Il Natale siciliano profuma di ritorni, della tradizionale Scaccia fatte in casa, di miele, di mandorle…

Una terra come quella siciliana, che ha vissuto un esodo massiccio tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso,  non attende altro che i  suoi figli sbarchino dagli aerei o dal traghetto che attraversa quel lembo di mare che la separa dalla Calabria.

E cosa è Natale se non un ritorno a casa, tra le braccia dei propri familiari, tra gli odori di una terra mai dimenticata?

E cosa è Natale se non preparare, in onore di chi ritorna in occasione del Natale, la tradizionale Scaccia cotta ancora nel  focolare domestico?

Una tipica Scaccia ragusana

Semplice ma gustosa, la Scaccia è   una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale, ingredienti che, impastati insieme e fatti crescere,  vengono poi lavorati nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva. L’impasto così ottenuto viene poi divisi  in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno,  la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, la Scaccia è pronta per  essere infornata per circa mezz’ora in quel forno in pietra ancora ospitato in molti casolari di campagna.

…di nuovo la tipica Scaccia…

La storia vuole che la Scaccia arrivò, per la prima volta sulla tavole natalizia, nel 1763, quando il Principe Moncada, la volle per celebrare la Santa Festività:  da allora è sinonimo di Natale, di famiglia, di ritorni.

Tra i  dolci tipici siciliani del periodo natalizio, invece, spicca il famoso torrone di mandorle, noto anche con il nome di cubaita, di origine saracena, tanto che il termine arabo qubbait  significa proprio mandorlato.

Il tradizionale torrone alla mandorla (foto per gentile concessione di Dora Paternò)

La ricetta più diffusa e tipica, infatti,  vuole che siano utilizzate per la preparazione solo le mandorle unite a  zucchero e miele,  anche se ci sono varianti nell’uso della frutta secca: c’è chi preferisce preparare il torrone con i tipici e famosi pistacchi dell’area etnea in provincia di Catania o con il sesamo.

Tipici della zona di Ragusa,  anche le praline di cioccolato  con la pasta  di mandorle mista a cacao. Tradizione vuole che le prime a preparare questi deliziosi dolcetti siano state le suore del Monastero di San Carlo di Erice, e sempre in un Convento, quello di Martorana, a Palermo, nacque la pasta di mandorla, usata per la preparazione di rinomati dolci.

Le praline con pasta di mandorla e cacao (foto per gentile concessione di Dora Paternò))

E anche se la Scaccia, il torrone alla mandorla, i pasticcini, possono essere preparati anche  durante tutto l’anno, la magia dell’atmosfera natalizia regala loro un gusto unico e particolare, capace di arrivare sin  dentro l’animo.

…e i famosi pasticcini alla pasta di mandorle (foto per gentile concessione di Dora Paternò)

                                                           Alessandra Fiorilli

La tradizione natalizia campana: pizza di scarola, struffoli, roccocò, mostaccioli

La tradizione è quell’anello che unisce due sponde egualmente importanti nella vita dell’uomo: il passato e il futuro. E così, ciò che è appartenuto agli avi diventa di nuovo nostro, nel presente, ed è pronto a tuffarsi nel futuro, laddove le nuove generazioni raccoglieranno il testimone fatto di sapori, emozioni, momenti di convivialità che si vivono, si assaporano, si ricordano.

La pizza di scarola in preparazione (foto per gentile concessione di Maria Umili)

E cos’è il Natale se non la massima espressione di condivisione e di tradizioni che strizzano l’occhiolino e che ci chiamano, ci ammaliano, ci rapiscono?

La pizza di scarola appena sfornata (foto per gentile concessione di Maria Umili)

L’articolo di oggi apre una serie di storie legate alle tradizioni natalizie italiane: iniziamo con quella napoletana, fatta di un pranzo del 24 “di magro”, dove la pizza di scarola è la protagonista, pronta, poi,  a passare il testimone ai dolci il cui nome fa subito Natale: struffoli, roccocò e mostaccioli.

…e gustata dai commensali (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Ma iniziamo dalla prelibata pizza di scarola che affonda le sue radici in centinaia e centinaia di anni fa, quando le donne di Napoli, per il pranzo della Vigilia, impastavano gli ingredienti della classica pizza con friarielli (che verranno poi abbandonati) e scarola, le due verdure più diffuse sulle tavole dei napoletani. Il cenone che sarebbe arrivato in tavolo la sera richiedeva stomaci sgombri da ogni prelibatezza e così all’ora di pranzo, le famiglie erano solite mangiare la pizza di scarola arricchita da uvetta passa, pinoli, olive, capperi, e anni dopo, anche con acciughe sotto sale debitamente diliscate.

E così il classico piatto povero per eccellenza, ovvero la verdura condita accompagnata dal pane, si era trasformata in una pizza alta, soffice, umida e morbida che solo chi  l’ha gustata almeno una volta ne conosce l’inconfondibile sapore.

Ma Natale è anche e soprattutto dolci…dolci che non sono solo da gustare ma da ammirare, quasi fossero opere d’arte le quali nascono, ancora oggi, non solo in tutte le pasticcerie, ma anche e soprattutto nelle case dove le mamme non hanno mai relegato in un angolo le tradizioni  della propria famiglia, ma la continuano a portare avanti, con gioia e pienezza d’animo.

Proprio come le sorelle Maria, Rita e Rosa le quali, in prossimità delle feste natalizie, inondano le proprie case di odori e sapori che non sanno solo di zucchero, miele, cioccolato ma di tradizioni, di desiderio di voler continuare a fare ciò che la madre e le nonne erano solite fare per loro.

Immancabile ad arrivare sulle loro tavole, la pizza di scarola :” Che dava la possibilità alle donne, di impiegare tutto la giornata del 24 nella preparazione del cenone”, come dichiara Maria.

Ma l’aria si riempie di buonissimi odori molti giorni prima di Natale, con quei dolci che:” Vengono preparati con largo anticipo in quanto, essendo secchi e senza creme al loro interno, si conservano senza problemi”.

E quando si parla di dolci natalizi, immancabile sulle tavole, il re: gli struffoli : “Palline di pasta con farina uova, zucchero che vengono fritte e poi, una volta raffreddate, colate di miele e decorate con confettini colorati”.

Struffoli appena fritti ( foto per gentile concessione di Rosa Umili)

La tradizione vuole che il nome struffoli derivi dal greco, ma non si esclude un legame anche con la lingua e la tradizione spagnola che ha tra i suoi dolci la pinonate, che molto ricorda i nostri struffoli.

Un trionfo di struffoli (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Francese sembra invece essere l’origine del nome roccocò, altro famosissimo dolce natalizio campano: “Un impasto di farina, zucchero, mandorle o nocciole e pisto, ovvero un mix di spezie”.

I roccocò appena sfornati (foto per gentile concessione di Maria Umili)

Delizia per il palato e “uno tira l’altro” i mostaccioli, rombi di pasta morbida con la variante al rum e cosparsi di glassa al cioccolato.

Una tavola di mostaccioli appena colati con il cioccolato (foto per gentile concessione di Rosa Umili)

E così, quando arriva Natale, con lui giungono da un remoto passato anche quegli antichi gesti, sapori, odori, sapori che ci prendono ancora per mano, accompagnandoci verso il futuro.

                                      Alessandra Fiorilli

A Cividale del Friuli dove Storia, leggende, e bellezze naturali si fondono come in un quadro d’autore

Tra Udine e la valle dell’Isonzo, la cui parte alta sconfina in territorio sloveno, proprio ai piedi di quei colli che ad osservarli bene ti parlano di battaglie della Grande Guerra con le sue trincee, ecco proprio lì, sopra le sponde del fiume Natisone, Cividale del Friuli ti accoglie tra le sue mura e i suoi palazzi.

Uno scorcio di Cividale del Friuli dal Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)

Le sue origini affondano in epoca romana, quando Giulio Cesare, dà a questo centro geograficamente strategico, il nome di Forum Iulii, nome che verrà cambiato nel corso dei secoli a seconda della dominazione che subirà. La denominazione attuale, molto probabilmente, deriva dal nome che prenderà nel X secolo: quello di Civitas vel Castrum Foroiulianum, che verrà abbreviato dalla popolazione in Civitate, e poi, trasformato dal dialetto locale, in Sividat, Zividat, Cividat, nome, quest’ultimo, molto simile a quello attuale.

Uno dei palazzi che si affacciano sul Corso principale (foto di Lorenza Fiorilli)

Se il suo diventare centro con tanto di nome risale all’epoca romana, i primi insediamenti umani, in realtà,  sembrano risalire già al Paleolitico, ma sarà la discesa dei Longobardi in Italia, nel 568 d.C. a dare un’impronta regale a Cividale, dopo che il re Alboino la sceglie come capitale del ducato longobardo in Italia. Di questo periodo, Cividale conserva lo splendido Tempietto e l’Ipogeo Celtico che svolgeva, secondo la tradizione, funzione di prigione in epoca longobarda, essendo scavato nel sottosuolo.

Particolare di un palazzo (foto di Lorenza Fiorilli)

Con il Trattato di Campoformio del 1797, Cividale passa sotto il dominio dell’Impero Asburgico e solo nel 1866, in seguito alla vittoriosa Terza Guerra di Indipendenza Italiana, viene annessa al Regno d’Italia, per la cui Bandiera combatterà lotte impervie e sarà teatro, specie con quei colli che si vedono in lontananza, di battaglie passate alla storia.

In lontananza, i monti sui quali si combatterono molte battaglie della Grande Guerra (foto di Lorenza Fiorilli)

Città di confine nel periodo della Guerra Fredda tra il blocco dell’Ovest e quello dell’Est, e dopo il terremoto del 1976 che pure l’ha colpita, anche se non in maniera pesante come le vicine Venzone e Gemona, oggi accoglie con la sua mirabile bellezza, fatta di valli, mura antiche, pace e silenzio i turisti che, immancabilmente si regalano una foto sotto il cartello del Ponte del Diavolo, che collega le due sponde del fiume Natisone sul quale sorge Cividale. La leggenda vuole che, essendo talmente impervia la costruzione dell’opera, i cittadini chiesero aiuto al Diavolo il quale, in cambio, chiese l’anima del primo che fosse transitato proprio sul ponte.  Terminata l’opera, il primo a passare non fu un cittadino cividalese, ma un animale , la cui anima fu presa dal Diavolo così ingannato.

Il cartello all’inizio del Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)

Affacciarsi dal Ponte del Diavolo è un’esperienza unica: il fiume Natisone che scorre lungo la valle, e sulle cui  sponde si può accedere tramite una scalinata, il campanile del Duomo di Santa Maria Assunta che svetta sulle case, e i colli teatro di tante battaglie della Grande Guerra.

Il fiume Natisone (foto di Lorenza Fiorilli)

Inoltrandosi nelle vie della città, si rimane ammaliati da cotanta bellezza dei palazzi, in primis il Palazzo Comunale, un edificio gotico tutto a mattoni davanti al quale svetta la statua di Giulio Cesare, fondatore della città. Si tratta di una copia bronzea di un’opera originale in marmo custodita a Roma, nel Campidoglio.

Il Palazzo Comunale e la statua bronzea in onore di Giulio Cesare (foto di Lorenza Fiorilli)

Regalarsi una giornata a Cividale del Friuli, nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco dal 2011, significa assaporare la storia di un luogo immerso in una pace e in silenzio che canta ancora, se si tende bene l’orecchio ai monti circostanti, i cori dei soldati italiani che combatterono contro lo straniero.

Alessandra Fiorilli

                                                                   Alessandra Fiorilli

A San Gimignano come in un presepe…

Il tempo che ci lasciamo alle spalle, a Firenze, non fa presagire il diluvio che incontreremo quando, superate le colline del Chianti, ci avviciniamo a San Gimignano. Piove, piove di una pioggia severa, che a stento i tergicristalli dell’auto riesce a togliere dal parabrezza. Siamo quasi tentati di invertire la rotta quando, ecco, stagliarsi, all’orizzonte, le inconfondibili sagome delle sue sue torri celebri in tutto il mondo.

E mentre saliamo verso Porta San Giovanni, la pioggia cessa di cadere copiosa e diventa sempre più lieve e la bellezza di questo scrigno toscano medievale perfettamente custodito, non solo ci fa dimenticare il diluvio che ci ha accompagnato per un buon tratto di strada, ma ci accoglie come un abbraccio.

Porta San Giovanni: uno degli access di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)

A destra e a sinistra le tipiche botteghe artigianali di ceramica, del cuoio, così come quelle dei tradizionali prodotti enogastronomici della zona, fanno da cornice alla strada, resa lucida dalla precedente pioggia.

Particolare di Porta San Giovanni (foto di Alessandra Fiorilli)

Camminiamo fino all’Arco dei Becci che ci conduce nella Piazza della Cisterna, vero cuore di San Gimignano. Originariamente destinata al mercato e ai tornei cittadini, è così chiamata perché ospitava una cisterna risalente alla fine del 1200, cisterna sulla quale sorgeva quel pozzo che ancora oggi è visibile e cornice immancabile di tante foto ricordo dei turisti che ogni anno visitano San Gimignano.

Scorcio (foto di Alessandra Fiorilli)
L’Arco dei Becci che immette in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)

Lasciata alla spalle Piazza della Cisterna ad attenderci è Piazza del Duomo, sul quale si affaccia non solo il Palazzo Comunale (o del Podestà) e la Torre Grossa,  ma anche la Collegiata di Santa Maria Assunta, più nota come il Duomo, la cui facciata in stile romanica non fa presagire la ricchezza degli affreschi che incantano, ammaliano, lasciano senza fiato.

Il pozzo in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)

Due i nomi che hanno lasciato le loro opere immortali nel Duomo di San Gimignano: Domenico Ghirlandaio, il quale ha affrescato la Cappella di Santa Fina e Benozzo Gozzoli, autore de “Il Martirio di San Sebastiano”.

Un particolare del Palazzo del Podestà (foto di Alessandra Fiorilli)

Uscite dal Duomo, i lampioncini sono già accesi lungo le vie del borgo toscano, e, mano a mano che la luce naturale si affievolisce, ci si trova catapultati in un presepio.

Particolare di una delle Torri di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)

La pioggia lieve lieve accompagna la nostra visita e ogni angolo è una sorpresa, una coccola per l’animo.  

Ripercorriamo al contrario il tragitto che ci ha regalato un tuffo in un tempo fuori dall’ordinario, del già visto, e quando usciamo da Porta San Giovanni, il nostro sguardo va verso la vallata che San Gimignano domina con le sue tredici torri, il cui profilo sono diventati il simbolo di questo affascinante e ammaliante borgo medievale nel cuore della Toscana.

                                  Alessandra Fiorilli