Murano, la sua millenaria Arte vetraia e la storia della famiglia di Reno Schiavon.

Ci sono nomi che evocano, al solo pronunciarli, un’arte così unica da creare un binomio inscindibile: è il caso di Murano,  universalmente nota per le sue creazioni artigianali.

Una delle creazioni dell’atelier di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli)

Si narra come questo legame così forte tra l’isola nella laguna di Venezia e il vetro, affondi le sue radici già in epoca pre-romana. anche se lo sviluppo dell’arte vetraia, così come la si conosce ancora oggi, avviene, però,  nel Medioevo, quando il genio artistico dei Maestri, unito all’uso del vetro sodico noto agli Orientali, darà vita a creazioni uniche.

Dalla città di Venezia i Maestri vetrai si trasferiscono, successivamente, sull’isola di Murano, anche per una decisione della Repubblica Veneziana di spostare, per motivi di sicurezza,  le botteghe dalla città lagunare alla  vicina isola.

E se le materie prime continuano a giungere dal lontano Oriente, è l’eccelsa bravura dei Maestri a rendere Murano sinonimo di un’arte che viene sempre più richiesta anche nelle corti rinascimentali, le quali si abbelliscono di opere eccelse.

Particolare di un lampadario in vetro di murano realizzato nella ditta di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli)

La caduta delle Repubblica di Venezia segna una battuta d’arresto per l’arte vetraria muranese, a causa di due eventi storici: l’abolizione delle Corporazioni artigianali, come conseguenza di una decisione presa da Napoleone Bonaparte, e la concorrenza dei vetri provenienti dalla Boemia e dalla Carinzia.

Ma la passione è più forte di tutto e così, a metà del 1800, l’attività artigianale che non aveva mai del tutto smesso, riprende con nuovo slancio, offrendo al mondo la novità del vetro filigranato.

Quando il Veneto viene poi annesso al Regno d’Italia, l’arte ritorna agli antichi splendori,  e il vetro muranese diventa il simbolo di passione, tenacia,  professionalità.

La stessa passione, tenacia e professionalità, tramandata di generazione in generazione,  caratterizza una delle vetrerie di Murano, quella di Reno Schiavon, il quale, sul finire degli anni novanta del secolo scorso, ha trasformato l’antico stabilimento della sua famiglia in un centro dove si può imparare l’ arte vetraia.

In primo piano, una scarpa di vetro realizzata nell’atelier di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli

Molti artisti, infatti,  sono usciti proprio dalla fucina di Reno Schiavon, la cui ditta nasce da una lunga tradizione familiare. La passione per il vetro è stata tramandata di padre in figlio fino ad oggi, come ci dice la figlia di Reno, la signora Giorgia, la quale ci ha fatto visitare il loro atelier dove, accanto ai pregiati lampadari e agli elementi d’arredo esportati in tutto il mondo, vi  sono delle vere e proprie opere d’arte, davanti alle quali l’anima si emoziona, si commuove.

“     I nostri prodotti– racconta Giorgia – nascono innanzitutto da un’idea che poi viene trasferita su carta realizzando uno schizzo. Successivamente il maestro prepara, in base al progetto, una composizione dalla quale partire utilizzando piccoli pezzi di vetro colorato, per lo più canne e murrine anch’esse da noi prodotte, che poi verrà fatta fondere. Da qui, l’Artista otterrà una massa la quale sarà lavorata fino ad ottenere l’opera finale, sia esso un vaso, una scultura, un parte di lampadario o un oggetto per la tavola”.

Volti in vetro di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli)

Quello che colpisce  il visitatore della fornace, dove si può vedere all’opera l’artista, è il modo in cui lavora il vetro, la veloce sequenza di gesti, accurati, sicuri e precisi che danno poi vita all’oggetto: ”Per quanto riguarda la tempistica- dice Giorgiail Maestro vetraio necessita di circa un’ora e mezza per ottenere l’oggetto grezzo. Poi ci sono altri processi ai quali il pezzo è sottoposto, tipo la fase di assestamento all’interno della tempera ed il passaggio nel nostro reparto chiamato “moleria”, dove il pezzo viene successivamente rifinito dalla figura del “molatore”, appunto”.

Degli eleganti gattini di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli)

Diventare un artista del vetro richiede doti non comuni, come ci conferma Giorgia:” Un Maestro vetraio deve avere sicuramente molta fantasia, creatività, manualità e destrezza nel maneggiare una materia così particolare ed affascinante”.

Vasi in vetro multicolore di Reno Schiavon (Foto d Lorenza Fiorilli)

La giornata- tipo del Maestro vetraio: “ Inizia presto al mattino-svela Giorgia-. La prima cosa alla quale si dedica è il controllo degli strumenti, i quali, durante la lavorazione, devono essere tutti al loro posto per garantire uno svolgimento veloce e preciso della lavorazione, il tempismo e la precisione sono, infatti, essenziali . Poi passa al controllo della scaletta giornaliera di produzione e verifica che le composizioni di base siano pronte e fedeli agli schizzi realizzati. Eseguiti tutti i controlli, il Maestro può mettersi all’opera”.

I lampadari, esportati in tutto il mondo, di Reno Schiavon (Foto di Lorenza Fiorilli)

E quando il vetro prende forma e colore, trasformandosi in oggetti d’arte talmente belli da togliere il fiato, ci si rende conto di quanto possa  la maestria dell’uomo, quando è unita ad una passione che ha saputo attraversare i secoli.

                                                Alessandra Fiorilli

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Tra antiche tradizioni, classiche ricette e un pizzico di innovazione, ecco le protagoniste del Carnevale: le frappe e le castagnole.

Tra carri allegorici e cortei in maschera, tra stelle filanti e coriandoli, ecco arrivare anche loro: le frappe e le castagnole, i dolci tipici di questa festa antica, che affonda le sue radici nell’antica Roma dove, in onore di Saturno, si organizzavano feste goliardiche chiamate, appunto, Saturnalia.

Era questo, un periodo nel quale l’ordine delle cose poteva essere sovvertito per tornare, poi, rinnovati e rigenerati, ad un assetto nel quale la morigeratezza dei costumi  ed il rispetto delle regole avrebbero rappresentato, nuovamente,  il cardine fondamentale dell’intera società.

Durante i Saturnalia, non poteva certo mancare la celebrazione anche della gola: ecco nascere, i Frictilia, ovvero dei dolci fritti nello strutto che venivano distribuiti alle persone le quali, durante questo periodo delle storia romana, si riversavano, numerose, nelle strade.

E sempre un grande gastronomo  e cuoco, nonché scrittore romano, Marco Gavio Apicio, parla nel suo libro “De re coquinaria”, di frittelle a base di uova e farina tagliate a bocconcini, fritte nello strutto e cosparse di miele.

Con l’avvento del Cristianesimo la festa del carnevale rappresenta l’ultimo avamposto della celebrazione dei peccati di gola e della goliardia, non a caso il Martedì Grasso, che conclude il Carnevale, precede di un  giorno il Mercoledì Delle Ceneri, con il quale ha inizio la Quaresima, che conduce alla celebrazione della Santa Pasqua.

Proprio  il nome Carnevale sembri derivi dal latino “Carne levare”, ovvero togliere la carne,  perché, secondo l’ortodossia cristiana, nei quaranta giorni che vanno dal martedì grasso alla Pasqua di Resurrezione, non andrebbe consumata la carne.

Inalterate sono rimaste, invece, sin dall’epoca romana, le tradizioni legate alla preparazione e al consumo dei dolci: le classiche frappe, dirette discendenti delle  Frictilia, sono ancora il simbolo di questa festa, anche se la ricetta più simile a quella dell’odierna frappa, è quella che Domenico Romoli scrive, nel 1560, in un suo libro, dove parla di questo impasto a base di farina, uova, zucchero, stesa, tagliata a strisce, fritta nello strutto e cosparsa di miele.

Regione che vai, nome che trovi di queste gustose strisce di pasta dai bordi arricciati e spolverate di abbondante  zucchero a velo: chiacchiere, cenci, frappole, crostoni, bugie.

Una leggenda vuole che proprio il nome di chiacchiere, con cui sono conosciute in molte regioni d’Italia,  sia legato alla richiesta della regina di Casa Savoia al suo cuoco Raffaele Esposito, di deliziare le conversazioni, o chiacchiere, appunto, nelle stanze di Palazzo Reale  con dei dolci fragranti, semplici ma saporiti.

Con il tempo si sono aggiunte anche delle varianti alla ricetta originaria: c’è chi aggiunge all’impasto, ad esempio, il marsala, il Vin Santo o quello bianco.

Più recente, invece, l’origine dell’altro dolce tipico del carnevale: le castagnole, così chiamate perché, per la loro forma e dimensione, ricordano, appunto,  quella della castagna.

I primi cenni scritti di quest’altra delizia, li troviamo nell’Archivio di Stato di Viterbo: siamo nel 1700, ma c’è chi fa risalire la comparsa delle castagnole, impasto a base di uova, zucchero, farina, burro, un secolo prima, alla corte degli Angiò e dei Farnese.

Anche le castagnole, nel corso del tempo,  hanno visto aggiungere al loro impasto originario, il rum, il cioccolato, l’alchermes, così come le frappe hanno conosciuto anche un altro metodo di cottura, quella al forno.

Cambiano il tempo e le abitudini ma loro, le frappe e le castagnole, rimangono sempre le indiscusse protagoniste del Carnevale.

                                             Alessandra Fiorilli

Ipercolesterolemia familiare, Dislipidemie e Sindrome Metabolica: ne parliamo con uno dei maggiori esperti internazionali, il Professor Paolo Calabrò

Di ipercolesterolemia si parla quando il colesterolo, grasso fondamentale per l’uomo, prodotto principalmente dal corpo ed introdotto per un 20/30% con l’alimentazione, supera i 200 mg/dl.

Se l’ipercolesterolemia si associa al diabete e all’ipertensione, può causare, più facilmente, la formazione di placche aterosclerotiche e c’è una probabilità maggiore che si registrino eventi cardiovascolari come l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e l’ischemia degli arti inferiori.

Ne parliamo con uno dei massimi esperti in campo internazionale, il Professor Paolo Calabrò,  direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, direttore del Dipartimento Cardio-vascolare e Professore Ordinario della  Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione di Paolo Calabrò)

All’interno del quadro generale dell’ipercolesterolemia, esiste quella di tipo familiare, che si ha, più spesso: “A causa  dell’alterazione genetica del recettore LDL”, ossia il recettore del colesterolo cosiddetto “cattivo”.  Chi ha queste mutazioni e, quindi, alti livelli di colesterolo sin dalla nascita, va incontro ad una rapida formazione di placche aterosclerotiche. Attraverso dei prelievi ematici in alcuni Centri specializzati, come il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, è possibile eseguire dei test genetici che possono confermare o meno la diagnosi di ipercolesterolemia familiare.  Eseguiti gli esami ematologici di routine, come colesterolo totale, HDL, LDL, emocromo, glicemia, funzionalità epatica, tiroidea e renale, il paziente sarà seguito nel percorso di follow-up e, scelta la terapia migliore, tornerà presso il centro, per monitorare il tutto.  Uno screening familiare consente, quindi, di poter intervenire in maniera tempestiva all’interno di un quadro dove, purtroppo, l’assunzione di integratori alimentari, quali il riso rosso fermentato, hanno un ruolo marginale. In questi casi, il ricorso alle statine, che agiscono soprattutto sull’inibizione della produzione del colesterolo endogeno da parte del fegato, è necessario. Demonizzate da più parti, hanno subito un attacco indiscriminato. Non possiamo dire che non abbiano effetti collaterali, ma il più delle volte sono proprio necessarie, inoltre, quelle messe a punto più recentemente, risultano maggiormente tollerate.”

Talvolta alla statina, che va ad agire sul processo di sintesi, si associa anche all’ezetimibe, che ha la funzione di limitare l’assorbimento dello stesso colesterolo. “Ultimamente ci sono anche farmaci di ultima generazione, come gli inibitori di PCSK9 che sono mostrati sicuri ed estremamente efficaci nel ridurre il colesterolo LDL”.

Il paziente che è affetto da ipercolesterolemia familiare, però, non deve schermarsi dietro questa alterazione genetica e pensare che nulla possa fare, oltre ad assumere i farmaci: “Anche per questi soggetti è importante seguire uno stile di vita adeguato, ovvero un’alimentazione varia ma corretta, e praticare un’attività fisica regolare, che aiuta, specie nei pazienti in sovrappeso, a diminuire il gito vita, ad abbassare la pressione arteriosa e a e far rientrare a valori accettabili anche la glicemia, che può trovarsi in concomitanza ad alti valori di colesterolo.”

Per quanto attiene all’alimentazione, il Professor Calabrò sottolinea come: “Per alcuni cibi non è il caso di parlare di abolizione totale, come per i formaggi, quanto di riduzione e moderazione nell’assunzione. Il junk-food, invece, è da eliminare, ma questo vale per tutti e non solo per chi è affetto da ipercolesterolemia familiare”. 

Accanto ai soggetti che sono affetti da tale patologia,  c’è un’altra tipologia di pazienti, ovvero coloro i quali si trovano a dover fronteggiare elevati tassi di colesterolo e trigliceridi nel sangue a causa di un’alimentazione e di uno stile di vita scorretto:” Siamo di fronte da un quadro clinico misto, che in gergo medico chiamiamo dislipidemia, caratterizzato da colesterolo, trigliceridi, basso colesterolo HDL, il cosiddetto colesterolo buono; quadro, anche questo, che conduce allo sviluppo di placche aterosclerotiche. C’è comunque da fare un distinguo necessario: in presenza del solo colesterolo è più facile agire prima che si formino le placche, le quali, senza un trattamento specifico, per loro naturale storia, tendono ad aumentare. Nonostante tutto, chi dovesse riscontrare la presenza di placche aterosclerotiche, ad esempio attraverso un ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, non deve sentirsi “bollato”. La placca, grazie alla somministrazione di farmaci, può persino  diminuire”.

Si sente parlare sempre più spesso anche di Sindrome Metabolica: “Anche questa è causata spesso da uno stile di vita scorretto ed è caratterizzata da un aumento della circonferenza della vita, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete e dislipidemie”

Un cambio di alimentazione unito a un’attività fisica regolare, possono essere d’aiuto per combattere tale sindrome: “Sono sufficienti 30, 40 minuti di camminata a passo sostenuto ogni giorno per 4-5 volte la settimana. La camminata veloce, inoltre, è in grado di far aumentare il colesterolo buono. Bene anche l’assunzione, moderata, di vino rosso che contiene polifenoli”.

                                               Alessandra Fiorilli

Il cantuccino ci racconta la sua storia

Sul finire del 1600 faccio la mia comparsa sulle tavole toscane: custodisco, nel mio impasto, di farina, zucchero e chiara di uovo, come scrive di me la prestigiosa Accademia della Crusca.

Qualche anno dopo aggiungono anche le mandorle, ma bisognerà attendere il 1800 affinché io possa assumere le fattezze che oggi tutti conoscono ed apprezzano.

Ho l’onore di essere portato persino a Parigi, in occasione dell’Esposizione Universale del 1867.

Nasco da un impasto a forma di filoncino  a base di farina, zucchero, uova, burro, miele e mandorle che viene poi tagliato a fette,   e non è un caso che il mio nome cantuccino, derivi proprio “cantellus” che, in latino, significa pezzo o fetta di pane.

I deliziosi cantuccini IGP (foto di Alessandra Fiorilli)

Ho molti fratelli sparsi in tutta Italia: nel Lazio ed in Umbria  si chiamano tozzetti, in Basilicata  stozze e in Sicilia  tagliancozzi. Siamo tutti buoni ma, mentre alcuni di loro sono preparati anche con nocciole o gocce di cioccolata, io seguo l’antica ricetta perché mi fregio del marchio IGP, Indicazione Geografica Protetta.

Il mio compagno di avventure è il Vin Santo, ottenuto da uva trebbiano o malvasia e lasciata appassire dopo la raccolta.

L’aggettivo “Santo” sembra derivi dal fatto che un frate francescano, mentre la peste si era impossessata di Siena, nel XIV secolo, avesse curato dei malati proprio con il vino usato durate la celebrazione eucaristica.

Altri raccontano che  qualcuno, giunto  a Firenze dalla Grecia, assaggiando il vino,  avesse detto che tanto somigliava al loro “Xatos”, il passito greco e da qui, per assonanza, il nome italiano di “Santo”.

Qualunque sia la sua origine, il Vin Santo è il mio compagno preferito perché mi ammorbidisce, rendendomi irresistibile e non c’è mai nessun turista che vada via dalla Toscana senza avermi gustato e io, ogni volta, mi lascio andare languidamente…

                                              Alessandra Fiorilli