“Crocchè”, Montanare e frittatine di maccheroni: le protagoniste indiscusse del cuoppo, simbolo dello street-food napoletano

Dalla necessità di un popolo è nato il simbolo dello strett food napoletano: il cuoppo, o per dirla in dialetto, o’ cuopp.

I tre indiscussi protagonisti del tradizionale “cuoppo” napoletano: le pizzette Montanare, le crocchette di patate e le frittatine di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Si narra, infatti, che il popolo partenopeo acquistasse dai pescatori di ritorno dall’uscita in mare, del pesce di piccole dimensioni che non avrebbe trovato spazio sul mercato ittico. Proprio questo pesce di piccolo o piccolissimo taglio, andava a finire nelle padelle delle famiglie più povere che provvedevano, per dargli più gusto, a friggerlo.

La preparazione di alimenti fritti, in primis il semplice impasto della tradizionale pizza, divenne persino un’attività lavorativa per molte donne che , fuori dalle loro case, vendevano le famose e caldissime  pizze fritte, celebrate dalla grande Sofia Loren nel film  “L’oro di Napoli”.

Soldi ce ne erano sempre pochi e così il piazzaiolo vendeva la pizza e segnava su un quadernino i nomi di coloro che si impegnavo e saldare il debito contratto al massimo entro otto giorni.

Ecco il motivo per il quale il famoso cuoppo napoletano è conosciuto anche con il suo secondo nome di “oggi a otto”.

Il turista che si inoltra per le vie di Napoli, non può fare a meno di notare come in ogni angolo ci siano pizzerie che vendono le pizze a portafoglio, ovvero una classica pizza napoletana di dimensioni minori e che essendo poi piegata a portafoglio, appunto, può essere mangiata anche in strada. Ma immancabili sono anche le friggitorie che offrono i famosi cuoppi, i quali possono essere di due tipi: di mare, con gamberetti, alici, calamari, e di terra,  con pastecresciute, Montanare, verdure pastellate (melanzane, zucchine, cavolfiori, peperoni, carote),  arancini di riso,  crocchette e frittatine  di maccheroni.

La frittatina di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)

L’abito del cuoppo è la carta paglia che viene avvolta a forma di cono dal quale l’acquirente, come un abile prestigiatore, tira fuori, talvolta aiutandosi con un lungo spiedino di legno, tutte queste prelibatezze, figlie della migliore tradizione gastronomica napoletana.

Le protagoniste indiscusse del cuoppo sono soprattutto le frittatine di pasta, le pizzette fritte chiamate Montanare e le crocchette di patate, il famoso crocchè.

Le prime sono la versione monoporzione della famosa frittata di maccheroni: si presentano come dei dischetti di pasta, di solto bucatini tagliati, arricchiti con besciamella, dadini di prosciutto e pisellini. Le Montanare, invece, sono le classiche pizzette fritte che devono il loro nome ai montanari, i quali, scendendo dalle colline, arrivavano a Napoli con il questo gustosissimo cibo da asporto.

Le Montanare (foto per gentile concessione di Rita Umili)

A differenza della pizza cresciuta, che viene fritta, alle Montanare viene aggiunta, sopra, la salsa di pomodoro, il pecorino in scaglie e una foglia di basilico.

Le crocchette di patate, noti anche con il nome di panzarotti ma che a Napoli sono chiamati con il loro diminutivo “crocché”, sono invece un impasto a base di patate, uova, formaggio e pepe.

Le “crocchè” pronte per essere fritte (foto per gentile concessione di Rita Umili)

E quando anche l’ultima verdura pastellata scomparirà dal cono di carta paglia si avrà la certezza non solo di avere gustato un trionfo di sapori, ma anche di  aver mangiato un pezzetto di storia partenopea.

Alessandra Fiorilli

Fibromialgia: ce ne parla il Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) Direttore Centro Tumori, Fibromialgia, Stanchezza cronica, Ossigeno Ozono Terapia e Crioterapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group.

Una definizione, quella della Fibromialgia, che da sola riesce a circoscrivere non solo il quadro clinico di chi è affetto da tale patologia invalidante, ma anche tutti gli effetti prodotti dalla FBM nella sfera psichica del paziente: Condizione cronica non infiammatoria caratterizzata da dolorabilità diffusa, rigidità o dolore muscolare o articolare, dove ad esser colpiti sono i muscoli, i tendini e non le articolazioni” come ci dice il  Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) nonché Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group, con sede a Pordenone.

Il Professor Umberto Tirelli (Foto per gentile concessione ddel Professor Umberto Tirelli)

Procediamo con ordine: “Oltre alla condizione cronica suddetta, altri sintomi della Fibromialgia sono la stanchezza, la spossatezza, i disturbi di concentrazione e di memoria, le parestesie, ai quali vanno ad aggiungersi quelli di tipo psichiatrico (ansia, depressione ed attacchi di panico), dispepsia, colon irritabile e, nelle donne, vaginismo e dismenorrea”.

L’American College of Rheumatology aveva, nel 1990, legato la diagnosi di Fibromialgia a due condizioni particolari: un dolore diffuso simmetrico che durava da almeno tre mesi e la dolorabilità alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender point, anche se  :” Di recente lo stesso American College ha scelto di eliminare la valutazione sui tender point preferendo quella dei sintomi disfunzionali che comunque non sono propri solo  del quadro della fibromialgia,  ma comuni anche ad altre sindromi disfunzionali come la quella da stanchezza cronica”.

 Il dolore diffuso, la rigidità e il dolore muscolare o articolare, protratto nel tempo:” Fa sì che il soggetto affetto da Fibromialgia riscontra una inabilità a svolgere anche le più comuni attività quotidiane e, anche laddove queste vengano compiute, il recupero delle forze può richiedere un tempo imprecisato”.

Il Tirelli Medical Group (Foto per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 I 2/3 dei pazienti affetti da Fibromialgia, alla domanda su cosa avvertono sul proprio corpo, rispondono: Un dolore ovunque, dalla testa ai piedi. E non si tratta di un dolore qualunque, ma con specifiche caratteristiche: scottante, bruciante, vibrante, battente, martellante, profondo, tagliente, frequentemente viene riferita la sensazione di “ammaccatura”, o “corpo battuto”.

L’intensità del dolore non sempre è la stessa, infatti ci sono situazioni che lo fanno aggravare, rendendolo ancora più insopportabile: L’ansia e lo stress hanno un ruolo determinante nel peggioramento del quadro clinico, così come anche l’umidità il freddo, il sovraccarico ma anche l’inattività”.

La qualità del sonno peggiora moltissimo: “Tipico della Fibromialgia è la cosiddetta fatica al risveglio, causata da un sonno non ristoratore perché disturbato dal dolore. Dobbiamo dire che la fatica, piuttosto comune nella Fibromialgia, e che è presente nei pazienti con una percentuale che varia dal 75% al 90%, la si avverte soprattutto al mattino. Non a caso i pazienti si svegliano sentendosi già stanchi o più stanchi di quando sono andati a letto.”.

La Fibromialgia non colpisce in egual misura i due sessi “Il rapporto donne –uomini è di 8:1”.

Ancora sconosciute le cause scatenanti della fibromialgia: Potrebbe esserci lo stress, l’ansia, il sovraccarico di lavoro ma si è affacciata anche l’ipotesi di una ipersensibilità del cervello al dolore. Eppure, a tutt’oggi, la medicina non può indicare ancora una causa scatenante. Potrebbe trattarsi anche di una causa di tipo immunologico, forse legata ad un fatto infettivo che potrebbe essere scatenato persino da una situazione stressante”.

Ma come si giunge ad una diagnosi di Fibromialgia? Trascorsi 6 mesi dalla prima manifestazione di questo dolore invalidante ed entro 1 anno dall’insorgenza dello stesso, il medico, dopo aver escluso qualsiasi patologia legata ai muscoli e ai tendini, giungerà ad una diagnosi di Fibromialgia.  E’ da evidenziare come ci possa esser una sovrapposizione con la sindrome da fatica cronica (CFS), dove la spossatezza prevale sul dolore, che è invece prevalente nella Fibromialgia. E’ stato stimato che il 20/ 70% dei pazienti con Fibromialgia soddisfi anche i criteri per la CFS e viceversa, il 35%-70% dei pazienti con CFS presenti anche una FBM concomitante. Rispetto ai pazienti affetti solo da Fibromialgia, quel che soddisfacevano i criteri per entrambe le sindromi erano sottoposti ad un peggior decorso della malattia, una peggiore salute generale, un maggior numero di sintomi diversi tipici della CFS ed un maggiore impatto sulla qualità della vita. Di fronte a ciò alcuni ricercatori hanno evidenziato come queste due condizioni debbano essere considerate come differenti manifestazioni degli stessi processi biomedici e psicosociali”.

Cosa può fare il paziente di fronte ad una diagnosi di fibromialgia? “I trattamenti usati fino ad ora, ascrivibili alla sfera degli antidolorifici o degli ansiolitici o degli antidepressivi, non hanno prodotto grandi benefici. Da 2 anni, presso il nostro Centro di Pordenone, applichiamo l’Ossigeno Ozono Terapia sui pazienti affetti da Fibromialgia, con un miglioramento sul 70% dei pazienti trattati e con una pubblicazione su una rivista indicizzata. C’è da dire che l’Ossigeno Ozono Terapia è un antinfiammatorio, antidolorifico, energetico, usato anche per alleviare la fatica oncologica, perché purtroppo la chemioterapia, l’ormonoterapia, l’immunoterapia, la radioterapia, come effetti collaterali, hanno spesso anche quella di causare stanchezza”.

L’Ossigeno Ozono Terapia, con le sue proprietà antinfiammatorie ed analgesiche, prevede l’introduzione di una miscela di ossigeno e ozono nell’organismo del paziente: Per autoemotrasfusione e per insufflazione rettale, due volte a settimana per un mese e poi due volte al mese come terapia di mantenimento, secondo i protocolli della SIOOT (Società Italiana Ossigeno Ozono Terapia). Abbiamo registrato un incremento significativo della riduzione della sintomatologia nel 70% dei pazienti trattati, nessuno dei quali ha riportato effetti collaterali: questo a dimostrazione di come l’Ossigeno Ozono Terapia rappresenti un efficace trattamento per la Fibromialgia”

                                     Alessandra Fiorilli

“Tiere Motus” a Venzone: un Museo, un Sacrario della memoria, un grande esempio di come si rinasce dopo un terremoto disastroso.

Entrare nel Museo “Tiere Motus”, ospitato nel Palazzo Orgnani- Martina, a Venzone, borgo a circa 30 km da Udine, è entrare nell’animo, nei cuori, nelle menti, persino in ogni singolo battito del cuore di coloro i quali hanno vissuto il tremendo terremoto del 6 maggio 1976.

Appena se ne varca la soglia, le foto, alcune in bianco e nero, altre a colori, nonché i titoli a caratteri cubitali dei principali quotidiani nazionali, sembrano accoglierti nel loro grembo, fatto sì di dolore, ma anche di tanta dignità, e di una volontà ferrea che farà del Friuli terremotato un simbolo per tutta Italia.

Una delle sale del percorso espositivo del Museo “Tiere Motus” di Venzone (Foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documentazione Venzone), dove campeggia una significativa frase: “Il Friuli ringrazia e non dimentica”

“Tiere Motus” è un Museo, ma anche una sorta di Sacrario della memoria e quando sei lì, ad osservare l’esposizione fotografica, quasi ti verrebbe spontaneo chiedere il permesso di osservare tutte quelle immagini, perché trasudano una sofferenza unita ad una forza che permetterà al Friuli di risorgere.

A raccontarci la storia di questo Museo è la Direttrice dello stesso, la Dottoressa Floriana Marino, architetto, siciliana d’origine, veneziana per studio, avendo frequentato l’Università nel capoluogo veneto, e friulana per amore verso questo popolo che tanto le ha insegnato.

“Sono arrivata a Venzone quando ancora si stava compiendo la ricostruzione e da allora non sono andata più via. Prima di questo incarico, sono stata responsabile del gruppo di lavoro e ho partecipato alla codirezione del Centro di Documentazione sul Terremoto del 1976, dal quale poi nascerà il Museo grazie alla volontà dell’Associazione Comuni Terremotati e Sindaci della Ricostruzione del Friuli. “Tiere Motus” è un luogo  dedicato alla memoria storica, dove tutta l’esperienza del terremoto e degli anni successivi al sisma, trova qui la sua sede.”

“Tiere Motus” viene inaugurato nel 2009: Dopo anni di un lavoro molto intenso con un gruppo operativo molto qualificato con il quale abbiamo collaborato bene. E’ stato indubbiamente un grande lavoro e ha richiesto un grande sforzo, ma siamo stati molti soddisfatti del risultato”.

Un’altra Sala (foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documetazione, Venzone)

Nella mostra fotografica: “Che ha richiesto due anni e mezzo per l’allestimento”, le immagini scelte “Tra migliaia e migliaia di foto,   sono corredate da didascalie non messe in evidenza, questo perché abbiamo deciso che sarebbero state le foto a parlare, foto che esprimono, pur nella loro drammaticità, il carattere e la determinazione della gente friulana”.

Il lavoro certosino svolto: Ci ha visti impegnati nel volere raccontare gli accadimenti del ’76 e della ricostruzione, facendo attenzione a non essere autoreferenziali e sforzandoci di essere, nella narrazione, il più obiettivi possibili. Abbiamo cercato un continuo confronto e condivisione, proprio per far emergere le diverse voci”.

 E così nel museo di Venzone, il terremoto: Come evento intimo di tutti quei friulani che hanno perso case e congiunti, è diventato un luogo della memoria, depositario di ricordi individuali, che necessariamente sono diventati collettivi. Abbiamo voluto far conoscere come il Friuli e la sua gente abbia saputo voltare pagina e raccogliere la sfida della ricostruzione”.

Nonostante l’immane distruzione causata dal sisma del 1976 : Che ha interessato ben 137 comuni, 45 disastrati nella cosiddetta area cratere, con 989 vittime”, le foto esposte testimoniano il grande desiderio di tornare alla normalità : “Tra le tante, c’è una immagine che riguarda la fabbrica di arredamento Fantoni, anch’essa, come moltissime, pesantemente danneggiata dal terremoto, e che ritrae un documento, datato luglio 1976, dove si invitano gli operai ad un brindisi per il primo mobile nato dopo il sisma. Questo è uno dei tantissimi esempi della  determinazione e della grande forza d’animo di persone che, dopo aver perso tutto, si sono ritrovate a ricominciare daccapo, impegnandosi e lottando. Aggiungo, che la ricostruzione è stato un periodo intenso ma anche duro, fatto di scontri e discussioni accese.”.

 Prima la forza, dunque, poi la partecipazione collettiva al grande processo di ricostruzione che è testimoniato sempre dalle foto esposte al museo, visitato anche da molti turisti stranieri, i quali :“Possono, così, vedere da vicino e comprendere  una delle pagine di storia recente del Friuli, fatta di macerie, distruzione, dolore ma anche di impegno, ordine, compiutezza”.

“Tiere Motus” non è solo un percorso espositivo, ma si compone anche di una sala molto particolare: La sala del simulatore  è nata ancora prima del museo. Ricostruire in realtà virtuale il crollo del Duomo di Venzone la notte del 6 maggio 1976 e gli effetti sonori del terremoto  ha richiesto circa 2 anni di lavoro. Il visitatore viene catapultato, nell’istante stesso in cui cade giù il duomo di Venzone, a quella notte. Il suono assordante delle migliaia di pietre che vengono giù, delle vetrate della chiesa che vanno in frantumi,   ha un grande impatto sui visitatori. Ma l’effetto sonoro più rilevante è dato dal terrificante boato che nasce dal cuore della terra, l’ “Orcolat” per i friulani, il terribile mostro. La sala di proiezione è dotata di un impianto di diffusione in grado di generare frequenze infrasoniche che fanno rivivere la spaventosa voce del terremoto. Una curiosità: la prima volta che lo mettemmo in funzione, tutti uscirono fuori spaventati, ecco perché il volume è tenuto  al minimo per non creare panico tra la gente di Venzone”.

La Sala Simulatore (foto per gentile concessione di “Tere Motus”, Centro di Documentazione, Venzone)

Ringrazio la Dottoressa Floriana Marino non solo per la disponibilità, ma anche per la grande capacità di raccontare un dolore così grande: “Non dimentichiamo che  quasi tutte le famiglie dei comuni disastrati hanno pianto la perdita di un proprio congiuntocon garbo, sensibilità per far capire come “Dietro la lucidità del disastro ci sia stata una forza così grande”.

Alessandra Fiorilli

 

 

La raffinata eleganza di un vassoio di pasticcini alla pasta di mandorle

Un vassoio di pasticcini preparati con pasta di mandorle e tutto assume un altro sapore.

Sarà per l’impasto leggermente e tipicamente umido delle che li contraddistingue, sarà per la languida morbidezza che avvolge il palato, sarà per l’inconfondibile profumo che inebria l’olfatto, comunque, gustare un pasticcino con “pasta reale” è davvero una dolce coccola.

La pasta di mandorle, indiscussa protagonista dei dolci siciliani, è infatti nota anche con il nome di pasta reale, derivante, con molta probabilità, dal fatto che una volta nato il primo dolce da questo impasto, chi lo avesse preparato, abbia esclamato: “E’ un dolce da re”.

Un vassoio di pasticcini con pasta di mandorle (foto di Alessandra Fiorilli)

La tradizione vuole che i primi a impastare le mandorle con lo zucchero siano stati gli arabi al tempo della loro dominazione sull’isola, ma sembra molto più probabile che a dar vita, per la prima volta, ad un dolce con “pasta reale”, siano state, nel 1100 circa, le suore del Convento di Martorana, a Palermo, nei pressi della Chiesa di Maria dell’Ammiraglio. Questo impasto, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, ha meritato il titolo di “Prodotto Agroalimentare Tradizionale siciliano”.

Tra i dolci più noti spicca la famosa “Frutta Martorana”, così chiamata proprio in onore al nome del convento che per primo regalò questo impasto. Altra specialità è l’agnello pasquale con pasta di mandorle e pistacchi di Bronte.

Ideali per accompagnare un thè, eleganti insieme al caffè, talmente raffinati da portarli portare in dono alla padrona di casa che ci ha invitato a pranzo o a cena, morbidi, profumati, deliziosamente unici: i pasticcini alla pasta di mandorle sono parte di quel  patrimonio dolciario italiano apprezzato in tutto il mondo.

Alessandra Fiorilli

La storia del supplì romano che ha conquistato anche l’ipertecnologica Tokio

E’ il 1874 quando i clienti di una delle tante trattorie di Roma leggono, per la prima volta, nella lista dei piatti proposti, “Souplis di riso”.

Incuriositi dal nome, che tradisce una qualche vaga parentela con la lingua francese, non a caso sembra derivare dal termine d’Oltralpe “surprise”, ovvero, sorpresa, ne ordinano uno… eccolo arrivare: è caldo, profuma di fritto, ha un volto rassicurante e al tempo stesso malizioso.

La sorpresa la si ha quando lo aprono, con le mani, a metà : al suo interno custodisce un cuore di mozzarella filante capace di legare le due parti di questo alimento preparato con il riso.

Il supplì…semplicemente (foto di Alessandra Fiorilli)

Dalla trattoria romana il balzo che la ricetta farà in tutte le case, prima dei romani poi di tutta Italia, sarà tanto breve quanto duraturo.

Le mamme lo preparano con gli avanzi del riso e del sugo di carne della domenica, ma nessuno considererà mai il supplì come un modo per riciclare ciò che è rimasto nelle pentole del pranzo di un giorno di festa.

Due le correnti di pensiero sulla pianatura: chi lo infarina, lo passa nell’uovo e poi nel pangrattato, chi invece usa solo l’uovo e pangrattato.

Il classico colore della panatura appena fritta (foto di Alessandra Fiorilli)

Il classico supplì fronteggia oggi la concorrenza di alcune varianti: c’è chi aggiunge al suo interno delle verdure, chi della pancetta, ma l’intramontabile supplì che ha incantato prima i romani e poi l’Italia e il mondo intero, è sempre il classico, con riso al sugo e mozzarella.

IL cuore di mozzarella custodito all’interno di ogni supplì che si rispetti (foto di Alessandra Fiorilli)

Il supplì riesce a superare il suo essere solo un alimento perché sa diventare poesia, il simbolo di una parentesi gustosa e sfiziosa tra il pranzo e la cena, il compagno di un’attesa, un momento di puro gusto.

Ma è anche l’indiscusso protagonista di una serata in pizzeria tra amici: mentre si attende l’arrivo della pizza, se ne gusta qualcuno caldo caldo.

E se ti trovi in strada e noti da lontano una buona friggitoria e passi lì di fronte, è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare e di acquistarne uno e quando sei lì e lo porti alla bocca, all’improvviso non ti sei senti più solo, perché in quel momento il supplì già ti fa compagnia…e dimentichi le calorie che stai ingerendo, le dieta, l’autobus che devi prendere per tornare a casa: esiste solo lui  e nello stesso istante in cui lo addenti, non puoi fare a meno di chiudere gli occhi.

Lui, il supplì, non concede strappi alla regola: vuole essere mangiato con le mani…è così, infatti,  che lo gustano da un capo all’altro del mondo. Locali  che vendono supplì li troviamo dalle grandi metropoli nordamericane, New York in testa, fino all’ipertecnologica Tokio.

Il supplì: un pezzo di storia romana amata in tutto il mondo (foto di Alessandra Fiorilli)

Anche la filmografia italiana lo ha celebrato in alcuni suoi  film: da “La Parmigiana” con un Nino Manfredi che li addenta con voracità, al più  recente “Poveri ma ricchissimi”, in cui la famiglia protagonista dei Tucci riesce a mangiarne interi vassoi senza stancarsi mai.

E provateci anche voi…sì provateci ad acquistarne uno e a portarlo a casa senza aver avuto la tentazione, nemmeno per un istante, di addentarlo per strada…

Alessandra Fiorilli