52° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Prima di andar via da quella stanza, nonno, mi dicesti: “Portami tu qualcosa… delle piccole scaglie di parmigiano, un uovo alla coque… vieni tu all’ora di pranzo per aiutarmi a mangiare.”

E così capii, da queste parole, che non avrei potuto mai mollare, che sarei dovuta essere forte, non tanto per me, quanto per te, che chiedevi insistentemente la mia presenza in quella stanza d’ospedale.

Il giorno successivo, come promesso, venni da te con la mamma: avevamo il permesso di entrare al di fuori dell’orario di visita perché le tue condizioni di salute richiedevano che ci fosse qualcuno negli orari di pranzo e cena per aiutarti a mangiare.

E fu così che ti porgemmo delle minuscole scaglie di parmigiano e tu le prendesti dalle nostre mani come fanno i bambini…in quell’istante gli altri degenti ci osservarono con un misto di tenerezza ed ammirazione, fino a quando il tuo vicino di letto mi disse che eri un uomo fortunato, perché avevi due figlie amorevoli ed affezionate come me e la mamma.

Io gli risposi che non ero tua figlia ma tua nipote e l’uomo di rimbalzo non si perse in giri di parole: “Tu lo ami come un padre e lui ti considera una figlia. E questo è tutto”.

E questo era proprio tutto, nonno, per noi che continuavamo a sperare e per te che, non potendoti più da alzare dal letto, ci aspettavi, chiedevi l’ora agli infermieri e pregavi il tuo vicino di letto di andarsi ad affacciare fuori dal reparto per vedere se arrivavamo. Era giugno, nonno, o almeno così diceva il calendario ma nei nostri cuori non era arrivata l’estate, la nostra estate quell’anno per noi non giunse mai.

51° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Per uno assurdo scherzo del destino, nonno, anche questa volta eri nascosto alla mia vista, essendo il tuo letto proprio quello dietro la porta, ma non mi feci bloccare dai miei timori e dalle mie paure: entrai spavalda, sicura di farcela. Entrai, dunque, salutai i tuoi compagni di stanza, passai in rassegna, con una rapida occhiata i loro volti, e poi poggiai gli occhi su di te: anche quella volta ebbi la sensazione di scappare codardamente, ma riuscii a mantenere la promessa di non fuggire più via davanti alla realtà seppur dolorosa.

Ma non fui io a darmi il coraggio sufficiente a rimanere vicino a te quanto te, nonno, perché riconoscesti la mia voce mentre stavo parlando con la mamma, apristi gli occhi, nei quali si potevano ancora ammirare quelle pagliuzze dorate, e con un gesto dolcissimo del braccio mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi. Il desiderio di parlare con me ti diede persino la forza di dire : “ Bella bambina, vieni qua” e mi indicasti il posto del tuo letto dove mi sarei dovuta sedere. Ora eri lì, e mi chiedesti di voler andare via perché…perché sapevi ormai non c’era più salvezza per te, lo sapevamo entrambi, l’avevano capito già da Natale quando non lo celebrammo con il tradizionale cenone ma con il pranzo, trovammo conferma di ciò nei mesi successivi, nella stanchezza di quel carnevale, in quella Pasqua senza la visita ai Sepolcri, in quel 1° maggio, in quel tuo onomastico. Allora mi invitasti a prelevare dal tuo armadietto di ferro la piccola valigia di pelle color nocciola, i tuoi sandali di cuoio, in modo da poter andar via subito da quell’ospedale, senza attendere un minuto di più. Io esaudii le tue richieste e presi i tuoi sandali di cuoio e li posizionai ai piedi del letto.

Tu li guardasti amorevolmente, e tentasti così, di muovere le gambe, di buttarle fuori dal letto e di calzarli, ma non riuscisti a fare nulla di tutto ciò.

Tu non ti scomponesti, non dicesti nulla, perché oramai sapevi… sapevi che non ci sarebbe stata per noi un’altra estate, un’altra vendemmia, un altro ottobre con le castagne, un altro Natale. Rimanesti immobile nel letto e mi invitasti a riporre nell’armadietto i tuoi sandali di cuoio.

Li presi e li posizionai vicino a quella valigetta che tante volte avevo preso alla stazione quando, di ritorno da un viaggio, sempre molto breve, venivamo a prendervi con la macchina. La tua meta preferita era Padova con la Basilica del Santo… ricordi, nonno, i frati ti inviavano sempre la rivista curata e diretta da loro, il calendario all’inizio dell’anno e tu rispondevi sempre con tanta generosità ai loro appelli.

Non amavi molto Venezia ma eri affascinato da Verona che tu pronunciavi con la o molto aperta.

Ti piaceva viaggiare, vedere, conoscere, camminare, farti abbagliare da una bellezza naturale e commuovere da un dipinto, ma più di tutto amavi il tuo giardino, i vialetti con gli arbusti, la tua casa…quella stessa casa dove volevi tornare.

50° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna e la mamma mi stavano aspettando fuori da quella minuscola cappella con le panche scure, dove io mi rifugiai per espiare la colpa di non essermi avvicinata a te. La mamma poi mi disse di aver compreso appieno il mio tormento, l’angoscia di quella mattina, quel rimorso così forte da togliere il fiato, quel senso di smarrimento che avevo provato davanti a te, nonno. Parlammo proprio di questa mia inaspettata reazione una volta tornate a casa, la mamma mi disse che avremmo dovuto farci forza vicendevolmente, che era necessario superare quell’angosciante barriera del dolore perché solo così saremmo potute stare vicino a te sino all’ultimo. Se mai ci fossimo fatte trascinare dalla corrente della paura e della disperazione, chi si sarebbe preso cura di te, chi ti avrebbe dato il buongiorno al mattino, nel freddo di una corsia d’ospedale, chi ti avrebbe aiutato a mangiare all’ora di pranzo e alla sera, chi avrebbe parlato con i medici, chi avrebbe potuto confortarti del fatto che stavi in ospedale ma che avevano la ferma intenzione di colmare ogni attimo, ogni istante con la nostra amorevole presenza?
Era proprio così, proprio come mi aveva detto la mamma che diventò forte come lo eri stato tu, nonno.
Quelle ore che mi separarono da te furono interminabili e le vissi con dolorosa angoscia. A pranzo non riuscii a mangiare nulla e alle due e un quarto ero già fuori la porta del reparto. L’attesa la colmai recandomi nella cappella dell’ospedale, feci così per tutte le tre settimane del tuo ricovero perché mi sembrava che quella preghiera fatta in ginocchio davanti al Cristo sofferente sulla croce e con il capo reclino, riuscisse a darmi un po’ di sollievo e di coraggio, lo stesso che avrei dovuto infonderti durante i nostri numerosi incontri in corsia. Poi la porta del reparto si spalancò ai visitatori ed io fui la prima ad entrare, mi diressi forte e sicura verso il tuo letto ma con grande inquietudine vidi che non c’eri più, le lenzuola erano state tirate via dal materasso ma sul cuscino c’era ancora la forma della testa…chiesi, con un tono disperato della voce, dove fossi e l’infermiera mi disse che ti avevano trasferito in un altro reparto. Giunte davanti alla porta dai vetri sabbiati, il cuore quasi non lo sentivo più, le tempie stavano battendo come tamburi, la fronte era madida di sudore ma il ricordo della vigliaccata del mattino stesso mi impedì di tentennare sull’uscio dell’entrata. La tua stanza era l’ultima sulla destra, quella di fronte alla saletta dove si riunivano i medici, gli stessi medici che tentarono di regalare a te qualche istante di vita in più, e a noi la sensazione che, fino a quando fosti stato ancora in vita, tu rimanevi la nostra luce, nonostante il buio attorno a te e la nostra forza, nonostante la tua estrema debolezza fisica. Sentii il rumore dei miei passi rimbombare sin dentro le meningi e tutto quello che era intorno appariva essere avvolto in una irrealtà fatta di camici bianchi, di tute verdi, di zoccoli di legno, di ciabatte di plastica colorata, di odore di alcool e di disinfettante, di rumori metallici, di macchinari con lunghi tubi, mentre fuori di lì, al di là di quelle finestre era giugno, il mese che più amavano entrambi perché segnava il preludio dell’estate, delle nostre estati da trascorrere fuori in veranda, al mare, o in campagna a raccogliere la frutta estiva così gustosa e dolce. Mentre davanti agli occhi mi passarono, come in un caleidoscopio, tutte le immagini di me e di te, seduti in giardino o ad innaffiare le piante di pomodoro, mi accorsi di essere arrivata a destinazione: ecco l’ultima stanzetta a destra, dove ti trovavi tu, nonno.

49° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna fu la più coraggiosa di tutte e tre… la mamma ed io potemmo capire dalla sua reazione in quali condizioni versavi. La borsa di pelle color cuoio, a bauletto e con i manici rigidi, le scivolò in terra, si portò le mani al viso e poi si coprì gli occhi mentre copiose lacrime le bagnarono le guance, scendendo sin sotto al mento.

Compresi, così, davanti a quella scena di profonda angoscia, che non ci sarebbe stata più vita da vivere con te accanto. Anche la mamma quando ti vide trattenne a stento le lacrime ed io… io ero ancora lì, dietro l’angolo, potevo scorgere la nonna e la mamma ma non te, non ti avrei voluto vedere in quel letto che non era il tuo, ma la mamma mi trascinò vicino a sé e così ti vidi anch’io.

Ti vidi anch’io…poi i tuoi occhi si spalancarono all’improvviso e con un gesto della mano tentasti di chiedere dell’acqua, limitandoti, però, ad indicare solo il bicchiere sul comodino: fu la mamma che esaudì la tua richiesta. Scusami nonno, ma non accettai l’idea che quella persona attaccata per un millimetro solo alla vita eri proprio tu, il mio consigliere, il mio maestro, la mia fonte di forza e di coraggio, la mia enciclopedia vivente, la mia stella polare, il mio vanto, il mio orgoglio, il geloso custode dell’immenso amore che ancora oggi nutro per te. Credo che la mia inaspettata reazione, quel mattino in ospedale, rimanga il mio peccato più grande. Dunque io stetti lì, in piedi, a debita distanza dal tuo letto e proprio nell’istante in cui la mamma si chinò su di te, l’infermiera ci pregò di uscire dal reparto.

La nonna ti baciò sulla guancia, la mamma strinse le tue mani tra le sue ed io non ti salutai neanche. Proprio mentre le nostre gambe ci stavano portando via da te, e noi eravamo seguite a ruota dall’infermiera, io ebbi un impeto di disprezzo verso me stessa e mi chiesi che cosa avessi fatto e pensato mai, quanto grande sarebbe stato il mio rimorso se tu fosti morto di lì a poco, senza un mio sorriso, un mio bacio, una mia stretta di mano, un mio abbraccio.

In cosa mi stava trasformando la sofferenza? Cosa mai significava quel senso di estraneità che provai davanti al tuo letto? Tu eri sempre tu, il mio grande nonno ed io ero sempre io, tua nipote, la tua bella bambina. Nulla avrebbe potuto spazzare via quei meravigliosi 28 anni trascorsi al tuo fianco. Ebbi l’impeto di girarmi, di invertire il mio percorso e di correre verso di te, per chiederti scusa per la mia vigliaccheria, per il mio egoismo, per abbracciarti e stringermi a te, ma non mi fu possibile perché la nostra presenza in quella corsia, a quell’ora, era incompatibile con il lavoro degli operatori sanitari.

Implorai di poter tornare da te, ma nessuno riuscì ad esaudire la mia richiesta.

Mi rimase solo una cosa da fare: recarmi in gran fretta nella cappella dell’ospedale, inginocchiarmi e pregare Dio affinché avessi un’altra opportunità, una sola, per poterti vedere il pomeriggio stesso e dirti che non era cambiato nulla, che né la malattia né la morte avrebbero potuto trasformare quel nostro rapporto così speciale in qualcosa di superficiale, di intercambiabile, di scontato.

48° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Alle otto del mattino successivo la nonna, la mamma ed io eravamo già in ospedale, alla disperata ricerca di qualcuno che potesse darci notizie sul tuo stato di salute.

Qualcuno si limitò ad indicarci il piano dove ti trovavi, non una parola di più, e noi tre, non un battito di ciglia in più, ci dirigemmo come forsennate verso di te. Io ero avanti di una rampa di scale la mamma e la nonna, addolorata e stretta in quel suo vestito di seta a fiori, ma dovetti attenderle proprio fuori dal reparto dove eri ricoverato perché non ce l’avrei fatta mai ad entrare da sola e vederti steso tra anonime lenzuola.

Ed infatti lì, affannata, madida di sudore, le mani che tremavano dal nervosismo, le gambe che quasi non sentivo più, stetti fuori da quella grande porta con i vetri smerigliati che indicava l’ingresso del reparto.

Tentai anche di appoggiare la mano su quella maniglia fredda, volevo bussare, chiedere di poterti vedere, ma e non lo feci e sbagliai, perché in quel frangente avrei dovuto essere io la più forte, non la nonna ormai piegata a metà dal peso di un’assenza di in solo giorno, non la mamma che in tutta la sua vita aveva pensato a te come ad un dio, capace di vincere persino sulla morte, la stessa che mi sembrò di vedere seduta al tuo fianco su quella seggiola con l’anima in ferro e dallo schienale di plastica color verde acqua che vidi, quando l’infermiera di turno ci accompagnò da te.

Non fui io a bussare alla porta, non fui io la prima persona ad affacciarsi in corsia per vedere che aspetto avevi, non fui io a parlare con il medico, non fui io a fare coraggio alla nonna e alla mamma, non fui io a prenderti la mano quando tu ci cercasti con gli occhi, non fui io a porgerti il bicchiere d’acqua che ci indicasti, appena entrate in corsia.

Non feci niente di tutto questo ed ancora oggi ne provo vergogna. Mi limitai a volgere lo sguardo verso la rampa di scale per vedere se arrivavano la nonna e la mamma e spronai quest’ultima, con coraggiosa paura, a bussare e a chiedere di te. Non era orario di visita ma all’accettazione un medico che sapeva del tuo arrivo in ospedale, il giorno precedente, ci aveva invitato ad entrare in reparto per cercarti e chiedere ulteriori informazioni sul tuo conto. Un’ infermiera aprì la porta quel tanto per poter accertarsi chi fosse fuori e poi ci fece strada scusandosi altresì per il disordine che c’era in quel reparto, disordine causato dal fatto che quelle stanze stavano ospitando solo temporaneamente i letti di quel reparto perché altrove erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Allora pensai a come fosse tutto transitorio in quel momento.

Mi sembrò di far parte in quel preciso istante, di un gioco sinistro nel quale tutto sembrava attendere una sistemazione definitiva cosicché tutto quello che era presente diventava ancor più velocemente passato, ed il futuro appariva così più vicino.

Percepii me stessa, la mamma, la nonna, ormai scioltasi in un pianto dirotto, come nipote, figlia e moglie solo temporaneamente, lo saremmo state ancora per poco, qualche settimana ancora e tu non ci saresti stato più, non avremmo più potuto pronunciare quelle parole che amavamo tanto: nonno, papà, Pasqualino. Ricordi, la nonna amava chiamarti così, tu non lo disdegnavi quel diminutivo perché così ti aveva chiamato tua madre e così si era rivolta a te la nonna in 50 anni di matrimonio, specie nei momenti di tenerezza. Mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente talmente velocemente da farmi mancare le forze, l’infermiera ci fece segno con il braccio teso che ti avremmo potuto trovare lì, dietro l’angolo, nel primo lettino a destra, vicino alla finestra. Cosa c’era dietro quell’angolo di un muro dipinto in fretta di bianco?

47° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mamma, nello stesso momento in cui mi stavo crogiolando nella piega di un dolore mai provato sino ad allora, stava offrendo un bicchiere d’acqua fresca alla nonna, tremante ed in lacrime.

Quel modo della mamma di porgere il bicchiere alla nonna, ti fece rivivere per un breve istante in quella cucina: tu non c’eri in quella casa eppure non solo tutto parlava di te ma anche un semplice gesto portava impressa una tua abitudine, una tua consuetudine.

Tu eri ancora vivo, nonno, ma quella casa ti stava piangendo come se già non lo fossi più. Erano trascorsi appena dieci minuti da quel suono della sirena dell’ambulanza, erano solo dieci minuti che non ti vedevamo e già ci sembrava di impazzire. Ci recammo in ospedale e qui aspettammo per un tempo che sembrò lunghissimo… poi una porta si spalancò, si spalancò sulle nostre paure, sulla nostra disperazione. Ci chiesero se eravamo noi i tuoi congiunti.

Ti confesso, nonno, che il tuo cognome, da tutti e da sempre pronunciato con rispetto ed ammirazione, sembrava risuonare, in quelle tristi stanze di un ospedale, come un qualcosa di vuoto, senza significato, cinque sillabe legate tra loro che celavano dietro di sé tutta la gloriosa storia dei tuoi antenati. Il bollettino medico che scaturì da quella visita non sembrava aver risolto molto degli iniziali dubbi, poiché il quadro generale era molto nebuloso ma un ricovero era quanto mai necessario.

Tutto finì lì quel pomeriggio di giugno, non ci fu concesso il vederti. Nonostante il consulto fosse finito già da qualche minuto, noi rimanemmo immobili, quasi inebetite da quelle parole che non avevano sciolto né i dubbi né le nostre lacrime, compresse nei nostri occhi, quasi a voler scacciare la realtà di una situazione che da sola avrebbe giustificato tutte le lacrime che un uomo può piangere nel corso della propria esistenza. In questo dolorosissimo limbo i nostri passi divennero pesanti, il respiro sembrava di piombo, fu una sensazione strana quella che provai di ritorno dall’ospedale, mi sentii, di colpo, come allinearmi a te, al tuo stato di salute, alla tua debolezza, alla tua difficoltà di tenere gli occhi aperti. Le nostre anime, compagne e complici, stavano collimando anche in quel momento di profondo dolore e mentre la nostra macchina passò proprio davanti alla caserma, dove avevi prestato servizio per così tanti anni, pensai alla forza dell’amore ma anche alla sua grande impotenza.

L’amore vince tutto e su tutto anche sulla morte, è vero, ma non sul momento che la precede: l’amore non può vincere sulla sofferenza, né sul decadimento fisico…qui l’amore deve abbassare il capo, anzi diventa una cassa d’amplificazione del dolore, perché più ami e più soffri nel vedere la persona, oggetto di così tanto amore, costretta a giacere in un letto. Avrei voluto piangere quel pomeriggio, di ritorno dall’ospedale ma non potevo farlo davanti alla nonna e alla mamma, avrei avuto bisogno di piangere perché tu eri in quel reparto d’ospedale senza le tue lenzuola, senza i tuoi sandali di cuoio, fedeli compagni di tante passeggiate, ma non era quello il momento di lasciarsi andare, perché le forze richiedevano di essere concertate e concentrate su di te che avevi bisogno di me, in quei tristi giorni, forse più di quanto io ne avessi di te.

46° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Spostammo tutti i mobili che potevano dare ingombro al passaggio e così scomparvero, all’improvviso, il tavolino con l’alzata verde che ospitava il telefono, le due poltroncine di pelle marrone, quelle di velluto della camera da letto.

Era così arrivata, nonno, l’ora nella quale nel quale gli oggetti a te più cari, i mobili più belli, le sedie più confortevoli, i tuoi sandali, erano diventati superflui, inutili.

Mi lasciai andare sulla sedia della veranda, profondamente sconfortata e scossa da questa amara considerazione: tutto non serviva più a niente. Gli operatori del 118 uscirono per il balcone…quello che provammo nel vederti andare via, nonno, era condensato sui nostri volti profondamente rattristati ed increduli, in quelle lacrime, in quei baci che ti stava lanciando la nonna dal balcone, in quel mio non far niente di fronte alla tua persona che stava entrando nell’ambulanza.

Dopo di te salirono gli operatori sanitari e via, allora, a sirene spiegate. Io rimasi immobile e ti seguii con lo sguardo fin dove mi fu possibile vedere quella vettura bianca ed arancione con quella luce azzurrognola che vi girava sopra. Tutto quello che fu d’ingombro al passaggio della lettiga l’avevamo accatastato in cucina e quando vidi i tuoi sandali di cuoio, li presi e li portai in camera da letto, posizionandoli dove erano sempre stati, vicino al tuo comodino, seminascosti sotto il letto, come a credere che bastasse la ripetizione di un semplice gesto a far tornare le cose come invece, non sarebbero state più. La stanza più triste e desolata era proprio la stanza da letto, il tuo materasso infossato, le lenzuola gettate all’aria, la coperta scivolata sino a terra, quasi a voler scomparire, a non voler assistere a quella scena straziante che si era consumata in quella stanza poco prima. Non c’erano solo i tuoi sandali a testimoniare la tua assenza, ma anche il tuo orologio con il cinturino d’acciaio che non era al tuo polso, il tuo mazzo di chiavi dietro la porta, la tua penna sul comodino, la tua borsa di pelle nera su quel poggiapiedi rivestito in seta damascata che avevi da sempre usato per poggiarci i tuoi libri, le tue riviste. Io ero lì, nella tua camera, per la prima volta in 28 anni, senza di te al mio fianco, io ero lì in quella casa, senza sentire la tua voce risuonare in quelle stanze, io ero lì, a chiedermi se quella stessa casa, quelle foto sul comò, quelle lenzuola di lino ricamate a mano, quei sandali di cuoio li avresti rivisti o ne avresti portato con te solo l’immagine di un ricordo.

45° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poco prima che le sirene dell’ambulanza squarciassero l’aria, mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi e di sedermi vicino a te, non sillabasti chiaramente le parole anzi, la tua bella voce stentorea sembrava soffocata, ma io riuscii, nonostante tutto, a ricomporre questo dolorosissimo puzzle di frasi a metà e capii che volevi avermi accanto, volevi vedermi. 

Poi, l’ultima tua richiesta, proprio mentre l’ambulanza stava voltando nella nostra via: “Non lasciarmi”.

Quante volte, nonno, ero stata io ad implorarti di restare ancora un po’ con me, nelle sere d’inverno quando, per non farmi prendere freddo, salivi tu da me per darmi la buonanotte. E così, incerta, piangente, addolorata, ero vicino a te, a stringerti le mano.

D’improvviso, sentimmo una sirena: era destinato a te quel suono sgradevole, lo stesso che avevamo sentito tante volte mentre eravamo comodamente seduti sul dondolo, mentre innaffiavamo le piante o mentre chiacchieravamo nello studio. E sempre ci chiedevamo, con il cuore stretto in una morsa, chi andasse a prelevare quell’ambulanza, in quale casa sarebbero entrati gli infermieri, chi avrebbero trovato a piangere, chi avrebbe lasciato la propria abitazione, senza neppure sapere se quella volta sarebbe stata l’ultima. Ma quel giorno di giugno, caldo, caldissimo, che faceva sciogliere quasi l’asfalto sulla strada, l’autoambulanza si sarebbe fermata sotto la nostra palazzina gialla, gli operatori del 118 sarebbero entrati dal grande cancello e saremmo state noi a piangere, a preoccuparci, a chiedere informazioni sul caso, a disperarci all’idea di saperti lontano da noi, mentre un interrogativo mi dilaniava l’anima: e se quella fosse stata l’ultima volta che vedevi la tua casa? Cosa avresti portato con te nell’aldilà? Forse l’immagine di noi due seduti sulle poltroncine di pelle marrone del corridoio, forse l’incantevole scenario di verde che si godeva dalla finestra della tua stanza da letto, forse il volto improvvisamente invecchiato della nonna, forse il mio viso da bambina che, mi dicevi spesso, ti appariva davanti agli occhi nei momenti di difficoltà? Mentre tutte queste idee affollavano la mente, affogandola in un mare senza risposte, l’ambulanza rallentò mentre si stava avvicinando a casa. E fu così che si fermò sotto la nostra palazzina, che normalmente a giugno era già pronta per l’estate, con il mattonato della veranda tirato a lucido, il dondolo con i morbidi cuscini colorati, l’ombrellone incastrato nella base di cemento, con le sdraio, con il braciere pronto ad accogliere le melanzane e quei saporitissimi peperoni della tua campagna. Invece quel giugno del 2001 iniziava tristemente così, con un’ambulanza che si fermava sotto il grande cancello di ferro battuto.

44° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Solevi dire spesso, nonno, che la vita somigliava ad una ruota, dove l’ultimo spicchio era il vicino di casa del primo e come gli estremi non facevano fatica a toccarsi…così avvenne anche per te, che a 79 anni sembravi essere tornato un bambino di pochi mesi, tanto il tempo che trascorrevi a letto a dormire. Ma io volevo riempire ogni tuo momento e capivo che questo era anche un tuo desiderio.

Ecco perché mi affacciavo spesso dal balcone della cucina al piano superiore per vedere quando gli scuri erano aperti, in modo da scendere subito giù da te per farti compagnia, per lenire un dolore sordo, per riempire un vuoto che stava già crescendo dentro di me.

L’ultimo mese, nonno, fu una corsa agli ostacoli, una partita di poker, un incontro di boxe, una corsa contro il tempo. Quando gli scuri si aprivano, di corsa afferravo le chiavi e prima ancora che la nonna lasciasse la tua stanza da letto, io ero già sul balcone, a bussare ai vetri della porta-finestra.

Quel mese di maggio registrò anche un evento rilevante per la nostra cittadina: il Giro d’Italia fece tappa nella nostra città e con i ciclisti in volata sul lungomare, arrivarono anche colori e suoni che tanto avrei voluto condividere con te. Tu seguisti il percorso in televisione e così feci anch’io ma proprio quando i ciclisti erano quasi arrivati al traguardo, tu mi pregasti di andare e di vedere quello spettacolo, anche per te. Mi dicesti che da quel giorno in poi io sarei stata le tue gambe, oramai fragili, i tuoi occhi, destinati a guardare solo la casa ed il giardino, le tue orecchie ormai confinate sopra un cuscino. Corsi via, rattristata ma al contempo fiera e felice per quelle parole che mi dicesti. I ciclisti passarono velocemente e fu uno spettacolo sentire l’aria tagliata dai raggi brillanti delle ruote.

Ma il vero spettacolo ce lo regalò il giorno successivo la volata: dalla piazza centrale e giù per tutto il lungomare, erano parcheggiate le macchine degli sponsor la manifestazione e ciascuna portava sul tettuccio una riproduzione in cartapesta dell’oggetto sponsorizzato. E poi, ancora, stands pubblicitari, palloncini, biciclette, e ciclisti pronti a firmare l’autografo. Tornata a casa, ti descrissi dettagliatamente tutto quello che avevo visto, come una diligente scolara, come un sergente fa con il proprio superiore. Ecco, nonno, in quel momento di così profondo sconforto, avrei barattato, anche solo per un giorno, la mia forza fisica con la tua debolezza, le mie gambe robuste con le tue oramai fragili, le mie spalle dritte con le tue oramai curve. Ma non potevo farlo, dovevo solo accettare la tua decadenza fisica resa ancora più dura dalla tua lucidità mentale, dal tuo essere presente nonostante quel tuo corpo che “Non rispondeva più ai comandi”, come dicevi.

43° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il mattino del 17 maggio 2001, il giorno del tuo onomastico, scesi da te, nonno…eri in camera da letto, seduto sulla poltroncina di velluto color nocciola, mi sorridesti, io mi misi a sedere sul tappeto, accanto alle tue gambe coperte dal plaid.

E ti porsi il mio regalo…il mio regalo…e così, tremante, sfilai la lettera dalla tasca dei miei pantaloni.

Cominciai a leggerla e mentre andavo avanti, vidi i tuoi occhi velarsi di lacrime. La lettera parlava di te, del tuo attaccamento viscerale alle cose che più amavi e che più avevi amato nel corso dei tuoi 79 anni. Menzionai, ad esempio, quella cartella di pelle nera che solevi agganciare alla canna della tua bicicletta, nonostante gli anni l’avessero resa piena di rughe ed appannata nel colore, tu non te ne separasti ma Così avvenne anche per la tua penna stilografica, quella color argento. Poi, però, arrivò quel Natale ed io ti regalai un cappello di lana blu. Tutti pensavano, me compresa, che non l’avresti messo mai perché non ti saresti separato da quel berretto di lana color giallo paglierino. Lo vidi in vetrina, entrai nel negozio e chiesi un pacchetto regalo. Ero impaziente di consegnartelo, tanto che non aspettai neanche il 24 dicembre per dartelo, ma te lo feci scartare qualche giorno prima. Ti dissi che ero sicura che non l’avresti indossato mai perché tu eri così, tremendamente attaccato a quelle cose che possedevi da qualche tempo ma era un regalo mio, era un cappello del quale mi ero perdutamente innamorata. Era per questo motivo che l’avevo acquistato, pur sapendo che non avresti mai mandato in pensione il tuo fedele berretto giallo paglierino.

Tu non dicesti nulla, mi ringraziasti e piegando a metà il mio cappello di lana blu, lo riponesti nel secondo cassetto del comò. Venne la vigilia di Natale, stranamente non eri ancora seduto a tavola mentre noi eravamo lì in cucina, la sorpresa di quel Natale la portavi tu sulla tua testa: indossavi il cappello che ti avevo regalato io e come a far finta di niente, ti accomodasti e dicesti alla nonna che poteva cominciare a porgere i piatti.

Noi ti guardavamo con stupore, tu con un sorriso di chi ha capito, dicesti che era venuto il momento di cambiare cappello, perché questo blu era più caldo, più elegante, più bello.

La lettera che ti lessi quel mattino del 17 maggio 2001 terminò con un felice parallelismo: ti dissi che l’unico regalo che potevo farti in quel momento era un vestito d’amore, un pigiama di ricordi, una stola d’amore e speravo che l’avessi accettato, come accettasti tanti anni prima quel cappello di lana blu.

Balbettai pronunciando queste ultime parole. Io avevo il capo chinato verso il basso per non farti vedere che stavo piangendo, tu lo capisti lo stesso e con la mano desta mi tirasti su per il mento, mi guardasti negli occhi ed asciugasti le lacrime, senza dirmi niente. Fu un mattino speciale…fu l’incontro tra due persone che si erano amate tanto, ma che erano consce della separazione che di lì a poco sarebbe avvenuta.