Pan Canasta: quel panettone salato goloso, stuzzicante, invitante

Coinvolti a tal punto dal gioco delle carte da non voler rimandare nemmeno la partita al dopo pranzo, qualcuno pensò tra sé e sé: “Dovranno pure mangiare qualcosa”.

Ma questi  “ligi giocatori” non volevano proprio lasciare il proprio posto attorno al tavolo da gioco per sedersi attorno a quello di una cucina o di una sala da pranzo… sarebbe stato, quindi,  necessario portare loro qualcosa di stuzzicante, goloso da mangiare e al tempo stesso facile da prendere e da gustare senza sporcarsi: e così nacque, come vuole la storia, il Pan Canasta.

Un Pan Canasta riccamente farcito (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso era considerato il re degli antipasti: servito insieme agli immancabili voulevant ripieni e all’insalata russa, non poteva certo mancare come preludio ad una cena “all’ impiedi”, come era di moda sul finire del XX secolo, magari accompagnato da un bicchiere di spumante.

Poi, il lento declino. ma negli ultimi decenni, grazie agli ormai numerosi programmi televisivi di cucina che l’hanno rilanciato, sta vivendo un nuovo “momento di gloria”.

Per alcuni è il “panettone gastronomico” che si differenzia dal suo fratello dolce e protagonista della tavola di Natale, per il fatto di essere un prodotto lievitato sì, ma salato, pronto ad accogliere al suo interno salumi, formaggi, sottolio, carote tagliate alla julienne, insalata, ma anche uova sode, salsa tonnata, maionese, ma la fantasia e il gusto può fare il resto: c’è chi non disdegna farcirlo con il pregiato tartufo o in versione vegetariana, puntando su verdure, sottaceti, olive e salse.

Tagliato trasversalmente per essere poi imbottito a piacimento, appunto, di solito sulla sua cupola svettano spesso bandierine di carta multicolori, come quelle che si è soliti vedere nei bicchieri estivi di bibite ghiacciate.

La soddisfazione maggiore la si ha quando viene preparato in casa, con farina di manitoba e 00, latte, uova, lievito di birra, sale.

Il classico formato è quello simile al panettone, ma non mancano anche i mini Pan Canasta, ideali specie per le feste tra  bambini.

Un delizioso mini Pan Canasta (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

E così questo prodotto rustico, noto anche come Pan brioche, per la sua morbidezza, ha lasciato i fumosi tavoli da gioco per lanciarsi e reinventarsi con gusto, strizzando sempre l’occhio ad una golosità semplice, veloce e di fronte alla quale difficilmente si può declinare l’invito.

                              Alessandra Fiorilli

Uno straordinario giorno normale…

Quanti di noi, a fine giornata, prima che le nostre vite fossero sconvolte da questa tragedia, esclamavano: “Oggi è stato come ieri! Non è successo niente di particolare! Le solite cose!”.

Ecco, credo che in futuro sarà una frase che non ripeteremo tanto spesso, perché ognuno di noi ormai ha capito l’importanza di ogni singolo giorno, di ogni singolo minuto che trascorriamo in serenità e libertà.

A questo proposito, lascio parlare al mio posto, una metafora, che viene usata dagli psicologi per formare gruppi di lavoro.

 La lessi per la prima volta sedici anni fa, su un libro sul quale stavo preparando il mio ultimo esame universitario.  Spero che vi faccia riflettere ed emozionare.

Buona lettura.

                                                        Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

Il paese dei giorni

C’era una volta il paese dei giorni. Lì abitano tutti i giorni che sono già accaduti e quelli che verranno. In questo paese abita una famiglia nobile, che ha dato i natali a tanti giorni importanti della storia dell’uomo: il giorno della scoperta del fuoco, quello della ruota, dell’America, quello della rivoluzione francese, quello della carta dei diritti dell’uomo, un altro ancora della liberazione.

Ora questa famiglia sta aspettando un nuovo giorno e c’è molta trepidazione. Tutti sperano che questo nuovo giorno diventi famoso come gli altri parenti: ma questo lo potranno sapere con certezza solo dopo alcuni anni.

Così il nuovo nato arriva sulla terra e comincia il suo giro esplorativo. E come ogni neonato è curioso, pronto a scoprire tutte le cose belle, nuove, creative che ci sono in questo giorno, unico nella storia del mondo, che non c’è mai stato prima e non ci sarà mai più. E’ affascinato da tutto ciò che vede, dalle semplici cose quotidiane che accadono in ogni famiglia. Al nuovo giorno tutto sembra meraviglioso, straordinario e non vede l’ora di poter raccontare ai suoi genitori, e a tutta la sua numerosa famiglia riunita, tutte le cose che ha visto. Arriva la notte fonda e lui sa che il suo giorno è finito e che un altro giorno sta per nascere.

Allora discretamente si allontana e torna nel paese dei giorni.

Appena arrivato a casa i genitori e i familiari riuniti gli chiedono di raccontare cosa ha fatto o visto accadere. E lui racconta di colazioni consumate in famiglia, di genitori che sia amano, di giardini con nonni e nipotini, di mamme che generano figli, di feste di compleanno, di matrimoni tra giovani amanti.

E si accorge che i genitori pongono domande strane a cui non sa bene come rispondere. Gli chiedono se si è sposato qualche re, se è stato assegnato un qualche premio nobel, se qualche sportivo ha raggiunto un nuovo record, se qualche scienziato ha scoperto qualcosa di sconvolgente e lui che ha girato per tutta la terra sa che non è successo niente di tutto questo.

Allora i fratelli e i cugini cominciano a chiedergli se è successo almeno qualche disastro ferroviario o aereo, qualche catastrofe naturale, qualche nubifragio o terremoto. Ma il nuovo giorno continua a dire no, niente di tutto questo. Tutto quello che ha fatto o visto accadere l’ha già raccontato. I genitori e tutta la famiglia sono molto delusi da questo nuovo rampollo, e temono che non verrà ricordato dalla storia dell’uomo.

Eppure il bambino sa in cuor suo che invece è stato un giorno straordinario, unico. Lui sa di avere tanti ricordi teneri, fatti di semplicità e affetto che nessuno potrà portargli via.

Finalmente, dopo un po’ di tempo, arriva la tanto attesa lettera, quella che informa sull’importanza riconosciuta dagli esperti a quel giorno. Sulla lettera vi è la prova scritta e la famiglia potrà verificare se questo figlio è degno del casato o se ne sarà il disonore.

Sono tutti riuniti e con molta trepidazione aprono lentamente la busta per leggere velocemente che il giorno del loro ultimo nato è stato eletto “giorno della pace universale”.

Il fatto che in quel giorno non fosse successo niente di particolare, nessun grande avvenimento, e soprattutto nessuna disgrazia, lo aveva reso davvero straordinario.

(Brano tratto da “I porcospini di Schopenhauer”, di Consuelo Casula. Edizioni Franco Angeli).

Ode agli gnocchi

Ci sono dei piatti che non sono soltanto delle pietanze da gustare, ma custodiscono immagini care, capaci, talvolta, di riportarci indietro in tempo.

Chi non ha mai assistito, da bambini, alla preparazione degli gnocchi, con la nonna dal grembiule ombrato di farina? E quante volte abbiamo guardato, incantati, il sapiente movimento delle mani che impastavano con passione semplici ingredienti?

E poi, avremmo sicuramente chiesto alla nonna di aiutarla: eccoci, dunque, forchetta alla mano, ad imprimere su quei piccoli cilindri di pasta, la forma della forchetta, in modo che quelle “rughe” avrebbero assorbito, voluttuosamente, il sugo con il quale sarebbero stati conditi.

Tanta è la poesia che si cela dietro gli gnocchi, da essere considerati non un semplice formato di pasta, ma una famiglia a sé, come confermato dal grandissimo gastronomo e scrittore Pellegrino Artusi, nella sua opera summa “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.

Preparati con le patate, con il semolino, come quelli detti alla romana, o con una semplicissima pasta choux, o pasta bignè, a base di sola farina ed acqua, sanno dominare la scena, anche se il loro condimento è semplice, come richiede la tradizione.

Degli gnocchi si ha notizia già dalla seconda metà del Cinquecento, ma due secoli più tardi arriveranno ad essere annoverati tra i piatti preferiti dai nobili, che sceglieranno di condirli con sughi ricchi e corposi.

A Roma questo piatto è legato un preciso giorno della settimana, quello del giovedì e questa tradizione affonda le sue radici nella cristianità, che vuole il venerdì “di magro” e quindi, un bel piatto di corposi gnocchi mangiati il giorno precedente, rende il povero pranzo del venerdì più sopportabile.

Nella Capitale non è raro trovare tipiche trattorie che ancora seguono questo rituale legato ad una tradizione particolarmente sentita nel secolo scorso.

Regione che vai, giorno dedicato agli gnocchi che trovi: in Campania si servono di domenica, conditi con un semplice sugo al basilico  e mozzarella e, se gratinati al forno, prendono il nome di gnocchi alla sorrentina per il particolare connubio di sapori tipici della costa mediterranea come l’odoroso basilico.

Nell’Italia del nord si preferisce condirli con il burro e la salvia, come era soliti mangiarli durante il Rinascimento,  e portarli in tavola il  venerdì.

Gli gnocchi non disdegnano, come loro compagni, neanche lo speck, le noci, i formaggi.

E quella corposità che avverti appena li porti alla bocca, sono tra le cose più buone che la cucina italiana è in grado di regalarci.

                                   Alessandra Fiorilli

…e uno spiraglio di luce ci abbaglierà…

Era questo che volevi insegnarci, coronavirus, o per chiamarti con il tuo nome proprio, Covid-19?

Volevi farci scoprire l’inutilità delle nostre superflue lamentele sugli obblighi, sempre gli stessi, della nostra vita quotidiana?

Volevi dirci che quello che appariva ai nostri occhi come la “solita routine”, era in realtà, VITA, da vivere e da condividere?

Volevi farci riflettere su come anche le azioni più banali, che compivamo quasi inavvertitamente, come sederci in macchina, andare a fare la spesa, vederci con gli amici per un caffè al bar o invitarli a casa per una cena, erano dei momenti preziosi, che avremmo rimpianto, un giorno non troppo lontano?

Volevi insegnarci il valore e la bellezza di un ABBRACCIO, di un BACIO sulla guancia, di una stretta di mano?

Volevi farci comprendere che non esiste nella vita la cosa scontata, ovvia, quasi banale, perché tutto ciò che riempie i nostri giorni, le nostre ore, ogni singolo attimo, è VITA da vivere e da assaporare?

Volevi forse vederci piangere per questa coltre di paura che sembra avvolgerci?

(Foto di Lorenza Fiorilli)

Volevi forse farci disperare al pensiero di quei momenti, preziosi, ma che non avevano giudicati tali, nell’istante stesso in cui li stavamo vivendo?

Volevi assistere alle nostre lacrime mentre sfogliamo gli album delle foto che ci ritraggono liberi?

Volevi ingabbiare le nostre CERTEZZE e frantumarle e renderle schegge impazzite?

Volevi farci fermare e mettere in pausa le nostre vite?

Ebbene, sì, lo hai fatto, hai fatto tutto questo, ci sei riuscito…e noi?

A noi altro non resta che imparare di nuovo a CAMMINARE: faremo come i bambini… prima avremo paura, saremo incerti, cadremo e piangeremo e in aiuto, come le braccia amorevoli di una mamma, verranno, in fila ordinata, tutte quelle cose che avevamo date per scontate, banali, ripetitive, quasi inutili se non persino, in alcuni casi, noiose.

E allora noi ci RIALZEREMO, con gli occhi ancora umidi di lacrime, ma ci rialzeremo e continueremo, anche se ancora con un’andatura incerta e poi piangeremo di nuovo, ma stavolta per la gioia: perché sopra di noi scorgeremo uno spiraglio di luce che ci abbaglierà…

                                                                                       Alessandra Fiorilli

Da oggi la nuova rubrica “Emozioni in Foto”

Da oggi, la rivista EmozionAmici inaugura una nuova rubrica, “Emozioni in Foto”, in cui troverete gli scatti di Lorenza Fiorilli, Psicologa con l’hobby della fotografia, che i lettori conoscono già per sua la rubrica di Psicologia.

Se volete seguirla anche su Instagram, potete trovarla sull’account fiolor79.

Oggi, uno scatto che riesce a riassumere la situazione attuale: una margherita, sbocciata nel giardino di casa, in questa primavera sospesa, intrappolata, dall’estro della nostra fotografa, da uno scheletro di foglia.

(Tutte le foto pubblicate sono coperte da copyright)

In questa Pasqua “sospesa” arrivano in aiuto i ricordi…

In questa Pasqua di abbracci vuoti di affetti e pieni di  distanze, di campanelli di casa muti, di notizie che ci incalzano con la loro drammaticità, ecco, proprio ora abbiamo bisogno di aggrapparci, con tutte le nostre forze, all’immagine di giorni felici, nella speranza, da far  diventare certezza, che tutto torni com’era prima dell’emergenza sanitaria.

In questa Pasqua così lenta, quasi “sospesa”, senza i piatti del servizio buono da sistemare sulla tavola, senza l’immancabile tovaglia bianca che ha un profondo valore simbolico, ancora più forte è la nostalgia…e stamane, allora, non le ho opposto resistenza e mi sono lasciata trascinare da essa.

Il Casatiello con tanto di uova (Foto per gentile concessione di Rosa Umili)

Eccomi: ho nove anni, scendo giù dai nonni e li trovo entrambi in cucina, sorridenti e amorevoli.

Li abbraccio forte, forte, forte e sembra così impossibile che possa arrivare un giorno in cui ci sia proibito farlo.

Nell’aria, i sapori della festa e, sul piatto grande di porcellana bianca, il casatiello della nonna è già lì, che ci attende, ci attende per abbracciarci con i suoi sapori che rimarranno impressi nel cuore.

Il Casatiello (Foto per gentile concessione di Maria Umili)

Il nonno sta già tirando fuori dalla vetrinetta del soggiorno il servizio dei giorni di festa, tra poco arriveranno tutti gli altri e saremo quello che si dice, “una bella tavolata” e sembra davvero incredibile che un giorno ci sia impedito di riunirci con parenti ed amici.

Il Casatiello è  lì, sembra mi chiami…la tentazione è forte, ma so che dovrà far bella figura di sé intatto, quando sarà portato a tavola.

Lo guardo con insistenza: quel colore dorato, quell’odore inebriante, e quel cuore morbido, saporito, umido che mi aspetta.

Sono la prima nipote, i nonni non riescono a dirmi di no e me ne tagliano una fetta…chiudo gli occhi e quasi mi commuovo.

Questa torta rustica, che la nonna prepara ogni Pasqua,è il simbolo di questa festa, delle tradizioni che i nonni hanno portato dalla loro terra casertana, di un rito ormai irrinunciabile per la nostra famiglia.

“Quando sarai grande ti dirò come prepararlo”, mi svela dolcemente la nonna.

Lei, che non ha la ricetta scritta, ma sa tutto a memoria, come sua madre, sua nonna, vuole insegnarmi un’arte a me sconosciuta.

Il Casatiello ornato da un ramoscello d’ulivo (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

So già che non sarò mai brava come la nonna ad impastare tutti gli ingredienti e poi…poi come farei a mangiarne una fetta senza di lei, senza i nonni?

Oggi quel Casatiello mi manca ancora di più, perché a colmare il vuoto di presenze così care, non ci saranno gli abbracci e i baci degli amici, la lunga tavola apparecchiata con cura, il servizio buono dei piatti, l’allegria di un giorno di festa che si preannuncia con il sole e con le temperature di una primavera inoltrata.

Ma a darmi forza torna sempre il ricordo del nonno, il quale, quando mi vedeva un po’ abbattuta mi diceva con il suo perfetto latino: “Sursum Corda”, ovvero, “In alto i cuori”.

E oggi, carissimi lettori di EmozionAmici, permettetemi di dirlo io a tutti voi, a tutti noi, a tutti gli Italiani divisi, separati, lontani, ma sorretti  da quella forza che ci ha ci sempre contraddistinto: “Sursum Corda”, dunque, e tanti affettuosi auguri di Buona Pasqua, carissimi lettori di EmozionAmici

                                                Alessandra Fiorilli

La Pigna di tarallo: la sua storia e il suo significato simbolico

Tipica della città di Caserta e della sua provincia, la Pigna di Tarallo è l’altro dolce simbolo, accanto alla Pastiera, della festività pasquale in terra campana.

Può essere considerata la sorella dell’altro immancabile protagonista della tavola di Pasqua, il tortano o casatiello: non  a caso, la Pigna è anche conosciuta con il nome di “casatiello dolce”.

Grande manualità ed esperienza, quella che viene richiesta per la preparazione della Pigna, il cui impasto dovrà essere senza grumi e soffice.

E’ un dolce che racchiude in sé una profonda simbologia, come quella che si cela dietro la durata richiesta per la lievitazione: 72 ore, proprio il tempo che va dalla morte di Gesù alla sua Resurrezione.

 Al suo interno nessuna farcitura, e questa sua peculiarità, sino alla prima metà del secolo scorso, significava avere la colazione garantita per i più piccoli almeno per una paio di settimane: con il passar dei giorni, il dolce, infatti,  induriva e questo lo rendeva ideale per inzupparne una fetta nel latte.

Quello che invece, migliorava, era l’aroma sprigionato: un misto di vanillina e di limone in grado di regalare al palato un trionfo di sapori.

Qualche curiosità sul nome:  sembra che derivi da “pignata”, un recipiente di coccio usato per la cottura dei fagioli, e la cui forma era proprio ricalcata da questo dolce pasquale.

Il secondo appellativo, “tarallo”, è legato, invece, alla consistenza, alquanto simile a quella  dei rustici pugliesi, che assume dopo qualche giorno dalla preparazione.

Solitamente è  ricoperto da una glassa bianca,  ma c’è chi lo preferisce senza glassatura per godere della vista delle “fresature”, ovvero  aperture che ricordano le crepe sui fianchi di un vulcano e che non sono delle imperfezioni, quanto piuttosto un effetto della crescita della Pigna stessa.

E con la storia di questo dolce tipico pasquale, la rivista EmozionAmici augura a tutti i suoi lettori una Serena Pasqua, nonostante il difficile periodo che stiamo vivendo.

Ce la faremo, distanti fisicamente ma vicinissimi nel cuore.

                                                                                   Alessandra Fiorilli

La Lasagna: non un piatto della Festa, ma la Festa stessa.

E’ il simbolo della Festa e della famiglia che prende posto intorno alla tavola imbandita.

E’ gioia, voglia di stare insieme, è felice condivisione di momenti.

E’ la regina della gastronomia italiana: è la lasagna.

La sua origine sembra affondare le radici in epoca romana, quando si preparava il “laganon”, una sottile sfoglia con farina di grano e cotta direttamente sul fuoco: non a caso l’altro termine, “lasanum”,  dal quale potrebbe derivare il nome attuale,   indicava  proprio il treppiede che si portava sul fuoco per cuocere i cibi.

Apicio parla di una “lagana” descrivendola come un insieme di sfoglie sottili di pasta che venivano, poi farcite con carne. Il piatto degli antichi romani differiva, però, dal nostro, in quanto non si presentava come quello che siamo soliti portare in tavola: somigliava, infatti, più ad un pasticcio di pasta farcita.

Il Medioevo è l’epoca d’oro della lasagna, non a caso viene menzionata in molte opere di scrittori: da Jacopone da Todi a Cecco Angiolieri.

L’epoca successiva, quella rinascimentale, vede nel nord Italia, in particolare nell’Emilia Romagna, l’aggiunta delle uova all’impasto e l’accurata preparazione della lasagna la ritroviamo in una ricetta del XIV secolo, dove si parla di : “Strati di pasta e formaggi alternati”.

L’aggiunta del pomodoro, però, avverrà solo intorno al 1660, quando la  famosa “salsa napoletana” regalerà alla lasagna quel tocco in più.

E’ della prima metà del XVII secolo una ricetta contenuta in un libro pubblicato proprio a Napoli, dove si legge di : “Lasagne stufate, condite con mozzarella e cacio e poi messe in forno”.

Tradizione vuole che uno dei più ghiotti in assoluto della lasagna fosse proprio un re di Napoli, Francesco II di  Borbone, al quale venne dato persino il nomignolo di “re lasagna”, per indicare quanto fosse forte la sua predilezione per questo piatto.

Ippolito Cavalcanti, noto cuoco napoletano, nel suo ricettario del 1837, descriverà minuziosamente questo piatto a base  di: “Strati di pasta intervallati da un sugo di carne, piccole polpette, fette di mozzarella o provola, formaggio grattugiato”: la lasagna che tutti conosciamo ed apprezziamo è già nata.

Sarà un evento storico importante, quello dell’Unità d’Italia, a far accendere l’interesse di molti, attorno a questo piatto che diventerà, per gli italiani, il simbolo della festa per eccellenza.

Eppure, quando nel 1891 è pubblicato il volume “La scienza in cucina” del notissimo Pellegrino Artusi, lo stesso gastronomo, non menziona, nella sua opera, la lasagna.

Le variazioni che vengono apportate alla ricetta base fanno trasparire l’importanza che alcuni ingredienti rivestono nella tradizione gastronomica delle regioni italiane: in Liguria, ad esempio, il ragù viene sostituito con il pesto, in Veneto si ha l’aggiunta del Radicchio rosso IGP, mentre nelle regioni adagiate sugli Appennini si preferisce infarcire la lasagna con i funghi porcini e il tartufo, mentre in Sicilia non mancheranno, nel ripieno, le melanzane.

Dal Nord al Sud della nostra penisola, dal mare alla montagna, le variazioni alla ricetta originaria nulla tolgono al significato che la lasagna riveste nella tradizione, e non solo gastronomica, italiana.

                                Alessandra Fiorilli

Mie amatissime Alpi, fate da eco al nostro grido “ANDRA’ TUTTO BENE”…

Mie amatissime Alpi,

è su di voi che ogni giorno il mio pensiero indugia con un velo di profonda nostalgia. I miei primi passi non sono stati mossi sui vostri prati,  perché, come ben sapete, sono nata in una cittadina sulla costa e credevo,  nella mia ingenuità di piccola bimba, che tutte le città avessero il proprio mare, quasi fosse un diritto “non scritto” della geografia.

Poi, grazie alla cartina geografica,  scoprii la variegata bellezza naturalistica della nostra Italia  e, più tardi, a scuola, la maestra parlò di voi come della  corona posta sulla testa della nostra meravigliosa nazione.

Piansi insieme ad Heidi, quando, la piccola protagonista del cartone animato fu portata a Francoforte, e da qui non riusciva a scorgere, nemmeno in lontananza, le sue amate montagne. La sua struggente nostalgia, oggi, in questi giorni di reclusione forzata, è anche la mia…e quando indugio sulle foto che mi ritraggono vicino a voi, mie carissime Alpi,   io a stento riesco a trattenere le lacrime, perché queste foto sembrano essere immagini di una vita così lontana…

 E così, per sentirmi più vicino a voi, vi immagino, giganti buoni solitari, senza turisti, senza il via vai delle cabinovie, e, ad occhi chiusi, percepisco il silenzio irreale che domina da voi, in questi giorni.

Allora m’immagino lì, al vostro cospetto,  apro le braccia e urlo a squarciagola: “ANDRA’ TUTTO BENE, ANDRA’ TUTTO BENE” e l’eco rimanda questo messaggio di speranza che attraversa, da nord a sud,  la nostra Italia.

Questo parole, però, a differenza dei primi giorni dell’epidemia, custodiscono in sé anche le lacrime per le decine di migliaia di nostri connazionali che non ce l’ hanno fatta, per quelle bare trasportate da mezzi militari, per quei necrologi che riempiono decine e decine di pagine dei quotidiani, per le famiglie spezzate, per gli abbracci che mancano ogni giorno di più, per le difficoltà economiche di padri di famiglia disperati.

E spero che questo virtuale “ ANDRA’ TUTTO BENE”,  che la mia immaginazione grida davanti a voi, giunga più facilmente al cielo e squarci il velo di tristezza che invece, voi, mie amatissime Alpi,  sapevate cancellare con la vostra maestosità, con i vostri prati sterminati, con le vostre vette innevate e incontaminate, con i vostri ghiacciai perenni.

                                                     Alessandra Fiorilli                                                            

Il radicchio rosso trevigiano: la carta d’identità di questo prodotto italiano IGP

L’Italia è una nazione che può vantare un grande numero di prodotti DOC, DOPIGP:  tra questi ultimi, anche il Radicchio Rosso di Treviso, la cui zona di produzione è esplicitamente dichiarata nel Disciplinare dell’ Indicazione Geografica Protetta e comprende 24 comuni  tra le province di  Treviso, Padova e Venezia.

IGP è il marchio che identifica il territorio il  quale, grazie a specifiche caratteristiche, è in grado di dare, a un prodotto qualità che lo differenziano da altri della stessa specie.

I terreni dei 24 comuni compresi nelle tre province venete suindicate, sono fertili e ricchi delle acque purissime di falda che provengono direttamente dalle Dolomiti. Scorrendo sotto la ghiaia, risalgono in superficie, originando corsi d’acqua quali il Sile, il fiume che si può ammirare passeggiando per la città di Treviso.

E proprio da questa  città, la storia vuole che tutto abbia inizio: si narra, infatti, che il vivaista Francesco Van Den Borre, giunto dal Belgio nel 1870 per realizzare un giardino nel trevigiano, abbia fatto arrivare, in terra veneta, la tecnica di imbiancamento che veniva usata per le cicorie belghe, nonostante la coltivazione del radicchio fosse già avviata nella zona di Treviso, già nel XVI secolo

La sua famiglia d’origine è quella della comune cicoria, ma a rendere questo prodotto così unico ed apprezzato, è la  particolare lavorazione cui viene sottoposto.

Il Radicchio  rosso si divide in due categorie: il Precoce e il Tardivo, quest’ultimo è molto più pregiato e  richiede un trattamento complesso.

Già il nome con il quale è conosciuto, “re dell’inverno”, ci fa comprendere come il suo sviluppo sia legato al freddo: non a caso, lo stesso Disciplinare di Produzione prevede che la raccolta del radicchio debba avvenire dopo due brinate.

Vediamo insieme come nasce il radicchio trevigiano IGP: messi a dimora i semi nei vivai, le piantine vengono, successivamente, collocate nel terreno, tra luglio e metà agosto.

Con l’arrivo della prima brinata, verso il mese di novembre, si ha la raccolta delle piante che vengono, così, ripulite delle foglie più esterne, legate tra loro e immerse in vasche con acqua risorgiva per ottenere l’imbiancamento, periodo, questo, che dura 20-25 giorni, durante il quale le radici del radicchio diventano bianche e assorbono le sostanze nutritive dell’acqua stessa.

In questo lasso di tempo, le piante, grazie al buio e alla temperatura che si aggira intorno ai 10-13° C, germogliano di nuovo.

Dopo la  fase della “toelettatura”, il radicchio viene lavato ed è pronto ad arrivare in tutto il mondo.

E così, sui banchi ortofrutticoli,  si offre, languidamente, con il suo rosso scuro intenso delle foglie attraversate da striature bianche.

Ricco di antiossidanti, con un basso contenuto calorico, essendo composto per circa il 92% da acqua, il radicchio aiuta a contrastare i radicali liberi e l’invecchiamento, oltre a rappresentare un’ottima fonte di vitamina A, B1, B2.

Il sapore piacevolmente amarognolo e la sua consistenza croccante lo rendono ideale per il consumo sia crudo, in insalata, che cotto alla griglia.

Ottimo come ingrediente principe del risotto al formaggio Asiago, il radicchio trevigiano è un prodotto d’eccellenza italiano e il simbolo di un’antica tradizione capace di regalare un prodotto unico.

                                                   Alessandra Fiorilli