliore se è composto da pochi ingredienti.

La colazione salata, che invece è preferita dagli stranieri, gli italiani tendono a consumarla spesso quando sono in albergo, dove si trova un’ampia scelta di formaggi, pani, affettati, uova :”Nella colazione salata viene mantenuto un moderato apporto di carboidrati complessi, associati ad una quota più consistente di alimenti proteici e grassi. Il pane, meglio se integrale e tostato, è una buona base solitamente presente nella colazione salata…e quindi ottima fonte di carboidrati. Eccellenti scelte proteiche sono la ricotta di mucca, il salmone, l’uovo , il prosciutto crudo. Infine l’olio di oliva e i semi oleosi rappresentano il giusto modo di bilanciare la colazione anche con i grassi.

Proprio come per le scelte dolci, anche per quelle salate dobbiamo prestare attenzione nella selezione degli alimenti da portare a tavola: intanto il sale non va demonizzato e al mattino chi soffre di pressione bassa nella colazione salata trova un aiuto anche migliore rispetto a quella dolce. Detto ciò, il mio consiglio è cercare di limitare il sale il più possibile, ne consumiamo sicuramente troppo e ciò può condurre a ipertensione arteriosa e, di conseguenza, provocare ictus, aneurismi, infarti e insufficienze cardiache. Il rischio nella colazione salata è di eccedere non solo con il sale,  ma soprattutto con le proteine ed i grassi. Quindi , a parte ricordarci che siamo a colazione e non a pranzo, non esageriamo con gli affettati, scegliamo quelli più magri e evitiamo di mischiare vari scelte proteiche”

Frutta e prima colazione è un binomio al quale spesso, erroneamente,  non si dà la giusta importanza al momento della prima colazione: “ La frutta, data la presenza di zuccheri semplici, è preferibile consumarla a colazione oppure negli spuntini della giornata: al termine dei pasti di pranzo e cena, potrebbe interferire con la regolazione della glicemia post-prandiale oltre a dare origine a fenomeni fermentativi, dato che sono generalmente pasti più ricchi dal punto di vista nutrizionale. Mele, pere, kiwi, ananas, mirtilli, ribes, lamponi costituiscono un’ottima scelta per concludere la colazione pulendo la bocca con l’acidità che la contraddistingue, e ricaricano l’organismo di vitamine e Sali minerali”.

In vacanza, si sa, si tende a concedersi qualche peccato di gola in più, compreso, il famoso uova e bacon. Nel caso in cui in albergo si decida di consumare questo piatto, come deve essere poi il pranzo?:”  La colazione con le uova, magari rosolate al burro, con il bacon, o peggio con le salsicce, è veramente troppo sbilanciata per la quantità e la qualità dei grassi per diventare la colazione di tutti i giorni… anche se siamo in vacanza! Quando ce la concediamo, dunque come eccezione e non come regola, è bene che il pranzo sia più moderato e dovrà prevedere una buona quota di verdure, preferibilmente sia cotte che crude, accompagnata da fonti di carboidrati complessi, come pane tostato, pasta o riso integrale, così da compensare lo sbilanciamento della quota proteica e di grassi della colazione! Come già affermato in precedenza, è sempre il rapporto dei nutrienti assunti nella giornata a dover essere rispettato”.

Sono in molti a scegliere come prima colazione cappuccino e brioche: :” Sicuramente il cappuccino non costituisce un’opzione valida come prima colazione, specialmente se questa scelta  viene compiuta quotidianamente. Il latte vaccino contiene proteine sieriche insulinotropiche (stimolano la produzione di insulina), mentre la caseina induce la sintesi di IGF-1, fattore di crescita potenzialmente correlato a patologie oncologiche. Con le alte temperature impiegate nei processi di pastorizzazione, inoltre, la caseina si degrada fino a diventare una sostanza colloidale insolubile, che altera la permeabilità intestinale. Anche per formare la schiuma del cappuccino, che tanto piace ai nostri ragazzi, il latte  viene sottoposto ad un ulteriore processo termico! Quindi no, il cappuccino non può essere considerato una scelta ottimale per la colazione, perché insufficiente dal punto di vista nutrizionale sia qualitativo che quantitativo, ma un’eccezione golosa da gustare ogni tanto, magari accompagnato da una brioches…anche perché chi lo mangia tutti i giorni lo fa oramai in maniera automatica e distratta, come fosse una forma di dipendenza e con molta meno gioia di un consumo saltuario”.

Ringrazio il Professor Bolognino il quale anche questa volta, ci ha aiutato a comprendere, in maniera semplice ma efficace, quanto sia importante assegnare alla prima colazione il ruolo che le spetta nel quadro di un’alimentazione sana ed equilibrata.

                                                Alessandra Fiorilli

I cibi della salute: intervista al Professor Rolando Alessio Bolognino

La salute passa anche per la tavola: vediamo con il Professor  Rolando Alessio Bolognino, quali sono i cibi alleati del nostro benessere e quali regole seguire dopo gli “stravizi”, che possono seguire sia il periodo delle festività, sia una serie di pranzi e cene più abbondanti del solito e consumati in un tempo molto ravvicinato tra loro.

Sicuramente i caposaldi della dieta mediterranea rappresentano la miglior “medicina” per ridurre l’uso di farmaci. E’ necessario approfondire quelli che sono i consigli comuni, i detti popolari e le false credenze, conoscendo bene i pilastri della dieta più antica del mondo e che benefici apporta”.

Inizia così l’intervista al Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.     

    
 

Tra gli alimenti tipici dell’area mediterranea e che merita un posto privilegiato, figura il pesce azzurro:” L’espressione “pesce azzurro” è meramente commerciale, non scientifica, ed è utilizzata con riferimento ad una categoria eterogenea di prodotti ittici, che non comprende una sola specie, ma tutti i pesci con una colorazione del dorso che va dall’azzurro al verdastro, con il corpo affusolato, allungato, e caratterizzato dall’assenza di squame. Dal punto di vista nutrizionale, oltre a fornire proteine ad alto valore biologico, si contraddistinguono per l’elevata presenza di omega-3, in particolare EPA e DHA, definiti essenziali in quanto l’organismo umano non è in grado di sintetizzarli. Ci riferiamo dunque  a sgombro, aguglia, alaccia, acciuga, lanzardo, palamita, cheppia. Sono considerati azzurri anche il tonnetto, il pesce spada e il salmone, per la ricchezza in omega-3. È fondamentale mantenere un rapporto ottimale tra omega-3 e omega-6 in quanto tale relazione costituisce un fattore di primaria importanza nella regolazione dei processi infiammatori dell’organismo: nella dieta occidentale è fortemente sbilanciato verso i primi, attestandosi su 10:1, mentre le linee guida suggeriscono di consumare per ogni g di omega-3, circa il quadruplo di omega-6. La modalità di cottura cui si sottopone il pesce è fondamentale per garantirne il mantenimento delle proprietà. Prediligere basse temperature o il consumo a crudo, sotto forma di tartare. Con la cottura, infatti, gli acidi grassi tendono a cambiare conformazione chimica attraverso processi di ossidazione e vengono prodotti composti  volatili dannosi, i lipoperossidi, che causano la perdita delle proprietà benefiche appena decantate.  Naturalmente, nella scelta del pesce azzurro è bene preferire quello delle nostre coste, dunque italiane, se possibile optando proprio per quello locale. È importante anche fare attenzione alle modalità di allevamento, che inevitabilmente incidono sulle qualità nutrizionali del prodotto. Un pesce selvatico è libero di muoversi, dunque svilupperà più muscolatura rispetto ad un pesce di allevamento, che ha a disposizione meno spazio in cui nuotare…L’apporto di grassi di quest’ultimo sarà inevitabilmente maggiore (visivamente si riconosce, ad esempio nel caso del salmone, nella marezzatura più consistente e spessa)! Naturalmente i benefici del pesce azzurro non si limitano alla presenza di grassi qualitativamente migliori, ma anche alla concentrazione di micronutrienti come lo iodio, che supporta la funzionalità tiroidea, e molecole antiossidanti, come l’astaxantina, carotenoide ad attività antiossidante di gran lunga superiore a quella della vitamina E. E’ considerato anche una buona fonte di vitamina D, necessaria per garantire la salute dell’apparato scheletrico. Come per altri alimenti, anche il consumo  di pesce azzurro non è adatto a tutti, poiché, data la ricchezza in purine,  non è indicato per i soggetti che soffrono di   iperuricemia”.

L’alimento principe della dieta mediterranea è indubbiamente  l’olio extravergine d’oliva :“Conosciuto anche come “l’oro liquido” della dieta Mediterranea, l’olio evo rappresenta una fonte di nutrienti di prima qualità. Si caratterizza per un maggior apporto di grassi insaturi (in particolare l’acido oleico),  i quali sono in grado di modulare i livelli di colesterolo ematico, aumentando la frazione cardioprotettiva HDL.  Tra i vari polifenoli presenti, la presenza di secoroidi garantisce proprietà antitumorali: stimolano la produzione di radicali liberi causando l’autofagia delle cellule del cancro alla mammella. L’oleuropeina, invece, possiede proprietà antinfiammatorie: diminuisce l’espressione di una particolare classe di molecole (leucotrieni B4), agendo in prevenzione delle patologie neurologiche e cardiovascolari. Meno diffuso ma altrettanto ricco di nutrienti è l’olio di canapa, una delle principali fonti di acido alfa-linonelico. Un cucchiaio di olio di lino può soddisfare il fabbisogno giornaliero di omega-3 dall’organismo, ma comunque non può sostituire l’apporto di pesce azzurro, in quanto EPA e DHA non sono adeguatamente rappresentati. Il rapporto tra omega-3 ed omega-6 diventa ancor più ottimale nell’olio di lino, anch’esso un concentrato di molecole antiossidanti e antinfiammatorie. La ricchezza in acidi grassi essenziali (gli omega 3 per l’appunto) rende questi due tipi di olio particolarmente utili nei regimi alimentari ipocalorici, in quanto stimolano l’organo epatico nelle funzioni di disintossicazione, e in presenza di patologie cardiovascolari. Per tutti i tipi di olio nominati, se ne consiglia il consumo a crudo per evitare che si disperdano tutti i benefici elencati poco fa. Nonostante le innumerevoli proprietà dell’olio evo, ma anche di quello di canapa e lino, non occorre dimenticare che sono pur sempre cibi ad elevato tenore lipidico (9 Kcal per g), pertanto in caso di sovrappeso e obesità è bene regolarne finemente il consumo”.

Le verdure, apportatrici di fibra, ricchissime di vitamine e Sali minerali, non sono, però, tutte uguali :”La famiglia delle brassicacee, cioè cavolo rosso, verde, bianco, cavolfiore, verza e tanti altri…non possono di certo mancare sulle nostre tavole in quanto costituiscono una miniera di sali minerali e vitamine (specialmente la vitamina C).  Questa famiglia di vegetali contiene una particolare classe di composti chimici, chiamati glucosinolati, i quali vengono convertiti a forma attiva (isotiocianati) in seguito a traumi meccanici (ad esempio quando vengono tagliati con il coltello, o attraverso la masticazione) mediante l’attivazione dell’enzima mirosinasi. Anche una flora microbica in salute è necessaria per godere dei benefici dei glucosinolati, in quanto i microrganismi simbiotici sono in grado di produrre questo stesso enzima che li converte in forma attiva. Per intenderci meglio, tali composti sono gli stessi che provocano quel forte odore sprigionato in seguito alla cottura di questi vegetali! Tra tutti, il più noto è senza dubbio il sulforafano. I benefici di questa molecola ad azione biologica si rivelano efficaci soprattutto in ambito oncologico, specifico per i casi di tumore al colon, seno e prostata, mediante l’inibizione del processo di angiogenesi (formazione di nuovi vasi sanguigni) e di metastatizzazione (migrazione delle cellule tumorali). La cottura delle brassicacee può causare l’inattivazione parziale o totale di dei principi attivi, pertanto il consumo a crudo attraverso centrifughe è da preferire. In alternativa è bene scegliere modalità di preparazione che non prevedono temperature elevate, come nel caso della cottura a vaporeSe si segue una terapia con anticoagulanti è bene evitare il consumo di brassicacee, in quanto, potrebbero interferire con l’efficacia del farmaco, mentre nei soggetti che soffrono di colon irritabile potrebbero causare l’insorgenza di coliche e dar luogo ad eccessiva fermentazione causando forte tensione addominale. In presenza di ipotiroidismo, invece, è bene limitarne il consumo da crude in quanto i prodotti di idrolisi dei glucosinolati possiedono caratteristiche anti-gozzigene, ostacolando la captazione di iodio per la formazione degli ormoni tiroidei”.

Noci, mandorle, pinoli, nocciole, pistacchi, ovvero la famiglia dei semi oleosi, è molto vasta, vediamo quali sono i benefici che possono apportare e chi dovrebbe consumarli con moderazione. :”Possiedono spiccate proprietà antiossidanti, garantite dalla presenza di quercetina, campferolo e miricetina Tali polifenoli svolgono un’importante azione cardioprotettiva. Apportano notevoli quantità di minerali, in particolare ferro, zinco e calcio. Proprio il calcio, poi, risulta essere addirittura più biodisponibile di quello contenuto nel latte! Il profilo lipidico, invece, si distingue per la presenza di omega-3, linea di acidi grassi che, oltre ad essere in grado di modulare l’ infiammazione dell’organismo, ostacola l’aggregazione piastrinica e mantiene sotto controllo i livelli di colesterolemia. Ben vengano quindi mandorle, noci, nocciole, pistacchi, pinoli… non nomino le arachidi perché secondo la classificazione botanica rientrano nella famiglia delle leguminose, anche se per i loro valori nutrizionali sono paragonabili ai semi oleosi! Occorre sempre tenere a mente che sono alimenti ad elevata densità calorica, pertanto occorre non eccedere con il loro consumo. Tra tutti, le noci di macadamia possiedono il quantitativo maggiore di acidi grassi monoinsaturi, una concentrazione paragonabile a quella dell’olio evo. Ricordiamo anche i semi di chia e di papavero, che possono essere aggiunti alle nostre insalate per conferire croccantezza e sapidità senza aumentare l’apporto calorico del pasto, dato che vengono generalmente impiegati in una quantità inferiore rispetto agli altri tipi di semi oleosi. Attenzione al loro consumo in presenza di reflusso, in quanto stimolano la produzione di un ormone (colecistochinina) ad azione rilassante che agisce a livello dello sfintere esofageo inferiore, facilitando la risalita di materiale gastrico”

Dopo un periodo di stravizi, la prima cosa a cui si pensa è di eliminare i carboidrati:” Possiamo dire che è indubbiamente preferibile il consumo della pasta integrale in quanto, non subendo il processo di raffinazione, i cereali conservano il germe e la crusca (la parte più esterna). Caratterizzandosi per un maggior quantitativo di fibra, possiedono un indice glicemico più basso. Ciò li rende particolarmente indicati in presenza di diabete e nei regimi ipocalorici,  in quanto migliorano il controllo delle sensazioni di fame-sazietà. La presenza di beta-glucani fornisce un’arma per contrastare l’insorgenza di ipercolesterolemia. Il mantenimento della struttura integra del chicco permette inoltre di conservarne anche la sua ricchezza in micronutrienti, specialmente in termini di vitamine del gruppo B e vitamina E, oltre a zinco, potassio e selenio. Al momento dell’acquisto, è bene fare attenzione a ciò che è riportato nell’etichetta nutrizionale: diffidate dal falso integrale, riconoscibile dalla presenza di farine raffinate (farina 00) con l’aggiunta di crusca, dunque spogliate dalla vera parte nutritiva che è il germe. Menzione speciale meritano i grani antichi (Verna, Gentil rosso, Senatore Cappelli,..), che non hanno subito alcun intervento di ingegneria genetica per migliorare la resa ed aumentare la resistenza ai microrganismi, ma sono rimasti autentici, col vantaggio di avere un sapore più genuino ed un tipo di glutine qualitativamente migliore (a livello intestinale non si disgrega e non crea infiammazione, a differenza dei grani moderni).  Anche nel caso dell’integrale, occorre fare delle precisazioni: è bene limitarlo sia in presenza di iperuricemia che in caso di reflusso. Naturalmente, il maggior apporto di fibra li rende poco indicati anche in presenza di sindrome del colon irritabile”.

Inverno è sinonimo di agrumi, ricchissimi in vitamina C:”  Non solo mandarini, arance, pompelmi che più comunemente possiamo trovare tra i banchi del mercato o del supermercato, ma anche il mapo, il limone caviale, la mano di Budda, il kumquat, di sicuro più rari, ma con le medesime proprietà dei primi nominati. Nei mesi invernali costituiscono una vera e propria arma contro le infezioni batteriche e virali, in quanto presentano un’elevata di concentrazione di vitamina C, o acido ascorbico, in grado di rafforzare le difese immunitarie. Se nell’immaginario collettivo la spremuta di arance rappresenta la panacea di tutti i mali, è bene consumarla non appena aver spremuto gli agrumi. La vitamina C è fotosensibile, pertanto viene degradata se resta a lungo nel bicchiere! In merito all’acido ascorbico, occorre anche ricordare la sua capacità di aumentare la biodisponibilità del ferro, rendendolo più assorbibile… se siamo una condizione in cui il fabbisogno del minerale è aumentato (ad esempio in caso di anemia, gravidanza, ecc), meglio condire la nostra fetta di carne o la nostra porzione di spinaci con del succo di limone! Tra i vari tipi di agrumi, senza dubbio le arance  sono quelle maggiormente ricche in antiossidanti, contrastando il fenomeno di stress cellulare che causa l’invecchiamento cellulare. Esperidina e Naringina sono presenti in concentrazioni maggiori, ed il loro contenuto decresce con l’aumentare delle dimensioni del frutto”.

Dopo aver esagerato a tavola, ci si domanda spesso come ripartire al meglio e in salute: “ Direi sicuramente dall’acqua, che è un alimento a tutti gli effetti, ed è fondamentale per garantire il regolare svolgimento di funzioni fisiologiche dell’organismo! Interviene nella termoregolazione corporea, distribuisce le sostanze nutritive nei distretti del corpo rimuovendo le sostanze di scarto, assieme alla fibra contribuisce a regolarizzare il transito intestinale, garantisce la corretta idratazione dei dischi intervertebrali… quindi se non beviamo una quantità sufficiente di acqua, la tendenza fisiologica alla diminuzione della nostra altezza a cui si assiste con il passare degli anni sarà accentuata! Il fabbisogno idrico varia in funzione della fascia di età considerata: per i neonati si attesta sugli 800 ml/die, assunti soprattutto mediante il consumo di latte materno; per i bambini di età compresa tra 1 e 6 anni nell’intervallo 1.200-1.600 ml/die; fino ai 10 anni occorre raggiungere 1.800 ml/die; per ragazzi di età superiore e per gli adulti un introito adeguato di acqua corrisponde a circa 2.100 -2.500 ml/die. L’offerta di acque al supermercato è davvero vasta, e ciascun tipo si differenzia dall’altro per specifiche caratteristiche. In base al residuo fisso, ovvero alla quantità di Sali disciolti, vengono suddivise in differenti classi. Le minimamente mineralizzate  (RF<50 mg/L) favoriscono la diuresi e sono particolarmente indicate per i soggetti che soffrono di calcolosi renale e in caso di regimi dietetici; le oligominerali (50 mg/L < RF<500 mg/L) sono acque iposodiche, da tavola, e possono essere consumate liberamente da tutta la famiglia nell’intera giornata; le acque minerali (500 mg/L < RF<1500 mg/L)  hanno una maggior ricchezza in Sali, che le rende particolarmente indicate per gli sportivi, per gli anziani, per i ragazzi e le donne in gravidanza, e in base alla quantità di sale predominante possono essere distinte in acque calciche, ferruginose, bicarbonate, solfate..; le fortemente mineralizzate (RF<1500 mg/L) sono invece acque ad uso terapeutico, da consumare su prescrizione medica. Ad ognuno la sua acqua! Ad esempio, per i soggetti che soffrono di reflusso un’acqua bicarbonata è più indicata per tamponare l’acidità gastrica.

 E’ sempre con grande piacere ospitare sulle pagine del giornale “EmozionAmici” il Professor Rolando Alessio Bolognino, il quale con il suo linguaggio semplice, diretto ed efficace riesce a rendere accessibili temi scientifici che hanno un impatto nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

                                Alessandra Fiorilli

Iperuricemia: una condizione clinica dovuta sia a cause di natura genetica che ad un’errata alimentazione. Qual è la dieta migliore da seguire : ce ne parla il Professor Rolando Alessio Bolognino

Talvolta di alcune patologie si conosce solo quello che è l’aspetto clinico più manifesto, di cui la gente parla e si lamenta.

E’ il caso dell’iperuricemia, ovvero :” Una condizione clinica caratterizzata da una concentrazione ematica di acido urico superiore ai range fisiologici, fissati a 7 mg/dl per il sesso maschile e 6,5 mg/dl per quello femminili”, come ci dice il Professor Rolando Alessio Bolognino il  Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.    

       

Quando la concentrazione dell’acido urico è molto elevata, si manifesta la “gotta”, patologia molto nota, conosciuta sin dai tempi antiche per essere molto fastidiosa e, in casi rari, anche invalidante.

Insieme al Professor Bolognino facciamo luce su questa patologia che ha cause sia genetiche che legate ad un’errata alimentazione, mettendo in evidenza come anche e, soprattutto in questo caso, una corretta dieta possa aiutare molto nella gestione di tale patologia, causata, come già detto sopra, dalla concentrazione, oltre il range fisiologico,  di acido urico :” Sostanza, questa, che  è un prodotto di scarto la quale si  origina dal metabolismo delle proteine, in seguito a scissione delle purine (costituenti di DNA e RNA).  Superati i  9 mg/dl, si procede con una terapia farmacologica adeguata come l’allopurinolo, il farmaco più comunemente impiegato, in grado di inibire l’enzima responsabile della produzione endogena di acido urico che,  in concentrazioni elevate,   si cristallizza e si deposita a livello delle articolazioni causando,  nel lungo termine, la gotta, ovvero una forma di artrite infiammatoria che si distingue per l’insorgenza di forti dolori e masse nodulari (tofi gottosi). Le conseguenze dell’iperuricemia si registrano anche a carico dei reni in forma di uropatia ostruttiva: i cristalli di urato possono condurre alla formazioni di calcoli e dolorosissime coliche. Le più recenti evidenze scientifiche, inoltre, riconoscono tra le conseguenze dell’iperuricemia anche l’ipertensione arteriosa”.
L’iperuricemia ha varie cause:
Circa il 70% dei casi può essere ricondotto a cause di natura genetica (sono stati individuati circa 27 geni associati a tale condizione clinica). Si parla, in questo caso, di iperuricemia primitiva, determinata da un’eccessiva produzione endogena di purine, degradate poi ad acido urico. L’iperuricemia può essere dovuta anche ad una diminuzione dell’escrezione di urato. Sono stati identificati differenti polimorfismi per il gene codificante per il trasportatore renale di acido urico, che possono quindi determinarne una concentrazione ematica elevata in quanto l’organismo non riesce ad eliminare l’urato per mezzo delle urine. Resta poi un 30% di casi in cui è l’alimentazione a determinare l’insorgenza di tale patologia”.

Come per altre condizioni cliniche, anche per l’iperuricemia la dieta riveste un ruolo molto importante, specie nella prevenzione di tale patologia: “La dieta, come abbiamo poco fa anticipato, è in grado di influenzare i livelli di acido urico nel sangue. Innanzitutto, occorre moderare il consumo di alimenti proteici, in quanto apportano notevoli quantità di purine. Attenzione, dunque, a quelle che sono le più diffuse strategie nutrizionali che promettono una rapida perdita di peso, come nel caso delle diete iperproteiche! Anche un approccio di tipo chetogenico può influenzare la concentrazione di acido urico nel sangue, poiché i chetoni competono con l’urato per essere escreti dal rene. Altro nutriente che può influenzare i valori di uricemia è il fruttosio: nonostante non contenga basi puriniche, è in grado di indurre la degradazione dell’ATP, molecola di scambio energetico dell’organismo, in acido urico. Una precisazione è d’obbligo: l’invito non è quello di diminuire il consumo di frutta (in rapporto al volume, la quantità di fruttosio in una mela o in una banana è davvero minimo), bensì occorre limitare l’apporto di dolci e soft drinks (il saccarosio, lo zucchero bianco per intenderci, è composto per il 50% da fruttosio!). Anche un adeguato stato di idratazione costituisce una buona pratica di prevenzione, in quanto una diuresi regolare consente di controllare i livelli di acido urico, espulso attraverso le urine.Esiste una categoria di soggetti  che più degli altri sono soggetti al rischio di soffrire di iperuricemia:
Chi soffre di nefropatie caratterizzate da una scarsa velocità di filtrazione glomerulare è naturalmente più soggetto allo sviluppo di iperuricemia se segue una dieta sbilanciata, in quanto la capacità di escrezione dell’ urato è ridotta. In caso di patologie ematologiche, come ad esempio i linfomi, oppure nel caso di trattamenti chemio e radio terapici, vi è un elevato tasso di turnover nucleoproteico (come abbiamo già detto, le purine compongono il nostro DNA!), pertanto se i soggetti non sono seguiti da un punto di vista nutrizionale si può assistere ad un aumento di acido urico. Naturalmente, poi, in presenza di familiarità per iperuricemia è bene la cura delle proprie abitudini alimentari è d’obbligo!”.
Ci sono cibi da limitare in presenza di tale condizione clinica?:
“È il contenuto di purine a dircelo! Pollame e carni bianche (come il vitello o il maiale magro), affettati magri e molluschi ne hanno un contenuto intermedio, che non supera i 150 mg per 100 g di prodotto e sono quindi da limitare. Tra i vegetali, occorre ridurre asparagi, cavolfiori, spinaci, funghi, assieme a lenticchie, fagioli e piselli e ai cereali integrali. In questo caso vige la regola del buonsenso: tali alimenti possono essere assunti con una frequenza ridotta e in quantità contenute”.

E quali, invece, i  cibi, invece, da evitare?:”  Gli alcolici senza alcun dubbio (in particolar modo la birra, a maggior contenuto di purine), in quanto l’etanolo impedisce l’eliminazione di urato da parte dei tubuli renali, e le bevande zuccherate per i motivi descritti poco fa. Nel mondo animale, si consiglia di evitare fegato e frattaglie, oltre al pesce azzurro (dunque acciughe, aringhe, sardine, sgombro) e frutti di mare. Non a caso, in passato, l’iperuricemia era conosciuta come la malattia dei ricchi, proprio perché erano gli unici che potevano permettersi pasti a base di carne, pesce, dolci e alcolici”.

Come per altre patologie, chiedo al Professor Bolognino se è possibile il reintegro  di alcuni alimenti, prima limitati nella dieta, in seguito ad un miglioramento del quadro clinico:

“Anche in questo caso, occorre appellarci al buonsenso! Se il valore dell’uricemia ritorna nel giusto range, è possibile reintegrare alcuni cibi tra quelli eliminati, ma sempre senza esagerare. Naturalmente il consiglio è sempre quello di rivolgersi ad una figura competente che sia in grado di studiare un piano di reintegro ad hoc, senza il rischio di tornare alla condizione di partenza.”.
Anche per l’iperuricemia, l’attività fisica, unita a farmaci, laddove prescritto dal medico e alla dieta,  può far molto:
Assolutamente sì! Ad eccezione nel caso di crisi gottose in cui è necessario restare a riposo, come nelle altre patologie reumatiche l’attività fisica contribuisce a recuperare la funzionalità delle articolazioni, in cui si depositano i cristalli di urato, rendendo il corpo maggiormente elastico e tonico. Si consiglia di iniziare con una ginnastica dolce ed aumentare gradualmente resistenza e difficoltà degli esercizi. Occorre preferire comunque un’attività ad intensità moderata, sotto la soglia anaerobica: il lattato, infatti nel tubulo renale compete con gli urati per essere escreto. Meglio preferire sport aerobici, dunque, come jogging, cyclette o nuoto”.

Ringrazio il Professor Alessio Rolando Bolognino, il quale, ancora una volta, ci ha illustrato una verità inconfutabile: il cibo non è soltanto sinonimo di sopravvivenza o di piacere ma può rappresentare una via sia per la prevenzione primaria sia per curare patologie, in sinergia, laddove è necessario, con i farmaci, perché come disse il filosofo Ludwig Feuerbach :”L’uomo è ciò che mangia”.

                                     Alessandra Fiorilli

La dieta in gravidanza: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore, Biologo Nutrizionista, Docente Universitario, autore di libri e Divulgatore scientifico.

Dieta e gravidanza: tale binomio è stato oggetto di molte credenze popolari, di detti che venivano tramandati di madre in figlia.

Primo tra tutti: in gravidanza la donna deve mangiare per due.

Cerchiamo di far luce su quanto sia importante, sia per la donna sia per il bambino, che la futura mamma segua un regime alimentare equilibrato e corretto.

Ne parliamo con il  Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.   

 

     
Iniziamo proprio con l’affrontare, in maniera scientifica, il primo consiglio che veniva dato alle future mamme appunto, quello di mangiare per due:      
 “Il feto viene nutrito dalla futura mamma attraverso la placenta, quindi è vero che in gravidanza si mangia “in due”, ma ciò non implica che si debba mangiare il doppio! Il fabbisogno energetico della madre cresce, ma occorre sempre prestare attenzione agli eccessi: aumentare in maniera squilibrata ciò che si mangia potrebbe determinare per la donna il rischio di sviluppare diabete gestazionale, gestosi e ipertensione. Inoltre, una mamma in stato di obesità espone il bambino ad aumentato rischio di nascita prematura e dimensioni ridotte al momento della nascita. Negli ultimi tempi le conoscenze in materia di epigenetica (scienza che studia come i fattori ambientali, ad esempio la stessa dieta, incidano sull’espressione del nostro patrimonio genetico), si sono evolute anche in questo senso: l’alimentazione della donna in gravidanza deve essere equilibrata e bilanciata, in quanto condiziona la crescita del feto, non solo nella fase di vita intra-uterina, ma anche in quella adulta”.

Dopo aver fatto luce su questo luogo comune più diffuso e conosciuto, vediamo come dovrebbe cambiare la dieta nel periodo della gravidanza:         
Un’ alimentazione sana in gravidanza passa necessariamente per una corretta manipolazione degli alimenti, che in alcuni casi possono nascondere dei veri e propri pericoli di natura microbiologica per la donna e per il feto. Per prevenire la toxoplasmosi, ma più in generale anche le infezioni da parte di altri patogeni, è fondamentale sciacquare sotto acqua corrente in modo accurato frutta e verdura, tagliando via anche le aree danneggiate o ammaccate, più probabilmente siti di proliferazione batterica. A tale proposito, occorre aprire una parentesi in merito ai detergenti: in gravidanza, infatti, il bicarbonato non basta a rendere sicuri gli alimenti, mentre l’utilizzo di altri prodotti a base di ammoniaca è sconsigliato per la presenza eccessiva di sostanze chimiche, a meno che il suo impiego non sia seguito da un ulteriore risciacquo altrettanto accurato. Meglio preferire, dunque i detergenti a base di cloro per un’igiene completa, ma soprattutto sicura. Per prevenire i fenomeni di contaminazione crociata occorre sempre pulire i vari utensili, e naturalmente le mani, dopo aver manipolato cibi crudi. Per evitare il rischio di infezioni da parte di listeria, salmonella e campylobacter è necessario che carne, uova e pesce siano sempre ben cotti. Gli affettati e i formaggi devono essere assunti con moderazione, preferendo per un discorso di sicurezza alimentare, gli stagionati, come il crudo a 20 mesi o formaggio a pasta dura  a 36 mesi. Preferire al supermercato sempre quelli confezionati, poiché al banco della gastronomia potrebbero essere soggetti a fenomeni di cross-contaminazione!”   

Carboidrati, proteine, vitamine, in quali percentuali devono essere presenti nella dieta  e quante calorie dovrebbe assumere?       
“I LARN consigliano di aumentare l’apporto energetico di 150 Kcal durante il primo trimestre, raddoppiandolo nei mesi successivi. In fase di allattamento, il surplus calorico si attesta sulle 300 Kcal. Naturalmente tali indicazioni sono rivolte alla fascia di donne in normopeso: in caso di sovrappeso l’incremento calorico dovrà essere più modesto, poiché la donna possiede già scorte di nutrienti adeguate a sostenere la crescita del feto. A fare la differenza è sempre la ripartizione tra macronutrienti: come ci insegna la dieta mediterranea, l’assunzione di carboidrati dovrebbe corrispondere al 50-60% delle kcal introdotte, i grassi non dovrebbero superare il 30%, mentre le proteine dovrebbero rappresentare il 20%. È fondamentale variare i cibi  per soddisfare il fabbisogno di micronutrienti, assicurando così un regolare apporto di vitamine e minerali, come acido folico, ferro, vitamina b12, vitamina d, calcio, necessari per il corretto sviluppo del feto! In questo caso è il professionista ad indirizzarvi verso l’uso di integratori, se necessario. Ad, esempio una supplementazione non richiesta di vitamina A potrebbe interferire con lo sviluppo neuronale del nascituro; viceversa, l’importanza dell’acido folico per il tubo neurale richiede quasi sempre il bisogno di integrazione in ogni caso, nonostante sia un micronutriente molto diffuso negli alimenti. Un alimento che non dà calorie ma è essenziale per la salute della donna è l’acqua, che non deve mai mancare. Un buono stato di idratazione è parte integrante dell’aspetto nutrizionale. Si consiglia di consumare almeno 2 litri di acqua al giorno, necessari per idratare la placenta e consentire l’aumento del volume ematico”.      

Gravidanza e cibi da evitare:    
“Certamente i pesci di grossa taglia, ad esempio tonno e pesce spada, sono soggetti al fenomeno di bioaccumulo, e possono contenere metalli pesanti, come il mercurio, in grado di incidere sulla salute del nascituro. Meglio optare per il pesce azzurro di piccola taglia. Data la presenza elevata di caffeina in thè e caffè, si consiglia sempre di limitarn l’uso, in quanto potrebbero aumentare il rischio di parto prematuro e basso peso alla nascita. Il consumo di affettati, come detto poco fa, necessariamente sottoposti ad una lunga stagionatura, deve essere ridotto poiché apportano molto sale, andando ad incidere su un quadro già complesso di ritenzione di liquidi negli arti inferiori della donna in gravidanza. Anche il consumo di dolci deve essere attenzionato: l’eccesso di zuccheri semplici può condurre ad un’alterazione nella regolazione della glicemia e condurre al diabete gestazionale”.

Ci sono anche dei cibi da escludere completamente, sia durante la gravidanza che l’allattamento, vediamo  quali:        
L’alcol è senza alcun dubbio da escludere in modo assoluto dalla dieta della futura mamma. Ancora non sono presenti studi scientifici che definiscono quale sia la dose minima in grado di interferire con la crescita del feto, pertanto è preferibile evitarlo del tutto. Occorre eliminare anche i mitili: sono animali filtratori, dunque concentrano eventuali sostanze tossiche presenti nelle acque, trasmettendole alla madre e , di conseguenza, al feto. Concluso l’allattamento è possibile reintegrare tutti i cibi a cui è stato raccomandato di prestare attenzione in gravidanza, naturalmente durante l’allattamento bisogna prestare attenzione a quei cibi, come il carciofo e l’asparago, l’aglio, le spezie ecc, che possono alterare il sapore del latte rendendo difficile il momento della poppata. Attenzione anche a quei cibi generano gonfiore intestinale e possono portare il bambino a soffrire di coliche. Si tratta soprattutto di cavolo, cavolfiore, peperoni, broccoli, cetrioli, asparagi e carciofi”.

Se durante il corso della giornata si dovessero avere degli attacchi di fame, cosa  prediligere?
“Occorre agire alla radice del problema: è fondamentale consumare più pasti al giorno (non solo i principali) proprio per evitare di essere preda degli attacchi di fame! La funzione degli spuntini è proprio quella di mantenere costante il livello di glicemia: quando la concentrazione di zucchero nel sangue scende troppo, il nostro organismo ci comunica di essere in uno stato di sofferenza attraverso l’insorgenza dello stimolo della fame… questo è vero più che mai in gravidanza! Ad ogni modo, verdure come finocchi, cetrioli, carote dovrebbero essere sempre a portata di mano , già pulite e fatte a pezzi per essere “sgranocchiate” quando si ha voglia di mangiare qualcosa. Ricche di acqua , fibre e vitamine rappresentano lo snack ideale…ma non l’unico! A metà mattina e a metà pomeriggio è possibile consumare frutta fresca oppure secca (se non si soffre di reflusso), cereali integrali, yogurt. In presenza di nausea è fondamentale consumare cibi secchi poiché sono in grado di assorbire i succhi gastrici, come gallette, o fette a base di farina integrale anziché pizza o grissini, che contengono invece più grassi rispetto ai primi! Sempre per combattere questa spiacevole sensazione possono essere di aiuto le tisane a base di zenzero o di agrumi, come limone, pompelmo e mandarini”.

Altro binomio che è  spesso all’attenzione, è quello gravidanza- sport, vediamo quali possono essere tranquillamente praticati:          
Se non ci si trova in uno stato di gravidanza a rischio, svolgere attività fisica è fondamentale in gravidanza. Utilizzare la cyclette, praticare nuoto, pilates, jogging, yoga o tennis è un fattore chiave per mantenersi in buona salute e ad avere una gravidanza più serena. Lo sport, infatti, non fa aumentare solamente il tono muscolare generale, incluso quello importantissimo del pavimento pelvico, ma migliora anche l’umore, prevenendo sintomi ansiosi e depressivi. Meglio evitare sport di contatto, come la boxe, o sport in cui sia elevato il rischio di caduta, come la bicicletta su strada. Nuoto e acquagym sono invece i migliori da praticare, oltre ai già menzionati: riducono il gonfiore su gambe e caviglia e diminuiscono la lombalgia.

Una giusta attività fisica riesce a svolgere anche la funzione di evitare di far accumulare troppi chili in gravidanza:        
Fare movimento o un’attività sportiva controllata aiuta a migliorare i processi metabolici di utilizzazione degli zuccheri e dei grassi, evitandone così l’accumulo eccessivo ed il sovrappeso. In più, rafforzando ed aumentando la componente muscolare, si realizza un aumento del proprio metabolismo basale: ciò significa che l’organismo a riposo consumerà di più calorie! In più l’attività fisica diminuisce la produzione di cortisolo, noto a tutti come “ormone dello stress”, che ha la capacità di incrementare la tendenza dell’organismo a trattenere i liquidi”.


E nel caso in cui si siano presi troppo chili, cosa si può fare?:  
Dopo il parto, in genere si perdono tra i 5 e i 7 kg, che corrispondono al peso del bambino, del liquido amniotico e della placenta. Dopodiché non c’è una risposta valida universalmente: in alcuni casi è necessario più di qualche mese affinché l’utero torni nel suo stato fisiologico; per altre donne, invece, i tempi possono essere più rapidi. Occorre impostare sin da subito delle sane abitudini alimentari, facendo attenzione alla qualità e alla quantità dei cibi introdotti. Senza dubbio, praticare regolarmente attività fisica è un grande aiuto alla perdita dei kg accumulati in gravidanza, poiché consente di lavorare non solo sulle calorie in entrata, ma anche su quelle in uscita!”.


Altro luogo comune è quello di intraprendere una dieta per perdere eventuali chili in più solo dopo aver concluso la fase dell’allattamento:         
Non c’è alcuna ragione per aspettare il termine della fase di allattamento. Un piano equilibrato che mira alla perdita dei kg in eccesso, tiene conto comunque del fabbisogno di crescita del bambino e di quello della donna che in questo delicato momento risulta generalmente essere aumentato di circa 300kcal, ma va valutato ad personam. È fondamentale rivolgersi ad un professionista del settore, e non improvvisare diete fai-da-te: un calo ponderale troppo rapido potrebbe far rilasciare nel latte delle sostanze tossiche che prima erano immagazzinate del tessuto adiposo in eccesso, che verrebbero quindi trasmesse al neonato”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio Bolognino, una gradita presenza fissa sul giornale EmozionAmici, per la sua squisita disponibilità e una professionalità che si unisce ad un linguaggio semplice, ma sempre efficace.

                                                                 Alessandra Fiorilli 


Alzheimer: grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare di Diagnosi Precoce e Prevenzione. Intervista al Professor Giovanni Battista Frisoni, tra i maggiori esperti in campo internazionale.

C’è una caratteristica comune che lega tutte le malattie gravi, quelle che nell’immaginario collettivo difficilmente lasciano scampo, perché quasi incurabili, o perché rappresentano un tunnel nel quale, una volta entrati, non è possibile più uscirne.

E’ stato così per il cancro, di cui si aveva timore persino a pronunciarne il nome, bollandolo semplicemente come “Il brutto male”, è stato, ed è ancora così,  per l’Alzheimer, malattia, questa, che fa ancora più paura perché, gettando un’angosciosa ipoteca sul futuro, è in grado di cancellare ciò che maggiormente ci distingue gli uni dagli altri: la memoria, la personalità, le abitudini, il nostro vissuto fatto di ricordi, atti, azioni, emozioni.

Fortunatamente, grazie alla ricerca, oggi possiamo parlare di Diagnosi Precoce e di Prevenzione anche per la malattia di Alzheimer: a delinearci questi aspetti è il Professor Giovanni Battista Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra, Professore Ordinario di Neuroscienze cliniche presso la locale Università e già Direttore Scientifico dell’IRCCS Centro di San Giovanni di Dio “Fatebenefratelli” di Brescia.

“Iniziamo con l’illustrare la patofisiologia della malattia di Alzheimer, ovvero  le tappe che portano una persona completamente  sana a sviluppare disturbi cognitivi prima, e  perdita di autonomia, poi. Quello che abbiamo imparato negli ultimi anni è che ciò che accomuna l’Alzheimer a tutte le altre malattie degenerative, è  la lunghissima  fase preparatoria, di  15-20 anni, durante la quale il cervello comincia a sviluppare delle alterazioni patologiche,  inizialmente molto leggere, poi sempre più  gravi, che portano, pian piano e lentamente,  il cervello a non riuscire più ad effettuare tutte le attività cognitive con la stessa efficacia di un tempo. Tali cambiamenti sono il risultato di una deposizione di proteine neurotossiche, un fattore, questo, che è comune a molte malattie neurodegenerative, quali, ad esempio,  la malattia di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica. Ciò che caratterizza e differenzia le suddette malattie, è il tipo di proteina neurotossica  e la zona del cervello nella quale va a depositarsi.

Quelle che si riscontrano nell’Alzheimer sono la proteina beta-amiloide e la proteina Tau,  che vanno a depositarsi nelle zone del cervello deputate ai processi della registrazione e consolidazione delle tracce mnesiche, ovvero della memoria.

La deposizione di tali proteine inizia 15-20 anni prima che compaiano i sintomi  e, iniziando  nelle zone della memoria, si allarga progressivamente, fino a coinvolgere il cervello  quasi  completamente”

Grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare anche per questa malattia di Diagnosi Precoce: “  E’ possibile quando c’è già il riconoscimento della malattia in persone che hanno, appunto, superato la soglia dei disturbi di memoria, in altre parole dopo quei 15-20 anni nei quali le proteine si sono accumulate nel cervello. C’è da dire, però, che  non tutti i disturbi di memoria sono legati alla malattia d’Alzheimer, si possono infatti avere delle dimenticanze più del normale,  legate a situazioni di stress, depressione, disturbi del sonno, solitudine, neoplasie, disturbi di circolazione celebrale, scompensi glicemici, e molte altre cause ancora. La diagnosi precoce permette di capire se i disturbi di memoria di una persona sono dovuti a una di queste condizioni o a una malattia di Alzheimer. Per far questo, si effettua una puntura lombare e un prelievo del  liquido cerebrospinale, lo stesso liquido acquoso nel quale il cervello è immerso. Oltre alla puntura lombare si può effettuare anche la scintigrafia cerebrale che ci permette di vedere quali parti del cervello tali proteine hanno colpito”.

Alzheimer e Prevenzione, sia primaria che secondaria: un binomio che, almeno sino a un po’ di tempo fa, sembrava impossibile, ma oggi non più.

“La Prevenzione primaria riguarda tutti quegli interventi che possono essere posti in essere in qualsiasi momento prima dell’insorgenza dei sintomi, dall’infanzia all’età adulta. La si fa per così dire “a pioggia”, con attenzione agli stili di vita, quali un’attività fisica regolare, un’alimentazione basata sulla dieta mediterranea, un’adeguata attività mentale, il  controllo di malattie  croniche quali ipertensione e ipercolesterolemia. Sono da evitare assolutamente le sostanze tossiche per il cervello quali droghe e da limitare altre sostanze neurotossiche, quali fumo e alcool”.

In un futuro non molto lontano, inoltre :” La prevenzione ci permetterà  di identificare le persone a rischio e trattare solo quelle realizzando, così una prevenzione molto più mirata, che chiamiamo prevenzione secondaria.  Sono in corso, infatti, trial clinici di somministrazione di medicinali su persone sane ma con amiloidosi  cerebrale, nelle quali vengono testati  farmaci anti-amiloide. In questi trial speriamo si potrà dimostrare che le persone che ricevono il farmaco, pur essendo ad   alto rischio, svilupperanno una demenza meno frequentemente delle persone  non trattate farmacologicamente. Quello che stiamo cercando di fare è di seguire una procedura simile  a quella che si ha per le malattie cardiovascolari. Si tratta il paziente con ipertensione o ipercolesterolemia, ad esempio, prima che lo stesso incorra in  un infarto o un ictus. Solo che tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo o il diabete è molto più semplice rispetto alla misurazione delle proteine neurotossiche  attraverso puntura lombare o PET,  che sono molto più  complicate e costose. Quello che sarà, invece, possibile fare prossimamente è misurare nel sangue le proteine neurotossiche amiloide e tau grazie a macchine sofisticatissime di ultimissima generazione che permetteranno di individuare persone ad alto rischio di sviluppare la malattia”.

La speranza che si possa parlare di Alzheimer in modo differente rispetto al passato arriva da una grande notizia: “Proprio quest’anno, a giugno, la FDA ha approvato il primo farmaco che in persone con malattia di Alzheimer ne rallenta di circa il 23% la progressione. La notizia ha fatto rumore  perché  c’è una rassegnazione sociale nei confronti della malattia di Alzheimer, in quanto percepita come  incurabile, di fronte alla quale non c’è nulla che si possa fare. Ebbene, questi farmaci, cambieranno anche la percezione della malattia”.

Un altro grande traguardo sarà raggiunto tra breve: “Attualmente test ematici per rilevare eventuali marcatori non si hanno ancora nella fase di pratica clinica, ma solo nei progetti di ricerca, anche se potremmo sperare di averli tra circa 2 anni, mentre programmi di prevenzione potranno essere in atto fra 5-10 anni. E’ una sfida enorme ma non impossibile, se pensiamo ai grandi passi in avanti che sono stati fatti in questo campo.   Basti pensare che quando io, quasi 30 anni fa, giovane medico, iniziai in questo campo, un mio collega del centro Fatebenefratelli pubblicò un articolo, dal significativo titolo:  “Alzheimer: malattia  o nebulosa”. Alcuni non ne parlavano neanche in termini di malattia e oggi stiamo lavorando a programmi di prevenzione”

E se tanto è stato fatto per questa malattia che fa ancora tanta paura, e se oggi c’è una speranza, sorretta da Ricerca sul campo, lo dobbiamo anche  medici come il Professor Giovanni Battista Frisoni, appassionato, e che  a tanta scienza affianca un’umanità palpabile e una grande vicinanza alle famiglie e ai pazienti di questa malattia che viene ancora  chiamata quella “ del lungo addio”.

                                               Alessandra Fiorilli

L’olio d’oliva: esaltato da Omero e Ippocrate, oggi pilastro della dieta mediterranea grazie alle sua eccellenti caratteristiche e qualità delle quali ci parla il Professor Rolando Alessio Bolognino.

“Oro liquido”, “La grande medicina”: sono queste le definizioni con le quali, rispettivamente, il grande scrittore  Omero e Ippocrate, il padre della medicina, tributavano all’olio d’oliva.

Il condimento simbolo della dieta mediterranea, era infatti usato, nei tempi antichi,  anche per curare  dermatiti e per lenire la sintomatologia legata all’apparato gastrointestinale.

Per conoscere a fondo questo alimento abbiamo parlato con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente universitario a contratto presso l’università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness. Autore di libri e pubblicazioni scientifiche, divulgatore scientifico in radio e televisione.

Siamo abituati a vedere, sugli scaffali dei negozi, molti tipi di olio di oliva, ma ciascuno presenta delle caratteristiche proprie, come ci illustra il Professor Bolognino: “La Comunità Europea classifica le diverse tipologie di olio di oliva sulla base di tre elementi: la percentuale di acidità libera, il tipo di processo attraverso cui è stato ottenuto il prodotto e l’analisi organolettica. Ad esempio l’olio extra vergine di oliva deve presentare un tasso di acidità non superiore allo 0,8% e un gusto assolutamente perfetto. L’Italia è un Paese stupendo, ricco di diverse cultivar , capaci di dare all’olio EVO, così come al vino, diversi profumi e diverse fragranze”.

Nell’immaginario collettivo l’olio è considerato un condimento, mentre, invece, è classificato, per le sue peculiarità, un vero e proprio alimento: “In quanto presenta una composizione lipidica pari al 99%, oltre ad una frazione minore di sostanze che esercitano azioni protettive per il nostro organismo, come polifenoli e vitamina E. Può infatti essere considerato un alimento funzionale, ovvero un alimento che ha la capacità di influire su una o più funzioni fisiologiche”.

E se, come abbiamo già detto, Ippocrate usava le proprietà medicamentose dell’olio d’oliva, oggi continua a rivestire un ruolo fondamentale per la nostra salute, un prezioso alleato, come afferma il Professor Bolognino: “L’olio extravergine di oliva viene considerato l’“oro liquido” della dieta mediterranea. Gli effetti positivi derivano principalmente dalla presenza di polifenoli e vitamina E. Questi ingredienti svolgono un’azione antiossidante in quanto salvaguardano le membrane lipidiche, prevenendo fenomeni di ossidazione. Inoltre, i polifenoli mostrano proprietà ipocolesterolemizzanti, poiché, in sinergia con l’azione dell’acido oleico, promuovono un abbassamento del colesterolo LDL ed un innalzamento del colesterolo HDL”.

Ottimale è consumare l’olio a crudo, come sottolinea il Professor Bolognino: “In questo modo   viene mantenuto inalterato il patrimonio di sostanze antiossidanti, preziose per il nostro organismo perché permettono di combattere l’infiammazione e l’invecchiamento cellulare provocato dai radicali liberi. Invece l’olio cotto, come tutti i grassi in cottura, tende a subire l’ossidazione e perossidazione dei grassi, con produzione di sostanze tossiche, come i lipoperossidi. In più, a livello gustativo, il consumo a crudo ci permette di apprezzarne maggiormente le note e gli odori che caratterizzano questo straordinario prodotto. Dunque ne guadagna sia la salute che il palato!”.

Molti anni fa si ebbe un dibattito, che correva lungo il linguaggio pubblicitario, nel quale l’uso dell’olio d’oliva per le fritture casalinghe era particolarmente demonizzato, chiedo al Professor Bolognino se, al contrario di quanto si è detto, lo si possa usare anche per le fritture: “E’ un ottimo prodotto per friggere, ma ha un punto di fumo inferiore ad alcuni oli di semi, come quello di girasole . Inoltre la sua struttura renderebbe il prodotto finale un po’ pesante, quindi assolutamente non adatto a fritti vegetali o di piccoli pesci. Ricordiamo che al superamento del punto di fumo viene favorita la produzione di acroleina, sostanza nociva che esercita un’azione tossica per il fegato, ma anche irritante nei confronti della mucosa gastrica”.

Grande attenzione, negli ultimi anni, verso i prodotti Bio. Anche l’olio è da preferire biologico?

È sempre bene prediligere un olio biologico sia perché viene meno l’utilizzo dei pesticidi sulle olive, impiegati per contrastare l’azione dei parassiti, sia perché nelle grandi aziende produttrici vengono spesso utilizzate delle sostanze chimiche che correggono le impurità e i valori di rancidità dell’olio. In più, un olio biologico è garanzia che tutti i processi adottati per la realizzazione del prodotto, dunque dalla coltivazione della pianta fino all’ immissione in commercio, siano stati realizzati in un determinato territorio rispettando i processi di crescita e trasformazione dell’oliva”.

Da prestare attenzione, nel momento in cui lo si acquista, alla dicitura “spremitura a freddo” che dovrebbe comparire sull’etichetta: “Le alte temperature possono contribuire alla dispersione di sostanze fenoliche, vitamine termolabili (la vitamina C e le vitamine del gruppo B) e acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, ma anche al peggioramento dei caratteri organolettici. Attraverso la spremitura a caldo, alcuni caratteri come la piccantezza o l’amarezza vengono persi, facendo emergere delle note dolci “piatte”. In più, bisogna considerare che proporzionalmente all’aumento della temperatura impiegata durante processo di estrazione, vi è una maggior appiattimento dell’aroma fruttato”.

Essenziale anche il colore della bottiglia: “Anche il packaging influisce sulla qualità di un buon olio. È consigliabile che sia conservato in bottiglie di vetro scuro, in modo tale che venga protetto dall’esposizione alla luce. Questa, infatti, può provocare fenomeni di foto-ossidazione responsabili dell’irrancidimento dell’olio e della perdita di preziose sostanze polifenoliche, come l’oleuropeina e l’olecantale, sostanze molto attive anche nella prevenzione oncologica”.

Diete ipocaloriche e olio: vediamo qual è il giusto equilibrio : “L’olio di oliva è un alimento che non deve mancare all’interno di una sana e corretta alimentazione, dunque anche nelle diete ipocaloriche. L’importante è che la composizione dei macronutrienti (proteine, carboidrati e lipidi) sia ben bilanciata. Consideriamo che circa il 30 % del nostro fabbisogno energetico giornaliero dovrebbe derivare dai lipidi, di cui l’olio di oliva rappresenta la fonte primaria. Infatti, oltre ad apportare preziosi componenti, permette un corretto assorbimento delle vitamine liposolubili, l’assunzione di acidi grassi essenziali ed una maggiore lubrificazione del colon, favorendo così il transito intestinale. Tra le azioni benefiche più importanti dell’olio extravergine d’oliva è doveroso citare: prevenzione del diabete, contrasto dell’ipertensione e miglioramento del profilo lipidico HDL, contrasto verso le malattie neurodegenerative, azione antiossidante”.

Pane e olio: la merenda di un tempo. Anche oggi è ancora valida, se dopo facciamo un po’ di attività fisica, come i bambini di tanti anni fa? “Diciamo di sì, con le adeguate differenziazioni tra le persone. Nelle giuste quantità, costituisce una merenda sana e nutriente, poiché apporta sia carboidrati sia grassi “buoni” provenienti dall’olio. Rispetto al classico frutto o yogurt che troviamo alla voce “spuntino” in ogni piano alimentare ha più calorie…ma basta avere una vita attiva e muoversi quando si può e sarà un’ottima scelta da mettere nella giornata, soprattutto per i più giovani (che invece preferiscono le merendine, che hanno maggiori calorie ma di qualità molto inferiore)”.

Ringrazio il Professor Bolognino per aver, così esaustivamente, illustrato, in tutti i suoi singoli aspetti, le caratteristiche di un alimento tanto amato dagli italiani e che diventa l’immancabile elemento principe di moltissimi piatti.