Alla riscoperta della pasta fresca fatta in casa: oggi parliamo di orecchiette pugliesi e “pettole” casertane

I Social, in queste settimane, si stanno riempiendo di foto e video che ritraggono gli italiani alle prese con pane, pizza, pasta, dolci.

I nostri connazionali ci stanno regalando, così, l’immagine di un’Italia che sembrava scomparsa da tempo, e, in un istante, siamo tornati tutti bambini, quando le nonne o le bisnonne impastavano, con grande maestria e passione, acqua e farina per portare in tavola la pasta fresca fatta in casa.

Ciascun prodotto appartenente alla tradizione italiana ha una storia da raccontare: oggi, in questo articolo, parliamo delle orecchiette pugliesi e delle “pettole” casertane.

Tipiche della Puglia ma diffuse anche in Basilicata, varie sono le ipotesi sulla loro comparsa: c’è chi le ritrova persino in un testo del grande poeta latino Varrone, vissuto tra il 116 e il 117 a. C., il quale, in un suo testo, parlava di una pasta, le “lixulae”, di forma tondeggiante con un incavo nella parte centrale e che ricordano proprio le odierne orecchiette. 

Un’altra ipotesi sembra essere legata, invece, al Medioevo, quando, tracce di una pasta prodotta con il grano duro delle Tavoliere, si hanno nella città di  Bari e nel suo entroterra. Sembra, però, che fosse una tradizione importata dalla Provenza, località, questa, dalla quale la pasta a forma di orecchiette, partì alla volta della Puglia, insieme agli Angioini, i quali intorno al XIII secolo, ebbero il controllo di gran parte del suddetto territorio.

 La forma data a tale tipo di pasta in terra francese, aveva una sua motivazione molto profonda, legata alle carestie che si dovevano, spesso, fronteggiare in epoca medievale: l’incavo che si faceva al centro del piccolo disco di pasta spessa, serviva, infatti, a rendere più facile l’essiccazione e, di conseguenza, anche la conservazione.

Un’altra corrente di pensiero, invece, vuole che le orecchiette abbiano avuto i loro natali nel territorio di Sannicandro di Bari, tra il XII e il XIII secolo, periodo, questo, della dominazione normanno-sveva nell’attuale Puglia.

I Normanni, infatti, proteggevano la comunità ebraica che risiedeva in terra pugliese e gli ebrei erano soliti preparare dei dolci, con un incavo al centro, note come le “Orecchie di Haman”, da cui scaturì la classica forma del formato di pasta delle orecchiette, appunto.

Una data è certa: quella del 1500, quando, negli archivi della chiesa di San Nicola di Bari,  in un atto notarile di cessione di un  panificio dal padre alla propria figlia, fosse indicata, alla voce “dote matrimoniale” anche la famosa ricetta delle “reccjetedde”, nome, questo, con il quale le orecchiette sono ancora oggi chiamate a Taranto e provincia

A Bari, invece, sono note con il nomignolo affettuoso di “L strascnat”, termine, questo che indica la modalità con la quale la pasta viene lavorata, strusciandola, appunto, sulla spianatoia.

Con la superficie esterna ruvida e spessa, e il cuore più liscio, le orecchiette si sposano alla perfezione con le famose cime di rapa, ma non disdegnano neanche cavolfiori, broccoli o altri tipi di verdura mentre, in altre zone della Puglia, come il Salento, si usa condirle con un sugo corposo e cosparse di ricotta di pecora.

Altra tipica pasta fatta in casa sono le pettole casertane, le cui origini sono legate alle tradizioni contadine dell’agro aversano. Si narra, infatti, che un piatto di pettole e fagioli non mancasse mai sulle tavole dei contadini i quali, dopo una lunghissima e faticosa giornata trascorsa sui campi, potevano trovare sollievo in questo piatto tipico che vedeva il connubio perfetto tra le pettole, pasta fresca a base di farina e  acqua e i fagioli, la cosiddetta “carne dei poveri”.

Noto come “Pettl’e fasul”, ancora oggi è un tipico piatto della zona di Caserta, riscoperto in particolar modo, in questo periodo di reclusione forzata, quando il tempo a disposizione permette di rispolverare piatti dei nostri avi, la cui preparazione poco si addice alla fretta nella quale eravamo soliti vivere prima dello “stop” impostoci dall’emergenza sanitaria in corso.

In attesa che tutto torni alla normalità, intanto, le mamme impastano acqua e farina, proprio come facevano le massaie di una volta, mentre i ragazzi di oggi possono, così, assaporare dei piatti di pasta fresca che custodiscono in sé una storia antica, fatta di consolidate usanze e di preziose tradizioni.

                                           Alessandra Fiorilli

…e il TEMPO rivolle indietro il tempo che aveva regalato agli uomini

Privi di libertà e pieni di tempo…un tempo che, talvolta, ci sembra infinito, rallentato da una non-azione a cui ci ha costretto l’epidemia.

Da settimane, ormai, non diciamo più : “Ti chiamo io dopo, ora non ho tempo”, “Semmai ci vediamo un’altra volta, adesso devo correre”, Appena mi sarà possibile, verrò a trovarti, tempo permettendo”.

Ecco, ora il tempo abbonda in queste nostre vite trasformate, piene di interrogativi e di paure:  paura del contagio, paura dell’altro, paura di ammalarci, paura di diventare uno dei numeri che, quotidianamente, affollano l’ormai consueto e triste bollettino della Protezione Civile.

In questa dimensione mai sperimentata prima d’ora, in bilico tra l’assenza di libertà e l’assoluta necessità di questa “prigionia” forzata che è l’unico mezzo per lottare, tutti insieme, contro il virus, lui, il TEMPO sembra essere lì, in un angolo a guardarci, sembra che ci voglia dire: “Voi fermi e io che trascorro libero, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora. Quanto tempo  vi ho dato, nei mesi e negli anni passati… e quanto ne avete sprecato, buttato via, in sterili litigi, in vane lamentele, in fumosi chiacchiericci. E ora che ne avreste in abbondanza, e che vorreste riempirlo di abbracci, incontri, baci, strette di mano….ecco, ora siete lì, immobili, in attesa. E io, allora, mi prendo il mio tempo, il tempo che voi avete riempito con le vostre sciocchezze insulse, con le promesse che sapevano di falsità. Il tempo che non avete assaporato, quel tempo che non vi sarà più reso. Ricordatevelo, uomini, quando ne diventerete di nuovo padroni”.

                                                   Alessandra Fiorilli 

Il potere della mente

Alzi la mano chi, nel corso della sua vita, non ha mai sognato ad occhi aperti, non ha mai fantasticato, specialmente da giovane, sul proprio futuro o su una situazione che desiderava che accadesse.

Ecco, la buona notizia è che quello che immaginiamo nella nostra mente può realmente concretizzarsi. In che modo? Grazie alla tecnica della visualizzazione creativa.

Il grande Walt Disney che ha fatto, e che fa tuttora, sognare, ridere, piangere, emozionare il mondo intero grazie ai suoi personaggi diceva: “If you can dream it, you can do it”, ovvero “Se puoi sognarlo, puoi farlo”, frase che mi trova pienamente d’accordo.

Io, però, la riformulerei così: “Se puoi visualizzarlo nella tua mente, accadrà veramente”. Si, perché c’è una differenza tra il sognare ad occhi aperti e la visualizzazione creativa: nel primo ci si immagina come spettatori di una situazione come se si vedesse un film, nel secondo caso, ovvero nella visualizzazione, chi immagina, sperimenta quella situazione, quell’evento in prima persona, cercando di percepirla il più reale possibile. In questa tecnica si visualizza nella mente la situazione che vorremmo si realizzasse nei minimi particolari, facendo attenzione ad attivare anche tutti i nostri sensi: olfatto, udito e tatto.

Faccio un esempio: un atleta che deve correre una gara dei cento metri, visualizzerà nella sua mente il momento in cui si trova ai blocchi di partenza, percepirà la consistenza della terra battuta con i polpastrelli, udirà lo sparo che segna l’inizio della gara, sentirà i muscoli delle gambe che lavorano, l’odore acro del sudore, l’aria calda che gli accarezza la pelle, e alla fine vedrà il traguardo e lo taglierà per primo.

Nel sogno ad occhi aperti, invece, avrebbe immaginato solamente il momento della vittoria come se, in realtà, non fosse lui il protagonista della situazione.

Questa tecnica può essere messa in atto in diversi ambiti e con molteplici scopi: per attuare un cambiamento comportamentale, per rafforzare la propria autostima, per superare momenti di difficoltà, per migliorare il proprio benessere fisico e psichico, per migliorare la qualità della vita.

La creazione di un’immagine mentale simile alla situazione reale fa sì che la mente reagisca come se si trovasse di fronte alla realtà: possiamo, in un certo senso, “ingannare” la nostra mente.

Quest’ultima, infatti, lavora per immagini; ciò significa, ad esempio, che se ascoltiamo pronunciare la parla “sedia”, noi visualizziamo in automatico, nella nostra mente, l’immagine di una sedia.

La visualizzazione mentale produce gli stessi effetti fisiologici della situazione reale: immaginare di vincere una gara di cento metri produce la stessa euforia ed emozione del vincerla realmente.

Quindi quando stiamo attraversando una situazione difficile, quando stiamo vivendo un momento di difficoltà o di dolore, quando ci sembra di non trovare vie di uscita, rechiamoci in un posto dove possiamo stare soli, magari la sera prima di addormentarci, cerchiamo di rilassarci, e cominciamo a visualizzare la situazione che vorremmo accadesse; dimentichiamo un presente difficile e creiamo ognuno la nostra realtà.  Se non riuscite le prime volte, non scoraggiatevi: l’immagine va visualizzata più volte in uno stesso giorno e per un periodo di tempo prolungato.

Tornando a Walt Disney, la frase che più mi emozionava da piccola era cantata da Cenerentola: “Tu sogna e spera fermamente, dimentica il presente e il sogno realtà diverrà..”.

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

La tipica graffa napoletana e la sua “sorella”, la classica e golosa ciambella fritta

Una ciambella fritta…calda, morbida, cosparsa di zucchero.

E così, in questo periodo in cui l’emergenza sanitaria ha azzerato la nostra quotidianità, quanto ci manca una ciambella fritta mangiata in strada per celebrare un incontro casuale tra amici, un esame universitario andato bene, una serata dal cielo terso.

E quante volte quella stessa ciambella fritta mangiata in strada ci ha consolato, ha asciugato quella lacrima, ci ha addolcito l’animo stanco.

Nell’impossibilità di gustarla seduti ad una bar, in pasticceria, è sempre possibile prepararla in casa, anche perché la ciambella fritta è più di un semplice dolce: è un’amica, una confidente, una parentesi tra gli impegni quotidiani, una coccola.

Le sue origini, nonostante sia tra i dolci più apprezzati e consumati in Italia, sono, invece, austriache: si narra che sia giunta nella nostra penisola insieme agli Asburgo, i quali dominarono il Regno di Napoli che divenne parte integrante dei loro domini  con il Trattato di Utrecht del 1713.

Fu così che gli austriaci portarono con sé dei bombolotti fritti e cosparsi di zucchero: i Krapfen.

Sull’origine del nome ci sono due ipotesi: la prima, è quella legata a una certa pasticcera austriaca, Cecilia Krapf, la quale, alla prese con la preparazione di un impasto, lo fa,  accidentalmente, cadere in una padella di olio pronta ad accogliere altri alimenti da cuocere. Si rende, però, conto di aver creato un dolce gustoso e saporito che prenderà da lei il nome con il quale sarà noto in tutto il mondo.

La seconda ipotesi vuole che la parola Krapfen abbia origine dal termine austriaco “Krafo”, ovvero uncino, perché un’altra tradizione vuole che l’originaria forma ricordasse proprio quella di un uncino, appunto.

Con molta probabilità e per una chiara assonanza, da “Krafo” deriverebbe il nome con il quale le ciambelle fritte sono conosciute in Campania: graffe, che, a differenza delle classiche ciambelle consumate nel resto d’Italia, vengono preparate con le patate, oltre ai classici ingredienti quali la farina, le uova, il burro, il latte, la scorza di limone.

Qualsiasi sia il suo nome o la sua origine, quanto è bello gustare una ciambella calda ad occhi chiusi con quello zucchero che rimane sulle labbra e ai lati della bocca?

                                                   Alessandra Fiorilli

La Basilica Palladiana di Vicenza, simbolo della città e del genio artistico di Andrea Palladio

Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1994 e Monumento Nazionale dal 2014, la Basilica Palladiana a Vicenza, oltre ad essere il simbolo della città veneta, rappresenta il genio artistico di Andrea Palladio, architetto rinascimentale, il quale ebbe proprio nel Veneto il centro nevralgico della propria attività.

La Basilica, che domina la centralissima Piazza dei Signori sulla quale si affaccia, è in realtà frutto di una serie di progetti volti a modificare il preesistente Palazzo della Ragione, realizzato tra il 1449 e il 1460, che, così come il suo omonimo padovano, aveva la copertura a carena di nave rovesciata e ricoperta di lastre di rame.

L’edificio, prima dell’intervento di Andrea Palladio, ospitava, al primo piano, le Magistrature pubbliche di Vicenza e, al piano terra, le botteghe.

La facciata, caratterizzata da rombi in marmo rosso e gialletto di Verona, era ispirata volutamente al Palazzo Ducale di Venezia.

In seguito ad un crollo, le autorità cittadine vicentine passano al vaglio le proposte che giungano dai più eccelsi nomi dell’architettura veneta, ma, nel 1546, il Consiglio decide di affidare i lavori ad Andrea Palladio, giovane architetto di appena 38 anni, il quale propone di riprogettare il preesistente Palazzo della Ragione aggiungendovi delle logge in marmo bianco e serliane.

Gli interventi sull’iniziale struttura sono quelli che ancora oggi possiamo ammirare: una struttura al tempo stesso imponente ma agile, dinamica, caratterizzata dalle serie delle cosiddette serliane che si ripetono, ovvero una struttura composta da un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari architravate.

In seguito al restauro che si è avuto tra il 2007 e il 2012, è visitabile anche la terrazza superiore, dalla quale si può ammirare la vista sulla città e sui monti che la circondano. Il perimetro della balaustra è ornato di statue realizzate, agli inizi del 1600, da Albanese, Grazoli e Rubini, fedeli ai disegni del Palladio.

La Basilica Palladiana, nonostante il nome evochi per i cristiani una funzione religiosa, è stata così chiamata dallo stesso Andrea Palladio per rendere  omaggio alle tradizioni dell’antica Roma, dove, nell’edificio chiamato appunto basilica, si discuteva di politica e di affari.

Intatta, invece, è rimasta la Torre detta dei Bissari, risalente al XII secolo e che è ben visibile dalla terrazza della Basilica

Il Salone del Consiglio dei Quattrocento, al piano superiore, si sviluppa su un’altezza di 24 metri e vanta una superficie di circa 1500 metri quadri , spazio, questo, utilizzato per allestimento di mostre.

Visitare la Basilica Palladiana significa diventare testimoni del  genio artistico di Andrea Palladio, uno tra i grandi nomi dell’arte italiana, ammirata ed invidiata in tutto il mondo.

                                              Alessandra Fiorilli

La storia della Zeppola di San Giuseppe, dolce tipico della Festa del Papà

La prima ricetta scritta della Zeppola di San Giuseppe la troviamo nell’opera “La cucina teorico pratica” redatta da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nato ad Afragola, paese in provincia di Napoli, dove poi è morto.

Parente del famoso poeta Guido e di nobili natali, la sua opera più nota, da lui rivista ed aggiornata più volte , è un omaggio alla cucina napoletana e, non a caso, tra le ricette spiccano quella della parmigiana di melanzane, della pizza fritta, dei vermicelli con le vongole, della minestra maritata.

Tra i dolci, invece, sono menzionate la famose Zeppole di San Giuseppe, che, nel trattato di Ippolito Cavalcanti, le troviamo preparate con farina, acqua, liquore d’anice, marsala o vino bianco, sale, zucchero e fritte nell’olio.

La zeppola che oggi conosciamo è arricchita, al suo interno, di crema pasticcera, la cui aggiunta successiva deriva, con molta probabilità, dalla dominazione francese sul territorio napoletano.

Mentre, invece, l’amarena sciroppata , si badi bene, e non la ciliegia, che viene posta alla sommità della zeppola  come decorazione, serve a regalare quel tocco di asprigno necessario a “spegnere” l’eccessiva dolcezza dell’impasto unito alla crema.

Così come per gli altri cibi fritti e che venivano solitamente mangiati in strada, anche le zeppole erano preparate sul momento, fritte da venditori che avevano, sino alla metà del secolo scorso,  i loro banchetti davanti la propria abitazione.

L’origine della zeppola legata ai festeggiamenti della Festa del Papà (anche se da anni ormai, compare dietro i banconi delle pasticcerie già durante il periodo di Carnevale, accanto alle tradizionali frappe e castagnole) sembra essere religiosa: alcuni, infatti,  narrano che  San Giuseppe, dopo la fuga dall’Egitto insieme a Maria e a Gesù, si diede alla vendita di frittelle per mantenere la propria famiglia.

Nell’antica Roma, invece, l’usanza di consumare frittelle fritte era legata alle feste delle Liberalia, che si tenevano proprio intorno alla prima metà di marzo, periodo nel quale si festeggiavano Bacco e Sileno, con fiumi di vino e, appunto, cibo dolce fritto.

Se la classica Zeppola di San Giuseppe ha origini napoletane, in altre parti d’Italia si è soliti preparare altri dolci che, in comune con quello campano, hanno i classici ingredienti per l’impasto e la crema come ripieno, ma non sono decorati con l’amarena, , come il Bignè di San Giuseppe, tipico di Roma.

In Toscana e in Umbria, molto diffusa è la frittella di riso, mentre in Emilia Romagna, è la raviola, simile al bignè romano di San Giuseppe.

Tanti auguri a tutti Papà dalla rivista EmozionAmici.

                                       Alessandra Fiorilli

Il tramonto che ci manca e la libertà che tornerà, se rimaniamo uniti

Sono giorni  difficili per la nostra nazione, con un bollettino giornaliero di contagiati, ricoverati e morti che ci fa sentire in guerra, con i nostri sanitari in lotta contro il tempo e con i posti in terapia intensiva al limite del collasso. Chi ha la fortuna solo di rimanere a casa, sta sperimentando, forse per la prima volta, una limitazione di quelle libertà che sembravano scontate e una cancellazione pressoché totale di quella vita che poteva sembrare, talvolta, banale.

E’ indubbio che lo stare in casa per impedire il diffondersi della catena di contagio, diventa sopportabile al pensiero di coloro che si trovano ricoverati nelle terapie intensive, dove non possono incontrare i propri cari e dove la paura della morte si accompagna allo strazio di non poterli vedere neanche un’ultima volta.

Ciò che sta accadendo ha contorni apocalittici e se solo qualcuno, un po’ di tempo fa, ci avesse predetto un tale scenario, saremmo andati via con una smorfia di disgusto, tanto era impossibile credere che, nell’arco di qualche settimana, ci avrebbero chiesto un’autocertificazione per andare a fare la spesa e ci saremmo trovati separati dai nostri familiari solo perché non vivono nella nostra stessa casa.

Il momento che manca di più, specie per coloro che hanno la fortuna di vivere in un paese o in una città sul mare, è quello del tramonto. Non a caso, su Facebook e su Instagram, le foto che più spesso vengono pubblicate e condivise sono quelle che immortalano i minuti dopo che il sole è scomparso all’orizzonte, “gettandosi in mare”.

E lì,ogni sera, il cielo si tinge di arancione carico e di rosso, e l’animo si apre, accogliendo in sé la forza e l’incomparabile bellezza della natura.

Ecco, oggi, questo editoriale, è dedicato al tramonto che ci manca guardare in silenzio.

In questa foto si vedono degli uccelli in volo, da sempre simbolo massimo della libertà,  di questa libertà che oggi tanto ci manca.

Potranno arrivare altri tramonti e altri voli da guardare ma per tornare alla nostra vita dobbiamo restare a casa e credere ciascuno nel sacrificio dell’altro.

Uniti ce la faremo.

                                             Alessandra Fiorilli

L’incanto del Castello “Miramare” di Trieste

E’ il 1855 quando l’arciduca Massimiliano d’Asburgo sceglie il promontorio di Grignano, a circa 6 chilometri da Trieste, come luogo per far sorgere una residenza dove la distesa d’acqua salata sarà la principale protagonista del castello il quale verrà chiamato, non a caso,  “Miramar”, che in spagnolo significa, appunto, “guarda il mare”.

E il mare ti accompagna sin dal momento in cui ci si incammina per raggiugere l’ingresso del Castello stesso.

Quando il cielo è terso, lo spettacolo che offre la distesa d’acqua salata e la natura circostante, ti avvolge in un girotondo di emozioni fortissime, intense, che non ti lasceranno per tutta la durata della visita, terminata la quale il ricordo di quelle sale, del parco, della scalinata che collega i due piani, degli oggetti appartenuti a Massimiliano e a Carlotta, sua moglie, ti faranno compagnia, per sempre.

Oltre al mare, l’altra protagonista della residenza, è il verde che si estende per 22 ettari e che costituisce il Parco del Castello, voluto fortemente dall’arciduca austriaco.

La natura che, infatti, Massimiliano trova, al momento dell’acquisto dei vari lotti, è  una natura scarna ma, grazie alla consulenza di un grande botanico, l’intera area  si arricchirà di alberi e piante da tutto il mondo che conviveranno insieme, in armonia.

Il progetto del parco sarà  affidato, come quello dell’intero Castello, all’architetto austriaco Carl Junker.

Il piano terra ospita le camere dove Massimiliano risiedette con la moglie Carlotta, mentre il primo livello è il piano di rappresentanza, dove venivano accolti gli ospiti.

Chi ha la fortuna di visitare il Castello, ne può ammirare gli arredi originari, mentre la distesa del mare che si perde a vista d’occhio è una presenza, al tempo stesso, discreta e travolgente, in tutte le stanze.

Tra le varie sale in cui si articola il percorso della visita, spicca  quella che ricorda l’arredamento tipico di una nave: fu, infatti, proprio Massimiliano d’Asburgo a volere che una stanza fosse lo specchio fedele dell’arredamento della fregata sulla quale era imbarcato, mentre assolveva il servizio per la Marina d’Austria.

Ai piedi del Castello, un piccolissimo porticciolo dotato di un pontile di circa 7 metri, al quale si accede da una scalinata.

E dopo aver indugiato sul profilo di “Miramare” che si staglia all’orizzonte in tutta la sua magnificenza, ti accorgi che non riesci proprio a lasciarti alle spalle cotanta bellezza, e, così, ti giri più volte, e sembra quasi di vederli Massimiliano e Carlotta i quali, come narra la storia, proprio in questo castello, vissero i momenti più felici della loro vita.

                                                 Alessandra Fiorilli

L’importanza della libertà e la forza della gratitudine

In questo periodo così delicato per tutti noi, in questi giorni in cui viviamo sospesi in un limbo e nei quali ci aggrappiamo con tutte le nostre forze a qualche buona notizia, a causa di questa epidemia che sta destabilizzando il mondo, ho riflettuto sul fatto che la maggior parte delle persone non si rende conto di quello che ha fino a quando sta per perderlo.

Sto parlando della libertà.

(Foto di Lorenza Fiorilli)

Solo fino a qualche settimana fa sembrava normale, se non perfino banale, alzarci dal letto la mattina, andare a bere un caffè al bar insieme ad un collega o ad un amico, accompagnare i propri figli a scuola e poi recarsi al lavoro. E nel pomeriggio chi andava in palestra, chi alla partita di calcetto, chi a prendere un aperitivo e chi, semplicemente, a trovare un amico a casa.

A volte consideravamo una noiosa routine andare a fare la spesa, portare il cane a fare una passeggiata, accompagnare i figli al corso a scuola o in piscina.

Appena potevamo, prenotavamo un biglietto aereo o ferroviario, una camera in albergo e dei ticket on line per un museo. Nei weekend chi andava a vedere l’ultimo film di quel famoso regista, chi la mostra del suo pittore preferito, chi una commedia a teatro, chi allo stadio a tifare la sua squadra del cuore.

Ora questa noiosa, stupida, banale libertà ci è stata in parte tolta, ad alcuni in modo più pesante, ad altri in modo più lieve.

Sono convinta che ogni dolore, avversità, ogni limitazione, delusione, serva a qualcosa.

E’ vero che da ogni cosa che accade nella vita bisogna saper prendere il meglio, bisogna volgerlo a nostro favore.

E da questa situazione cosa impareremo?

Impareremo ad amare e apprezzare la nostra libertà; impareremo a non dare più nulla per scontato, neanche una semplice passeggiata, neanche un abbraccio, neanche la cosa che sembra la più semplice e banale; impareremo a provare gratitudine per tutto ciò che abbiamo. Si, gratitudine, sentimento che in pochi sperimentano al giorno d’oggi.

Saremo grati per ogni singolo gesto, per ogni noiosa, stupida e banale azione che potremo svolgere in piena libertà.

I colleghi ci sembreranno più simpatici, i professori meno severi, i treni più comodi, il verde degli alberi più verde, il caffè del bar più cremoso.

Saremo grati alla vita per la vita stessa.

                          Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa