Il miele: un “cibo degli dei” con tante benefiche proprietà. Ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

4000 anni fa, nell’Antico Egitto, gli apicoltori rispettando il ritmo delle stagioni, seguivano, con le proprie arnie, la fioritura delle piante per produrre il prezioso miele che gli Egizi usavano sia per l’alimentazione, sia nella medicina che per accompagnare il viaggio nell’aldilà dei propri cari, deponendo nei sarcofagi coppe ricolme di miele.

Anche nella storia dei Sumeri e dei Babilonesi troviamo tracce dell’importanza che questo alimento zuccherino rivestiva nella loro civiltà,  e proprio nel Codice di Hammurabi c’erano degli articoli che sanzionavano il furto del miele, tutelando, così la categoria degli apicoltori.

Per i Greci era, semplicemente, “il cibo degli dei”, mentre i Romani lo utilizzavano per la produzione di salse agrodolci nonché come dolcificante e conservante.

Giungendo negli anni più vicini a noi, fu gradualmente soppiantato dallo zucchero raffinato per dolcificare cibi e bevande, ma recentemente c’è di nuovo grande interesse verso quest’alimento che ha caratterizzato le varie epoche storiche.

In questo singolare viaggio nella dolcezza, ci accompagnerà il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.  

    
Gli Egiziani furono i primi ad usare il miele in campo medico, per contrastare i disturbi digestivi, ma anche come base per la preparazione di creme ed unguenti con cui curare piaghe e ferite. Quindi nell’antichità erano già note le proprietà curative di questo alimento :” L’impiego del miele ad uso terapeutico è testimoniato persino nelle pitture risalenti all’Età della Pietra, ed è descritto anche nelle Sacre Scritture. Le proprietà medicamentose sono da rintracciare nei 13 batteri lattici che vi si trovano nella sua composizione e proprio tali batteri vanno a contrastare gli agenti responsabili di diverse infezioni, tra cui influenze, bronchiti e raffreddori. Inoltre, le cellule batteriche vengono disidratate dall’elevata concentrazione di zucchero, diventando, quindi, più vulnerabili. I flavonoidi, invece, riducono l’aggregazione piastrinica diminuendo, così,  il rischio di trombosi e, stimolando la vasodilatazione migliorano la circolazione sanguigna”.  

Dopo aver parlato delle proprietà medicamentose del miele, vediamo qual sia il momento migliore della giornata in cui assumerlo e in che quantità :” In media, si consiglia di assumere circa 30 g al giorno, pari a 3 cucchiai rasi e sono vari i modi in cui possiamo consumarlo:  un cucchiaino nello yogurt bianco per aromatizzarlo, per dolcificare il latte o il the, stando attenti a non aggiungerlo quando la bevanda è ancora bollente per evitare la perdita di micronutrienti termolabili, spalmandolo su una fetta di pane tostata con cui fare colazione o merenda, o per accompagnare  formaggi, sia a pasta filata che freschi, facendo però attenzione alla quantità, essendo il miele molto calorico”.

Le calorie fornite dal miele: è giunto il momento di parlarne, anche per sfatare falsi miti.   

“Il miele fornisce circa 300 Kcal per 100 grammi di prodotto e, confrontandolo con lo zucchero bianco da tavolo, è meno calorico. Ha un elevato potere dolcificante grazie alla presenza più consistente di fruttosio  che è comunque ridotto rispetto allo zucchero bianco”.

Una differenza sostanziale c’è nel contenuto dello zucchero rispetto al colore: “ Tutti i tipi di miele hanno la caratteristica di contenere una percentuale di zucchero (glucosio e fruttosio) pari a circa l’80% del prodotto, mentre il restante 20% è costituito da acqua.

Il miele di colore chiaro è più dolce, in quanto la percentuale di glucosio e fruttosio è maggiore rispetto alle varianti scure che sono, invece, più ricchi  in minerali, specialmente potassio, zolfo, sodio, calcio, fosforo, mentre le vitamine più rappresentate sono quelle del gruppo B e la vitamina C, che generalmente si perdono nel processo di pastorizzazione. Tra le varietà scure ci sono il miele di  castagno, dal colore bruno, il miele di corbezzolo, con il suo colore ambrato, il miele di erica, dalla colorazione marrone-arancio,  il miele di eucalipto, brunastro. Tra quelli di colore chiaro c’è anche quello di lavanda, mentre il millefiori, ricavato dal polline di differenti fiori, va dal colore ambrato al rossastro”.     

Possiamo consumarlo tutti tranquillamente o ci sono delle categorie di persone alle quali è sconsigliato? “ L’unica categoria di persone a cui è sconsigliato è costituita dai bambini sotto l’ anno di età, per evitare il pericolo di botulismo (tossina prodotta dal batterio Chlostridium botulinum) . In soggetti che soffrono di diabete o chi è sovrappeso o obeso, il consumo deve essere moderato, anche se è possibile integrarlo all’interno di una dieta dimagrante, perché, è bene ricordarlo,  è sempre la quantità con cui si assume un cibo a fare la differenza!  Per gli sportivi rappresenta un valido alleato, poiché fornisce energia rapidamente, specialmente prima o subito dopo uno sforzo. Ottimo anche per i ragazzi in età scolare, in quanto è di supporto per le funzioni cognitive, mentre  per gli anziani è indicato in caso di inappetenza”.

Proprio a rafforzare la tesi, già sostenuta dagli Antiche Greci, per i quali il miele era “il cibo degli dei”, ci vengono in aiuto le diverse proprietà che differenziano i vari tipi di miele.

:” Il miele di castagno, energizzante e dal sapore intenso con retrogusto amarognolo, con la sua maggior quantità, rispetto agli altri, di potassio, sodio e magnesio,  è consigliato nei casi di astenia e affaticamento. Il miele di tiglio, con il sapore intenso, dolce e mentolato,  grazie alle sue proprietà sedative, rappresenta un valido supporto nelle condizioni di nervosismo e insonnia, grazie alla presenza dell’amminoacido triptofano (precursore dell’ormone serotonina). Il miele millefiori, con l’aroma forte e gradevole, possiede proprietà espettoranti con azione battericida,  pertanto risulta essere un grande alleato per la salute delle vie respiratorie, così come il miele di eucalipto.  Il miele di acacia, dolce e con un impercettibili gusto amarognolo,  ha un’azione disintossicante sul fegato e contrasta l’acidità di stomaco, mentre quello di lavanda ha particolare efficacia nelle applicazione topiche su punture di insetto e ferite. I mieli di corbezzolo ed erica, invece, svolgono un’azione diuretica e disinfettante, agendo in termini di prevenzione e supporto delle infezioni delle vie urinarie”.

Essendo un alimento, ci si chiede cosa debba esserci scritto sull’etichetta o se anche il miele debba avere una data di scadenza: E’ preferibile acquistare un miele italiano e meglio ancora comprare il prodotto di  aziende che commercializzano miele dei propri alveari, il che rappresenta una  garanzia di un controllo che si snoda in tutte le varie fasi di produzione. Per quanto attiene alla data che compare sull’etichetta, c’è da dire che non si riferisce alla scadenza ma al termine minimo di conservazione, ovvero il limite ultimo all’interno del quale c’è la garanzia che le proprietà organolettiche del miele si conservino intatte. Dopo un periodo di tempo che va dall’anno e mezzo ai due anni, può accadere che il miele imbrunisca, perdendo, così, non solo  le vitamine contenute, ma anche divenendo lievemente più acido. Una volta superata la data riportata sulla confezione, inoltre, si può verificare una diminuzione degli zuccheri semplici, e nel caso in cui il miele non sia ben conservato, tale processo può avere un’accelerazione, ecco perché è importante tenerlo in un luogo buio, senza esposizione diretta ai raggi solari, asciutto e a temperatura moderata (  circa 20 gradi). La salubrità del miele può essere messa a rischio solo se c’è un aumento del contenuto dell’acqua, ad esempio se viene conservato in un ambiente umido : in tal caso possono svilupparsi dei lieviti”.

C’è un grande interesse, specie negli ultimi anni, verso i prodotti biologici, cosa possiamo dire a proposito del miele?” La dicitura “prodotto biologico” non presuppone che quel miele sia anche integrale, perché potrebbe comunque essere stato riscaldato. E’ bene invece dire cosa si intenda per miele integrale e  non sottoposto a trattamenti termici, diciture che possiamo trovare sull’etichetta:   sono garanzia di un prodotto artigianale ed integrale, in quanto  il miele integrale non viene sottoposto ai trattamenti di pastorizzazione che sono   responsabili della perdita di vitamine (vitamine del gruppo B e vitamina C sono infatti termolabili) e di altre sostanze benefiche. Il miele viene, quindi, posto nel barattolo direttamente come si presenta nei favi delle api”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio Bolognino per questo viaggio nell’affascinante mondo del miele, un alimento che appartiene alla storia dell’uomo e che dovremmo imparare ad appezzare di più.

                                      Alessandra Fiorilli

L’importanza della prima colazione: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino

Gli Italiani e la prima colazione: chi la consuma velocemente a casa, chi preferisce farla al bar con il classico cappuccino e cornetto, chi arriva sino all’ora di pranzo  solo con il tradizionale caffè mattutino, chi invece, non rinuncia ad una colazione ben equilibrata che permette di sedersi a tavola all’una, senza il morso della fame che porta a mangiare molto di più del dovuto.

All’interno di questo scenario così variegato, abbiamo avvertito l’esigenza di far luce sulla prima colazione, su quali alimenti prediligere, sul ruolo che riveste per una sana ed equilibrata alimentazione e ne abbiamo parlato con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.    

        

In molti forse lo ignorano, ma il primo pasto della giornata riveste una grande importanza : La colazione è fondamentale, perché al momento del risveglio è necessario fare il pieno di energie e rimettere in moto il metabolismo corporeo, in funzione anche delle attività previste dopo la pausa notturna quando si verifica un calo dei livelli metabolici di tutto il corpo.  Dedicare del tempo alla prima colazione significa avere un risveglio sereno e gratificante. Inoltre, moltissimi studi dimostrano che c’è una correlazione tra la condizione di sovrappeso/obesità e l’abitudine a saltare la colazione. Una prima colazione sana e nutriente contribuisce a stimolare e ad accelerare il metabolismo”.

Al mattino non si dovrebbe essere né eccessivamente parchi nelle calorie né abbondarne eccessivamente: Il nostro organismo ha bisogno di energia, per funzionare. Al mattino, dopo una notte di riposo, il momento in cui abbiamo consumato la cena è passato da almeno 10-12 ore e dobbiamo rifornire il corpo di nutrienti. Stando al documento sulla prima colazione co-firmato da SINU e SISA (rispettivamente, Società Italiana di Nutrizione Umana e Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione), una colazione adeguata dovrebbe fornire una quota di energia compresa tra il 15 e il 25% del totale quotidiano”.

Come e quanto le proteine, i carboidrati e i grassi dovrebbero essere presenti in percentuali nella prima colazione? :”Naturalmente ci sono differenze soggettive da tenere in considerazione, e dipende anche da che colazione scegliamo …se dolce o salata. In linea di massima, la condizione ottimale sarebbe assumere i macronutrienti in modo equilibrato, quasi ricalcando la suddivisione giornaliera, e far corrispondere i carboidrati al 45-60%, le proteine attorno al 15-20% e i grassi compresi tra il 20% e il 35%, facendo il pieno di vitamine e minerali. Ciò che conta, però, è il bilancio giornaliero e settimanale, dunque è possibile anche discostarsi da tali valori che sono del tutto indicativi. Occorre sempre prestare attenzione alla qualità dei macronutrienti introdotti, che può invece fare la differenza durante la mattinata nella regolazione della glicemia, parametro che influisce sul controllo della fame e dei metabolismi energetici dell’organismo”

Eppure, ancor oggi, sono in molti a saltare la prima colazione:” Spesso si tende a saltare questo pasto per assecondare i ritmi frenetici della vita moderna.  Consiglio di non andare di corsa nel momento della colazione, impariamo a far partire la giornata con calma. Chi prende solo un caffè e scappa al lavoro a che giornata stressante va incontro? Per di più, l’assunzione di bevande nervine (come lo è il caffè) senza alcun cibo solido potrebbe irritare il tratto digerente e favorire, nel lungo periodo, l’insorgenza di reflusso gastroesofageo. Come per qualsiasi pasto se mangiamo male e ripetiamo l’errore spesso questo avrà ripercussioni sulla salute”.

Alcuni ritengono che l’età sia  un fattore per spingerci a capire se sia più importante o meno, ritendendo, ad esempio, che per i bambini sia più indispensabile che per gli  adulti  :” La colazione è indispensabile a qualsiasi età! Certamente la colazione di un bambino o di un ragazzo che deve crescere e deve immagazzinare per ore le nozioni scolastiche sarà diversa da quella della persona anziana, che può alzarsi con calma e ha ritmi giornalieri sicuramente più tranquilli e meno dispendiosi da un punto di vista energetico. Nel primo caso la colazione sarà sicuramente più incentrata sui carboidrati, energie  a veloce e lento rilascio a seconda della forma degli zuccheri che vengono consumati e dei grassi perché servono tante energie. La colazione di una persona anziana dovrà soprattutto non far mancare le proteine, che, fin dalla prima colazione, possono aiutarlo a prevenire o rallentare il processo di sarcopenia, la  fisiologica perdita di massa magra che diventa sempre più evidente con il trascorre degli anni. Per l’adulto la sana via di mezzo tra le due colazioni è ottimale”.

Italia è sinonimo di “colazione dolce”, ovvero caffè o cappuccino con cornetto o prodotti da formo, thè e biscotti. Ma cosa è meglio prediligere? :” La colazione dolce è meglio farla con gli zuccheri giusti: cereali integrali, marmellate senza zucchero aggiunto o composte, il miele, la frutta da mangiare, spremere o centrifugare. Ciò a cui invece dobbiamo prestare attenzione  sono le merendine , i biscotti, le creme spalmabili, i succhi di frutta, lo zucchero che utilizziamo per dolcificare tè, caffè, tisane. Questi zuccheri sono qualitativamente peggiori rispetto ai precedenti. Ma per entrambi vale sempre la moderazione. Anche lo zucchero migliore preso in quantità eccessivo è comunque dannoso. L’indicazione è “meglio una punta in meno che in più”! Al dolce ci si abitua, ma ci si può anche disintossicare (ricordiamo che gli zuccheri possono provocare dipendenza!). Naturalmente questo vale per lo zucchero che possiamo controllare noi , mentre per i prodotti che acquistiamo è importante scegliere quelli giusti. Cosa controllare in etichetta? Che tipi di zucchero ci sono e quanti sono! Oltre al comune saccarosio, zucchero bianco, gli zuccheri possono essere presenti con tanti altri nomi, per esempio, sciroppo di glucosio-fruttosio, maltosio, destrosio, sciroppo di mais, o di riso. Possono essere naturali o artificiali, come aspartame, sucralosio e ciclammati.
Ricordate: un prodotto è migliore se è composto da pochi ingredienti.

La colazione salata, che invece è preferita dagli stranieri, gli italiani tendono a consumarla spesso quando sono in albergo, dove si trova un’ampia scelta di formaggi, pani, affettati, uova :”Nella colazione salata viene mantenuto un moderato apporto di carboidrati complessi, associati ad una quota più consistente di alimenti proteici e grassi. Il pane, meglio se integrale e tostato, è una buona base solitamente presente nella colazione salata…e quindi ottima fonte di carboidrati. Eccellenti scelte proteiche sono la ricotta di mucca, il salmone, l’uovo , il prosciutto crudo. Infine l’olio di oliva e i semi oleosi rappresentano il giusto modo di bilanciare la colazione anche con i grassi.

Proprio come per le scelte dolci, anche per quelle salate dobbiamo prestare attenzione nella selezione degli alimenti da portare a tavola: intanto il sale non va demonizzato e al mattino chi soffre di pressione bassa nella colazione salata trova un aiuto anche migliore rispetto a quella dolce. Detto ciò, il mio consiglio è cercare di limitare il sale il più possibile, ne consumiamo sicuramente troppo e ciò può condurre a ipertensione arteriosa e, di conseguenza, provocare ictus, aneurismi, infarti e insufficienze cardiache. Il rischio nella colazione salata è di eccedere non solo con il sale,  ma soprattutto con le proteine ed i grassi. Quindi , a parte ricordarci che siamo a colazione e non a pranzo, non esageriamo con gli affettati, scegliamo quelli più magri e evitiamo di mischiare vari scelte proteiche”

Frutta e prima colazione è un binomio al quale spesso, erroneamente,  non si dà la giusta importanza al momento della prima colazione: “ La frutta, data la presenza di zuccheri semplici, è preferibile consumarla a colazione oppure negli spuntini della giornata: al termine dei pasti di pranzo e cena, potrebbe interferire con la regolazione della glicemia post-prandiale oltre a dare origine a fenomeni fermentativi, dato che sono generalmente pasti più ricchi dal punto di vista nutrizionale. Mele, pere, kiwi, ananas, mirtilli, ribes, lamponi costituiscono un’ottima scelta per concludere la colazione pulendo la bocca con l’acidità che la contraddistingue, e ricaricano l’organismo di vitamine e Sali minerali”.

In vacanza, si sa, si tende a concedersi qualche peccato di gola in più, compreso, il famoso uova e bacon. Nel caso in cui in albergo si decida di consumare questo piatto, come deve essere poi il pranzo?:”  La colazione con le uova, magari rosolate al burro, con il bacon, o peggio con le salsicce, è veramente troppo sbilanciata per la quantità e la qualità dei grassi per diventare la colazione di tutti i giorni… anche se siamo in vacanza! Quando ce la concediamo, dunque come eccezione e non come regola, è bene che il pranzo sia più moderato e dovrà prevedere una buona quota di verdure, preferibilmente sia cotte che crude, accompagnata da fonti di carboidrati complessi, come pane tostato, pasta o riso integrale, così da compensare lo sbilanciamento della quota proteica e di grassi della colazione! Come già affermato in precedenza, è sempre il rapporto dei nutrienti assunti nella giornata a dover essere rispettato”.

Sono in molti a scegliere come prima colazione cappuccino e brioche: :” Sicuramente il cappuccino non costituisce un’opzione valida come prima colazione, specialmente se questa scelta  viene compiuta quotidianamente. Il latte vaccino contiene proteine sieriche insulinotropiche (stimolano la produzione di insulina), mentre la caseina induce la sintesi di IGF-1, fattore di crescita potenzialmente correlato a patologie oncologiche. Con le alte temperature impiegate nei processi di pastorizzazione, inoltre, la caseina si degrada fino a diventare una sostanza colloidale insolubile, che altera la permeabilità intestinale. Anche per formare la schiuma del cappuccino, che tanto piace ai nostri ragazzi, il latte  viene sottoposto ad un ulteriore processo termico! Quindi no, il cappuccino non può essere considerato una scelta ottimale per la colazione, perché insufficiente dal punto di vista nutrizionale sia qualitativo che quantitativo, ma un’eccezione golosa da gustare ogni tanto, magari accompagnato da una brioches…anche perché chi lo mangia tutti i giorni lo fa oramai in maniera automatica e distratta, come fosse una forma di dipendenza e con molta meno gioia di un consumo saltuario”.

Ringrazio il Professor Bolognino il quale anche questa volta, ci ha aiutato a comprendere, in maniera semplice ma efficace, quanto sia importante assegnare alla prima colazione il ruolo che le spetta nel quadro di un’alimentazione sana ed equilibrata.

                                                Alessandra Fiorilli

I cibi della salute: intervista al Professor Rolando Alessio Bolognino

La salute passa anche per la tavola: vediamo con il Professor  Rolando Alessio Bolognino, quali sono i cibi alleati del nostro benessere e quali regole seguire dopo gli “stravizi”, che possono seguire sia il periodo delle festività, sia una serie di pranzi e cene più abbondanti del solito e consumati in un tempo molto ravvicinato tra loro.

Sicuramente i caposaldi della dieta mediterranea rappresentano la miglior “medicina” per ridurre l’uso di farmaci. E’ necessario approfondire quelli che sono i consigli comuni, i detti popolari e le false credenze, conoscendo bene i pilastri della dieta più antica del mondo e che benefici apporta”.

Inizia così l’intervista al Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.     

    
 

Tra gli alimenti tipici dell’area mediterranea e che merita un posto privilegiato, figura il pesce azzurro:” L’espressione “pesce azzurro” è meramente commerciale, non scientifica, ed è utilizzata con riferimento ad una categoria eterogenea di prodotti ittici, che non comprende una sola specie, ma tutti i pesci con una colorazione del dorso che va dall’azzurro al verdastro, con il corpo affusolato, allungato, e caratterizzato dall’assenza di squame. Dal punto di vista nutrizionale, oltre a fornire proteine ad alto valore biologico, si contraddistinguono per l’elevata presenza di omega-3, in particolare EPA e DHA, definiti essenziali in quanto l’organismo umano non è in grado di sintetizzarli. Ci riferiamo dunque  a sgombro, aguglia, alaccia, acciuga, lanzardo, palamita, cheppia. Sono considerati azzurri anche il tonnetto, il pesce spada e il salmone, per la ricchezza in omega-3. È fondamentale mantenere un rapporto ottimale tra omega-3 e omega-6 in quanto tale relazione costituisce un fattore di primaria importanza nella regolazione dei processi infiammatori dell’organismo: nella dieta occidentale è fortemente sbilanciato verso i primi, attestandosi su 10:1, mentre le linee guida suggeriscono di consumare per ogni g di omega-3, circa il quadruplo di omega-6. La modalità di cottura cui si sottopone il pesce è fondamentale per garantirne il mantenimento delle proprietà. Prediligere basse temperature o il consumo a crudo, sotto forma di tartare. Con la cottura, infatti, gli acidi grassi tendono a cambiare conformazione chimica attraverso processi di ossidazione e vengono prodotti composti  volatili dannosi, i lipoperossidi, che causano la perdita delle proprietà benefiche appena decantate.  Naturalmente, nella scelta del pesce azzurro è bene preferire quello delle nostre coste, dunque italiane, se possibile optando proprio per quello locale. È importante anche fare attenzione alle modalità di allevamento, che inevitabilmente incidono sulle qualità nutrizionali del prodotto. Un pesce selvatico è libero di muoversi, dunque svilupperà più muscolatura rispetto ad un pesce di allevamento, che ha a disposizione meno spazio in cui nuotare…L’apporto di grassi di quest’ultimo sarà inevitabilmente maggiore (visivamente si riconosce, ad esempio nel caso del salmone, nella marezzatura più consistente e spessa)! Naturalmente i benefici del pesce azzurro non si limitano alla presenza di grassi qualitativamente migliori, ma anche alla concentrazione di micronutrienti come lo iodio, che supporta la funzionalità tiroidea, e molecole antiossidanti, come l’astaxantina, carotenoide ad attività antiossidante di gran lunga superiore a quella della vitamina E. E’ considerato anche una buona fonte di vitamina D, necessaria per garantire la salute dell’apparato scheletrico. Come per altri alimenti, anche il consumo  di pesce azzurro non è adatto a tutti, poiché, data la ricchezza in purine,  non è indicato per i soggetti che soffrono di   iperuricemia”.

L’alimento principe della dieta mediterranea è indubbiamente  l’olio extravergine d’oliva :“Conosciuto anche come “l’oro liquido” della dieta Mediterranea, l’olio evo rappresenta una fonte di nutrienti di prima qualità. Si caratterizza per un maggior apporto di grassi insaturi (in particolare l’acido oleico),  i quali sono in grado di modulare i livelli di colesterolo ematico, aumentando la frazione cardioprotettiva HDL.  Tra i vari polifenoli presenti, la presenza di secoroidi garantisce proprietà antitumorali: stimolano la produzione di radicali liberi causando l’autofagia delle cellule del cancro alla mammella. L’oleuropeina, invece, possiede proprietà antinfiammatorie: diminuisce l’espressione di una particolare classe di molecole (leucotrieni B4), agendo in prevenzione delle patologie neurologiche e cardiovascolari. Meno diffuso ma altrettanto ricco di nutrienti è l’olio di canapa, una delle principali fonti di acido alfa-linonelico. Un cucchiaio di olio di lino può soddisfare il fabbisogno giornaliero di omega-3 dall’organismo, ma comunque non può sostituire l’apporto di pesce azzurro, in quanto EPA e DHA non sono adeguatamente rappresentati. Il rapporto tra omega-3 ed omega-6 diventa ancor più ottimale nell’olio di lino, anch’esso un concentrato di molecole antiossidanti e antinfiammatorie. La ricchezza in acidi grassi essenziali (gli omega 3 per l’appunto) rende questi due tipi di olio particolarmente utili nei regimi alimentari ipocalorici, in quanto stimolano l’organo epatico nelle funzioni di disintossicazione, e in presenza di patologie cardiovascolari. Per tutti i tipi di olio nominati, se ne consiglia il consumo a crudo per evitare che si disperdano tutti i benefici elencati poco fa. Nonostante le innumerevoli proprietà dell’olio evo, ma anche di quello di canapa e lino, non occorre dimenticare che sono pur sempre cibi ad elevato tenore lipidico (9 Kcal per g), pertanto in caso di sovrappeso e obesità è bene regolarne finemente il consumo”.

Le verdure, apportatrici di fibra, ricchissime di vitamine e Sali minerali, non sono, però, tutte uguali :”La famiglia delle brassicacee, cioè cavolo rosso, verde, bianco, cavolfiore, verza e tanti altri…non possono di certo mancare sulle nostre tavole in quanto costituiscono una miniera di sali minerali e vitamine (specialmente la vitamina C).  Questa famiglia di vegetali contiene una particolare classe di composti chimici, chiamati glucosinolati, i quali vengono convertiti a forma attiva (isotiocianati) in seguito a traumi meccanici (ad esempio quando vengono tagliati con il coltello, o attraverso la masticazione) mediante l’attivazione dell’enzima mirosinasi. Anche una flora microbica in salute è necessaria per godere dei benefici dei glucosinolati, in quanto i microrganismi simbiotici sono in grado di produrre questo stesso enzima che li converte in forma attiva. Per intenderci meglio, tali composti sono gli stessi che provocano quel forte odore sprigionato in seguito alla cottura di questi vegetali! Tra tutti, il più noto è senza dubbio il sulforafano. I benefici di questa molecola ad azione biologica si rivelano efficaci soprattutto in ambito oncologico, specifico per i casi di tumore al colon, seno e prostata, mediante l’inibizione del processo di angiogenesi (formazione di nuovi vasi sanguigni) e di metastatizzazione (migrazione delle cellule tumorali). La cottura delle brassicacee può causare l’inattivazione parziale o totale di dei principi attivi, pertanto il consumo a crudo attraverso centrifughe è da preferire. In alternativa è bene scegliere modalità di preparazione che non prevedono temperature elevate, come nel caso della cottura a vaporeSe si segue una terapia con anticoagulanti è bene evitare il consumo di brassicacee, in quanto, potrebbero interferire con l’efficacia del farmaco, mentre nei soggetti che soffrono di colon irritabile potrebbero causare l’insorgenza di coliche e dar luogo ad eccessiva fermentazione causando forte tensione addominale. In presenza di ipotiroidismo, invece, è bene limitarne il consumo da crude in quanto i prodotti di idrolisi dei glucosinolati possiedono caratteristiche anti-gozzigene, ostacolando la captazione di iodio per la formazione degli ormoni tiroidei”.

Noci, mandorle, pinoli, nocciole, pistacchi, ovvero la famiglia dei semi oleosi, è molto vasta, vediamo quali sono i benefici che possono apportare e chi dovrebbe consumarli con moderazione. :”Possiedono spiccate proprietà antiossidanti, garantite dalla presenza di quercetina, campferolo e miricetina Tali polifenoli svolgono un’importante azione cardioprotettiva. Apportano notevoli quantità di minerali, in particolare ferro, zinco e calcio. Proprio il calcio, poi, risulta essere addirittura più biodisponibile di quello contenuto nel latte! Il profilo lipidico, invece, si distingue per la presenza di omega-3, linea di acidi grassi che, oltre ad essere in grado di modulare l’ infiammazione dell’organismo, ostacola l’aggregazione piastrinica e mantiene sotto controllo i livelli di colesterolemia. Ben vengano quindi mandorle, noci, nocciole, pistacchi, pinoli… non nomino le arachidi perché secondo la classificazione botanica rientrano nella famiglia delle leguminose, anche se per i loro valori nutrizionali sono paragonabili ai semi oleosi! Occorre sempre tenere a mente che sono alimenti ad elevata densità calorica, pertanto occorre non eccedere con il loro consumo. Tra tutti, le noci di macadamia possiedono il quantitativo maggiore di acidi grassi monoinsaturi, una concentrazione paragonabile a quella dell’olio evo. Ricordiamo anche i semi di chia e di papavero, che possono essere aggiunti alle nostre insalate per conferire croccantezza e sapidità senza aumentare l’apporto calorico del pasto, dato che vengono generalmente impiegati in una quantità inferiore rispetto agli altri tipi di semi oleosi. Attenzione al loro consumo in presenza di reflusso, in quanto stimolano la produzione di un ormone (colecistochinina) ad azione rilassante che agisce a livello dello sfintere esofageo inferiore, facilitando la risalita di materiale gastrico”

Dopo un periodo di stravizi, la prima cosa a cui si pensa è di eliminare i carboidrati:” Possiamo dire che è indubbiamente preferibile il consumo della pasta integrale in quanto, non subendo il processo di raffinazione, i cereali conservano il germe e la crusca (la parte più esterna). Caratterizzandosi per un maggior quantitativo di fibra, possiedono un indice glicemico più basso. Ciò li rende particolarmente indicati in presenza di diabete e nei regimi ipocalorici,  in quanto migliorano il controllo delle sensazioni di fame-sazietà. La presenza di beta-glucani fornisce un’arma per contrastare l’insorgenza di ipercolesterolemia. Il mantenimento della struttura integra del chicco permette inoltre di conservarne anche la sua ricchezza in micronutrienti, specialmente in termini di vitamine del gruppo B e vitamina E, oltre a zinco, potassio e selenio. Al momento dell’acquisto, è bene fare attenzione a ciò che è riportato nell’etichetta nutrizionale: diffidate dal falso integrale, riconoscibile dalla presenza di farine raffinate (farina 00) con l’aggiunta di crusca, dunque spogliate dalla vera parte nutritiva che è il germe. Menzione speciale meritano i grani antichi (Verna, Gentil rosso, Senatore Cappelli,..), che non hanno subito alcun intervento di ingegneria genetica per migliorare la resa ed aumentare la resistenza ai microrganismi, ma sono rimasti autentici, col vantaggio di avere un sapore più genuino ed un tipo di glutine qualitativamente migliore (a livello intestinale non si disgrega e non crea infiammazione, a differenza dei grani moderni).  Anche nel caso dell’integrale, occorre fare delle precisazioni: è bene limitarlo sia in presenza di iperuricemia che in caso di reflusso. Naturalmente, il maggior apporto di fibra li rende poco indicati anche in presenza di sindrome del colon irritabile”.

Inverno è sinonimo di agrumi, ricchissimi in vitamina C:”  Non solo mandarini, arance, pompelmi che più comunemente possiamo trovare tra i banchi del mercato o del supermercato, ma anche il mapo, il limone caviale, la mano di Budda, il kumquat, di sicuro più rari, ma con le medesime proprietà dei primi nominati. Nei mesi invernali costituiscono una vera e propria arma contro le infezioni batteriche e virali, in quanto presentano un’elevata di concentrazione di vitamina C, o acido ascorbico, in grado di rafforzare le difese immunitarie. Se nell’immaginario collettivo la spremuta di arance rappresenta la panacea di tutti i mali, è bene consumarla non appena aver spremuto gli agrumi. La vitamina C è fotosensibile, pertanto viene degradata se resta a lungo nel bicchiere! In merito all’acido ascorbico, occorre anche ricordare la sua capacità di aumentare la biodisponibilità del ferro, rendendolo più assorbibile… se siamo una condizione in cui il fabbisogno del minerale è aumentato (ad esempio in caso di anemia, gravidanza, ecc), meglio condire la nostra fetta di carne o la nostra porzione di spinaci con del succo di limone! Tra i vari tipi di agrumi, senza dubbio le arance  sono quelle maggiormente ricche in antiossidanti, contrastando il fenomeno di stress cellulare che causa l’invecchiamento cellulare. Esperidina e Naringina sono presenti in concentrazioni maggiori, ed il loro contenuto decresce con l’aumentare delle dimensioni del frutto”.

Dopo aver esagerato a tavola, ci si domanda spesso come ripartire al meglio e in salute: “ Direi sicuramente dall’acqua, che è un alimento a tutti gli effetti, ed è fondamentale per garantire il regolare svolgimento di funzioni fisiologiche dell’organismo! Interviene nella termoregolazione corporea, distribuisce le sostanze nutritive nei distretti del corpo rimuovendo le sostanze di scarto, assieme alla fibra contribuisce a regolarizzare il transito intestinale, garantisce la corretta idratazione dei dischi intervertebrali… quindi se non beviamo una quantità sufficiente di acqua, la tendenza fisiologica alla diminuzione della nostra altezza a cui si assiste con il passare degli anni sarà accentuata! Il fabbisogno idrico varia in funzione della fascia di età considerata: per i neonati si attesta sugli 800 ml/die, assunti soprattutto mediante il consumo di latte materno; per i bambini di età compresa tra 1 e 6 anni nell’intervallo 1.200-1.600 ml/die; fino ai 10 anni occorre raggiungere 1.800 ml/die; per ragazzi di età superiore e per gli adulti un introito adeguato di acqua corrisponde a circa 2.100 -2.500 ml/die. L’offerta di acque al supermercato è davvero vasta, e ciascun tipo si differenzia dall’altro per specifiche caratteristiche. In base al residuo fisso, ovvero alla quantità di Sali disciolti, vengono suddivise in differenti classi. Le minimamente mineralizzate  (RF<50 mg/L) favoriscono la diuresi e sono particolarmente indicate per i soggetti che soffrono di calcolosi renale e in caso di regimi dietetici; le oligominerali (50 mg/L < RF<500 mg/L) sono acque iposodiche, da tavola, e possono essere consumate liberamente da tutta la famiglia nell’intera giornata; le acque minerali (500 mg/L < RF<1500 mg/L)  hanno una maggior ricchezza in Sali, che le rende particolarmente indicate per gli sportivi, per gli anziani, per i ragazzi e le donne in gravidanza, e in base alla quantità di sale predominante possono essere distinte in acque calciche, ferruginose, bicarbonate, solfate..; le fortemente mineralizzate (RF<1500 mg/L) sono invece acque ad uso terapeutico, da consumare su prescrizione medica. Ad ognuno la sua acqua! Ad esempio, per i soggetti che soffrono di reflusso un’acqua bicarbonata è più indicata per tamponare l’acidità gastrica.

 E’ sempre con grande piacere ospitare sulle pagine del giornale “EmozionAmici” il Professor Rolando Alessio Bolognino, il quale con il suo linguaggio semplice, diretto ed efficace riesce a rendere accessibili temi scientifici che hanno un impatto nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

                                Alessandra Fiorilli

Iperuricemia: una condizione clinica dovuta sia a cause di natura genetica che ad un’errata alimentazione. Qual è la dieta migliore da seguire : ce ne parla il Professor Rolando Alessio Bolognino

Talvolta di alcune patologie si conosce solo quello che è l’aspetto clinico più manifesto, di cui la gente parla e si lamenta.

E’ il caso dell’iperuricemia, ovvero :” Una condizione clinica caratterizzata da una concentrazione ematica di acido urico superiore ai range fisiologici, fissati a 7 mg/dl per il sesso maschile e 6,5 mg/dl per quello femminili”, come ci dice il Professor Rolando Alessio Bolognino il  Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.    

       

Quando la concentrazione dell’acido urico è molto elevata, si manifesta la “gotta”, patologia molto nota, conosciuta sin dai tempi antiche per essere molto fastidiosa e, in casi rari, anche invalidante.

Insieme al Professor Bolognino facciamo luce su questa patologia che ha cause sia genetiche che legate ad un’errata alimentazione, mettendo in evidenza come anche e, soprattutto in questo caso, una corretta dieta possa aiutare molto nella gestione di tale patologia, causata, come già detto sopra, dalla concentrazione, oltre il range fisiologico,  di acido urico :” Sostanza, questa, che  è un prodotto di scarto la quale si  origina dal metabolismo delle proteine, in seguito a scissione delle purine (costituenti di DNA e RNA).  Superati i  9 mg/dl, si procede con una terapia farmacologica adeguata come l’allopurinolo, il farmaco più comunemente impiegato, in grado di inibire l’enzima responsabile della produzione endogena di acido urico che,  in concentrazioni elevate,   si cristallizza e si deposita a livello delle articolazioni causando,  nel lungo termine, la gotta, ovvero una forma di artrite infiammatoria che si distingue per l’insorgenza di forti dolori e masse nodulari (tofi gottosi). Le conseguenze dell’iperuricemia si registrano anche a carico dei reni in forma di uropatia ostruttiva: i cristalli di urato possono condurre alla formazioni di calcoli e dolorosissime coliche. Le più recenti evidenze scientifiche, inoltre, riconoscono tra le conseguenze dell’iperuricemia anche l’ipertensione arteriosa”.
L’iperuricemia ha varie cause:
Circa il 70% dei casi può essere ricondotto a cause di natura genetica (sono stati individuati circa 27 geni associati a tale condizione clinica). Si parla, in questo caso, di iperuricemia primitiva, determinata da un’eccessiva produzione endogena di purine, degradate poi ad acido urico. L’iperuricemia può essere dovuta anche ad una diminuzione dell’escrezione di urato. Sono stati identificati differenti polimorfismi per il gene codificante per il trasportatore renale di acido urico, che possono quindi determinarne una concentrazione ematica elevata in quanto l’organismo non riesce ad eliminare l’urato per mezzo delle urine. Resta poi un 30% di casi in cui è l’alimentazione a determinare l’insorgenza di tale patologia”.

Come per altre condizioni cliniche, anche per l’iperuricemia la dieta riveste un ruolo molto importante, specie nella prevenzione di tale patologia: “La dieta, come abbiamo poco fa anticipato, è in grado di influenzare i livelli di acido urico nel sangue. Innanzitutto, occorre moderare il consumo di alimenti proteici, in quanto apportano notevoli quantità di purine. Attenzione, dunque, a quelle che sono le più diffuse strategie nutrizionali che promettono una rapida perdita di peso, come nel caso delle diete iperproteiche! Anche un approccio di tipo chetogenico può influenzare la concentrazione di acido urico nel sangue, poiché i chetoni competono con l’urato per essere escreti dal rene. Altro nutriente che può influenzare i valori di uricemia è il fruttosio: nonostante non contenga basi puriniche, è in grado di indurre la degradazione dell’ATP, molecola di scambio energetico dell’organismo, in acido urico. Una precisazione è d’obbligo: l’invito non è quello di diminuire il consumo di frutta (in rapporto al volume, la quantità di fruttosio in una mela o in una banana è davvero minimo), bensì occorre limitare l’apporto di dolci e soft drinks (il saccarosio, lo zucchero bianco per intenderci, è composto per il 50% da fruttosio!). Anche un adeguato stato di idratazione costituisce una buona pratica di prevenzione, in quanto una diuresi regolare consente di controllare i livelli di acido urico, espulso attraverso le urine.Esiste una categoria di soggetti  che più degli altri sono soggetti al rischio di soffrire di iperuricemia:
Chi soffre di nefropatie caratterizzate da una scarsa velocità di filtrazione glomerulare è naturalmente più soggetto allo sviluppo di iperuricemia se segue una dieta sbilanciata, in quanto la capacità di escrezione dell’ urato è ridotta. In caso di patologie ematologiche, come ad esempio i linfomi, oppure nel caso di trattamenti chemio e radio terapici, vi è un elevato tasso di turnover nucleoproteico (come abbiamo già detto, le purine compongono il nostro DNA!), pertanto se i soggetti non sono seguiti da un punto di vista nutrizionale si può assistere ad un aumento di acido urico. Naturalmente, poi, in presenza di familiarità per iperuricemia è bene la cura delle proprie abitudini alimentari è d’obbligo!”.
Ci sono cibi da limitare in presenza di tale condizione clinica?:
“È il contenuto di purine a dircelo! Pollame e carni bianche (come il vitello o il maiale magro), affettati magri e molluschi ne hanno un contenuto intermedio, che non supera i 150 mg per 100 g di prodotto e sono quindi da limitare. Tra i vegetali, occorre ridurre asparagi, cavolfiori, spinaci, funghi, assieme a lenticchie, fagioli e piselli e ai cereali integrali. In questo caso vige la regola del buonsenso: tali alimenti possono essere assunti con una frequenza ridotta e in quantità contenute”.

E quali, invece, i  cibi, invece, da evitare?:”  Gli alcolici senza alcun dubbio (in particolar modo la birra, a maggior contenuto di purine), in quanto l’etanolo impedisce l’eliminazione di urato da parte dei tubuli renali, e le bevande zuccherate per i motivi descritti poco fa. Nel mondo animale, si consiglia di evitare fegato e frattaglie, oltre al pesce azzurro (dunque acciughe, aringhe, sardine, sgombro) e frutti di mare. Non a caso, in passato, l’iperuricemia era conosciuta come la malattia dei ricchi, proprio perché erano gli unici che potevano permettersi pasti a base di carne, pesce, dolci e alcolici”.

Come per altre patologie, chiedo al Professor Bolognino se è possibile il reintegro  di alcuni alimenti, prima limitati nella dieta, in seguito ad un miglioramento del quadro clinico:

“Anche in questo caso, occorre appellarci al buonsenso! Se il valore dell’uricemia ritorna nel giusto range, è possibile reintegrare alcuni cibi tra quelli eliminati, ma sempre senza esagerare. Naturalmente il consiglio è sempre quello di rivolgersi ad una figura competente che sia in grado di studiare un piano di reintegro ad hoc, senza il rischio di tornare alla condizione di partenza.”.
Anche per l’iperuricemia, l’attività fisica, unita a farmaci, laddove prescritto dal medico e alla dieta,  può far molto:
Assolutamente sì! Ad eccezione nel caso di crisi gottose in cui è necessario restare a riposo, come nelle altre patologie reumatiche l’attività fisica contribuisce a recuperare la funzionalità delle articolazioni, in cui si depositano i cristalli di urato, rendendo il corpo maggiormente elastico e tonico. Si consiglia di iniziare con una ginnastica dolce ed aumentare gradualmente resistenza e difficoltà degli esercizi. Occorre preferire comunque un’attività ad intensità moderata, sotto la soglia anaerobica: il lattato, infatti nel tubulo renale compete con gli urati per essere escreto. Meglio preferire sport aerobici, dunque, come jogging, cyclette o nuoto”.

Ringrazio il Professor Alessio Rolando Bolognino, il quale, ancora una volta, ci ha illustrato una verità inconfutabile: il cibo non è soltanto sinonimo di sopravvivenza o di piacere ma può rappresentare una via sia per la prevenzione primaria sia per curare patologie, in sinergia, laddove è necessario, con i farmaci, perché come disse il filosofo Ludwig Feuerbach :”L’uomo è ciò che mangia”.

                                     Alessandra Fiorilli

La dieta in gravidanza: ne parliamo con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore, Biologo Nutrizionista, Docente Universitario, autore di libri e Divulgatore scientifico.

Dieta e gravidanza: tale binomio è stato oggetto di molte credenze popolari, di detti che venivano tramandati di madre in figlia.

Primo tra tutti: in gravidanza la donna deve mangiare per due.

Cerchiamo di far luce su quanto sia importante, sia per la donna sia per il bambino, che la futura mamma segua un regime alimentare equilibrato e corretto.

Ne parliamo con il  Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e Biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente Universitario a contratto presso l’Università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness, nonché  autore di libri e pubblicazioni scientifiche, Divulgatore scientifico in radio e televisione.   

 

     
Iniziamo proprio con l’affrontare, in maniera scientifica, il primo consiglio che veniva dato alle future mamme appunto, quello di mangiare per due:      
 “Il feto viene nutrito dalla futura mamma attraverso la placenta, quindi è vero che in gravidanza si mangia “in due”, ma ciò non implica che si debba mangiare il doppio! Il fabbisogno energetico della madre cresce, ma occorre sempre prestare attenzione agli eccessi: aumentare in maniera squilibrata ciò che si mangia potrebbe determinare per la donna il rischio di sviluppare diabete gestazionale, gestosi e ipertensione. Inoltre, una mamma in stato di obesità espone il bambino ad aumentato rischio di nascita prematura e dimensioni ridotte al momento della nascita. Negli ultimi tempi le conoscenze in materia di epigenetica (scienza che studia come i fattori ambientali, ad esempio la stessa dieta, incidano sull’espressione del nostro patrimonio genetico), si sono evolute anche in questo senso: l’alimentazione della donna in gravidanza deve essere equilibrata e bilanciata, in quanto condiziona la crescita del feto, non solo nella fase di vita intra-uterina, ma anche in quella adulta”.

Dopo aver fatto luce su questo luogo comune più diffuso e conosciuto, vediamo come dovrebbe cambiare la dieta nel periodo della gravidanza:         
Un’ alimentazione sana in gravidanza passa necessariamente per una corretta manipolazione degli alimenti, che in alcuni casi possono nascondere dei veri e propri pericoli di natura microbiologica per la donna e per il feto. Per prevenire la toxoplasmosi, ma più in generale anche le infezioni da parte di altri patogeni, è fondamentale sciacquare sotto acqua corrente in modo accurato frutta e verdura, tagliando via anche le aree danneggiate o ammaccate, più probabilmente siti di proliferazione batterica. A tale proposito, occorre aprire una parentesi in merito ai detergenti: in gravidanza, infatti, il bicarbonato non basta a rendere sicuri gli alimenti, mentre l’utilizzo di altri prodotti a base di ammoniaca è sconsigliato per la presenza eccessiva di sostanze chimiche, a meno che il suo impiego non sia seguito da un ulteriore risciacquo altrettanto accurato. Meglio preferire, dunque i detergenti a base di cloro per un’igiene completa, ma soprattutto sicura. Per prevenire i fenomeni di contaminazione crociata occorre sempre pulire i vari utensili, e naturalmente le mani, dopo aver manipolato cibi crudi. Per evitare il rischio di infezioni da parte di listeria, salmonella e campylobacter è necessario che carne, uova e pesce siano sempre ben cotti. Gli affettati e i formaggi devono essere assunti con moderazione, preferendo per un discorso di sicurezza alimentare, gli stagionati, come il crudo a 20 mesi o formaggio a pasta dura  a 36 mesi. Preferire al supermercato sempre quelli confezionati, poiché al banco della gastronomia potrebbero essere soggetti a fenomeni di cross-contaminazione!”   

Carboidrati, proteine, vitamine, in quali percentuali devono essere presenti nella dieta  e quante calorie dovrebbe assumere?       
“I LARN consigliano di aumentare l’apporto energetico di 150 Kcal durante il primo trimestre, raddoppiandolo nei mesi successivi. In fase di allattamento, il surplus calorico si attesta sulle 300 Kcal. Naturalmente tali indicazioni sono rivolte alla fascia di donne in normopeso: in caso di sovrappeso l’incremento calorico dovrà essere più modesto, poiché la donna possiede già scorte di nutrienti adeguate a sostenere la crescita del feto. A fare la differenza è sempre la ripartizione tra macronutrienti: come ci insegna la dieta mediterranea, l’assunzione di carboidrati dovrebbe corrispondere al 50-60% delle kcal introdotte, i grassi non dovrebbero superare il 30%, mentre le proteine dovrebbero rappresentare il 20%. È fondamentale variare i cibi  per soddisfare il fabbisogno di micronutrienti, assicurando così un regolare apporto di vitamine e minerali, come acido folico, ferro, vitamina b12, vitamina d, calcio, necessari per il corretto sviluppo del feto! In questo caso è il professionista ad indirizzarvi verso l’uso di integratori, se necessario. Ad, esempio una supplementazione non richiesta di vitamina A potrebbe interferire con lo sviluppo neuronale del nascituro; viceversa, l’importanza dell’acido folico per il tubo neurale richiede quasi sempre il bisogno di integrazione in ogni caso, nonostante sia un micronutriente molto diffuso negli alimenti. Un alimento che non dà calorie ma è essenziale per la salute della donna è l’acqua, che non deve mai mancare. Un buono stato di idratazione è parte integrante dell’aspetto nutrizionale. Si consiglia di consumare almeno 2 litri di acqua al giorno, necessari per idratare la placenta e consentire l’aumento del volume ematico”.      

Gravidanza e cibi da evitare:    
“Certamente i pesci di grossa taglia, ad esempio tonno e pesce spada, sono soggetti al fenomeno di bioaccumulo, e possono contenere metalli pesanti, come il mercurio, in grado di incidere sulla salute del nascituro. Meglio optare per il pesce azzurro di piccola taglia. Data la presenza elevata di caffeina in thè e caffè, si consiglia sempre di limitarn l’uso, in quanto potrebbero aumentare il rischio di parto prematuro e basso peso alla nascita. Il consumo di affettati, come detto poco fa, necessariamente sottoposti ad una lunga stagionatura, deve essere ridotto poiché apportano molto sale, andando ad incidere su un quadro già complesso di ritenzione di liquidi negli arti inferiori della donna in gravidanza. Anche il consumo di dolci deve essere attenzionato: l’eccesso di zuccheri semplici può condurre ad un’alterazione nella regolazione della glicemia e condurre al diabete gestazionale”.

Ci sono anche dei cibi da escludere completamente, sia durante la gravidanza che l’allattamento, vediamo  quali:        
L’alcol è senza alcun dubbio da escludere in modo assoluto dalla dieta della futura mamma. Ancora non sono presenti studi scientifici che definiscono quale sia la dose minima in grado di interferire con la crescita del feto, pertanto è preferibile evitarlo del tutto. Occorre eliminare anche i mitili: sono animali filtratori, dunque concentrano eventuali sostanze tossiche presenti nelle acque, trasmettendole alla madre e , di conseguenza, al feto. Concluso l’allattamento è possibile reintegrare tutti i cibi a cui è stato raccomandato di prestare attenzione in gravidanza, naturalmente durante l’allattamento bisogna prestare attenzione a quei cibi, come il carciofo e l’asparago, l’aglio, le spezie ecc, che possono alterare il sapore del latte rendendo difficile il momento della poppata. Attenzione anche a quei cibi generano gonfiore intestinale e possono portare il bambino a soffrire di coliche. Si tratta soprattutto di cavolo, cavolfiore, peperoni, broccoli, cetrioli, asparagi e carciofi”.

Se durante il corso della giornata si dovessero avere degli attacchi di fame, cosa  prediligere?
“Occorre agire alla radice del problema: è fondamentale consumare più pasti al giorno (non solo i principali) proprio per evitare di essere preda degli attacchi di fame! La funzione degli spuntini è proprio quella di mantenere costante il livello di glicemia: quando la concentrazione di zucchero nel sangue scende troppo, il nostro organismo ci comunica di essere in uno stato di sofferenza attraverso l’insorgenza dello stimolo della fame… questo è vero più che mai in gravidanza! Ad ogni modo, verdure come finocchi, cetrioli, carote dovrebbero essere sempre a portata di mano , già pulite e fatte a pezzi per essere “sgranocchiate” quando si ha voglia di mangiare qualcosa. Ricche di acqua , fibre e vitamine rappresentano lo snack ideale…ma non l’unico! A metà mattina e a metà pomeriggio è possibile consumare frutta fresca oppure secca (se non si soffre di reflusso), cereali integrali, yogurt. In presenza di nausea è fondamentale consumare cibi secchi poiché sono in grado di assorbire i succhi gastrici, come gallette, o fette a base di farina integrale anziché pizza o grissini, che contengono invece più grassi rispetto ai primi! Sempre per combattere questa spiacevole sensazione possono essere di aiuto le tisane a base di zenzero o di agrumi, come limone, pompelmo e mandarini”.

Altro binomio che è  spesso all’attenzione, è quello gravidanza- sport, vediamo quali possono essere tranquillamente praticati:          
Se non ci si trova in uno stato di gravidanza a rischio, svolgere attività fisica è fondamentale in gravidanza. Utilizzare la cyclette, praticare nuoto, pilates, jogging, yoga o tennis è un fattore chiave per mantenersi in buona salute e ad avere una gravidanza più serena. Lo sport, infatti, non fa aumentare solamente il tono muscolare generale, incluso quello importantissimo del pavimento pelvico, ma migliora anche l’umore, prevenendo sintomi ansiosi e depressivi. Meglio evitare sport di contatto, come la boxe, o sport in cui sia elevato il rischio di caduta, come la bicicletta su strada. Nuoto e acquagym sono invece i migliori da praticare, oltre ai già menzionati: riducono il gonfiore su gambe e caviglia e diminuiscono la lombalgia.

Una giusta attività fisica riesce a svolgere anche la funzione di evitare di far accumulare troppi chili in gravidanza:        
Fare movimento o un’attività sportiva controllata aiuta a migliorare i processi metabolici di utilizzazione degli zuccheri e dei grassi, evitandone così l’accumulo eccessivo ed il sovrappeso. In più, rafforzando ed aumentando la componente muscolare, si realizza un aumento del proprio metabolismo basale: ciò significa che l’organismo a riposo consumerà di più calorie! In più l’attività fisica diminuisce la produzione di cortisolo, noto a tutti come “ormone dello stress”, che ha la capacità di incrementare la tendenza dell’organismo a trattenere i liquidi”.


E nel caso in cui si siano presi troppo chili, cosa si può fare?:  
Dopo il parto, in genere si perdono tra i 5 e i 7 kg, che corrispondono al peso del bambino, del liquido amniotico e della placenta. Dopodiché non c’è una risposta valida universalmente: in alcuni casi è necessario più di qualche mese affinché l’utero torni nel suo stato fisiologico; per altre donne, invece, i tempi possono essere più rapidi. Occorre impostare sin da subito delle sane abitudini alimentari, facendo attenzione alla qualità e alla quantità dei cibi introdotti. Senza dubbio, praticare regolarmente attività fisica è un grande aiuto alla perdita dei kg accumulati in gravidanza, poiché consente di lavorare non solo sulle calorie in entrata, ma anche su quelle in uscita!”.


Altro luogo comune è quello di intraprendere una dieta per perdere eventuali chili in più solo dopo aver concluso la fase dell’allattamento:         
Non c’è alcuna ragione per aspettare il termine della fase di allattamento. Un piano equilibrato che mira alla perdita dei kg in eccesso, tiene conto comunque del fabbisogno di crescita del bambino e di quello della donna che in questo delicato momento risulta generalmente essere aumentato di circa 300kcal, ma va valutato ad personam. È fondamentale rivolgersi ad un professionista del settore, e non improvvisare diete fai-da-te: un calo ponderale troppo rapido potrebbe far rilasciare nel latte delle sostanze tossiche che prima erano immagazzinate del tessuto adiposo in eccesso, che verrebbero quindi trasmesse al neonato”.

Ringrazio il Professor Rolando Alessio Bolognino, una gradita presenza fissa sul giornale EmozionAmici, per la sua squisita disponibilità e una professionalità che si unisce ad un linguaggio semplice, ma sempre efficace.

                                                                 Alessandra Fiorilli 


Alzheimer: grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare di Diagnosi Precoce e Prevenzione. Intervista al Professor Giovanni Battista Frisoni, tra i maggiori esperti in campo internazionale.

C’è una caratteristica comune che lega tutte le malattie gravi, quelle che nell’immaginario collettivo difficilmente lasciano scampo, perché quasi incurabili, o perché rappresentano un tunnel nel quale, una volta entrati, non è possibile più uscirne.

E’ stato così per il cancro, di cui si aveva timore persino a pronunciarne il nome, bollandolo semplicemente come “Il brutto male”, è stato, ed è ancora così,  per l’Alzheimer, malattia, questa, che fa ancora più paura perché, gettando un’angosciosa ipoteca sul futuro, è in grado di cancellare ciò che maggiormente ci distingue gli uni dagli altri: la memoria, la personalità, le abitudini, il nostro vissuto fatto di ricordi, atti, azioni, emozioni.

Fortunatamente, grazie alla ricerca, oggi possiamo parlare di Diagnosi Precoce e di Prevenzione anche per la malattia di Alzheimer: a delinearci questi aspetti è il Professor Giovanni Battista Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra, Professore Ordinario di Neuroscienze cliniche presso la locale Università e già Direttore Scientifico dell’IRCCS Centro di San Giovanni di Dio “Fatebenefratelli” di Brescia.

“Iniziamo con l’illustrare la patofisiologia della malattia di Alzheimer, ovvero  le tappe che portano una persona completamente  sana a sviluppare disturbi cognitivi prima, e  perdita di autonomia, poi. Quello che abbiamo imparato negli ultimi anni è che ciò che accomuna l’Alzheimer a tutte le altre malattie degenerative, è  la lunghissima  fase preparatoria, di  15-20 anni, durante la quale il cervello comincia a sviluppare delle alterazioni patologiche,  inizialmente molto leggere, poi sempre più  gravi, che portano, pian piano e lentamente,  il cervello a non riuscire più ad effettuare tutte le attività cognitive con la stessa efficacia di un tempo. Tali cambiamenti sono il risultato di una deposizione di proteine neurotossiche, un fattore, questo, che è comune a molte malattie neurodegenerative, quali, ad esempio,  la malattia di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica. Ciò che caratterizza e differenzia le suddette malattie, è il tipo di proteina neurotossica  e la zona del cervello nella quale va a depositarsi.

Quelle che si riscontrano nell’Alzheimer sono la proteina beta-amiloide e la proteina Tau,  che vanno a depositarsi nelle zone del cervello deputate ai processi della registrazione e consolidazione delle tracce mnesiche, ovvero della memoria.

La deposizione di tali proteine inizia 15-20 anni prima che compaiano i sintomi  e, iniziando  nelle zone della memoria, si allarga progressivamente, fino a coinvolgere il cervello  quasi  completamente”

Grazie alla Ricerca, oggi è possibile parlare anche per questa malattia di Diagnosi Precoce: “  E’ possibile quando c’è già il riconoscimento della malattia in persone che hanno, appunto, superato la soglia dei disturbi di memoria, in altre parole dopo quei 15-20 anni nei quali le proteine si sono accumulate nel cervello. C’è da dire, però, che  non tutti i disturbi di memoria sono legati alla malattia d’Alzheimer, si possono infatti avere delle dimenticanze più del normale,  legate a situazioni di stress, depressione, disturbi del sonno, solitudine, neoplasie, disturbi di circolazione celebrale, scompensi glicemici, e molte altre cause ancora. La diagnosi precoce permette di capire se i disturbi di memoria di una persona sono dovuti a una di queste condizioni o a una malattia di Alzheimer. Per far questo, si effettua una puntura lombare e un prelievo del  liquido cerebrospinale, lo stesso liquido acquoso nel quale il cervello è immerso. Oltre alla puntura lombare si può effettuare anche la scintigrafia cerebrale che ci permette di vedere quali parti del cervello tali proteine hanno colpito”.

Alzheimer e Prevenzione, sia primaria che secondaria: un binomio che, almeno sino a un po’ di tempo fa, sembrava impossibile, ma oggi non più.

“La Prevenzione primaria riguarda tutti quegli interventi che possono essere posti in essere in qualsiasi momento prima dell’insorgenza dei sintomi, dall’infanzia all’età adulta. La si fa per così dire “a pioggia”, con attenzione agli stili di vita, quali un’attività fisica regolare, un’alimentazione basata sulla dieta mediterranea, un’adeguata attività mentale, il  controllo di malattie  croniche quali ipertensione e ipercolesterolemia. Sono da evitare assolutamente le sostanze tossiche per il cervello quali droghe e da limitare altre sostanze neurotossiche, quali fumo e alcool”.

In un futuro non molto lontano, inoltre :” La prevenzione ci permetterà  di identificare le persone a rischio e trattare solo quelle realizzando, così una prevenzione molto più mirata, che chiamiamo prevenzione secondaria.  Sono in corso, infatti, trial clinici di somministrazione di medicinali su persone sane ma con amiloidosi  cerebrale, nelle quali vengono testati  farmaci anti-amiloide. In questi trial speriamo si potrà dimostrare che le persone che ricevono il farmaco, pur essendo ad   alto rischio, svilupperanno una demenza meno frequentemente delle persone  non trattate farmacologicamente. Quello che stiamo cercando di fare è di seguire una procedura simile  a quella che si ha per le malattie cardiovascolari. Si tratta il paziente con ipertensione o ipercolesterolemia, ad esempio, prima che lo stesso incorra in  un infarto o un ictus. Solo che tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo o il diabete è molto più semplice rispetto alla misurazione delle proteine neurotossiche  attraverso puntura lombare o PET,  che sono molto più  complicate e costose. Quello che sarà, invece, possibile fare prossimamente è misurare nel sangue le proteine neurotossiche amiloide e tau grazie a macchine sofisticatissime di ultimissima generazione che permetteranno di individuare persone ad alto rischio di sviluppare la malattia”.

La speranza che si possa parlare di Alzheimer in modo differente rispetto al passato arriva da una grande notizia: “Proprio quest’anno, a giugno, la FDA ha approvato il primo farmaco che in persone con malattia di Alzheimer ne rallenta di circa il 23% la progressione. La notizia ha fatto rumore  perché  c’è una rassegnazione sociale nei confronti della malattia di Alzheimer, in quanto percepita come  incurabile, di fronte alla quale non c’è nulla che si possa fare. Ebbene, questi farmaci, cambieranno anche la percezione della malattia”.

Un altro grande traguardo sarà raggiunto tra breve: “Attualmente test ematici per rilevare eventuali marcatori non si hanno ancora nella fase di pratica clinica, ma solo nei progetti di ricerca, anche se potremmo sperare di averli tra circa 2 anni, mentre programmi di prevenzione potranno essere in atto fra 5-10 anni. E’ una sfida enorme ma non impossibile, se pensiamo ai grandi passi in avanti che sono stati fatti in questo campo.   Basti pensare che quando io, quasi 30 anni fa, giovane medico, iniziai in questo campo, un mio collega del centro Fatebenefratelli pubblicò un articolo, dal significativo titolo:  “Alzheimer: malattia  o nebulosa”. Alcuni non ne parlavano neanche in termini di malattia e oggi stiamo lavorando a programmi di prevenzione”

E se tanto è stato fatto per questa malattia che fa ancora tanta paura, e se oggi c’è una speranza, sorretta da Ricerca sul campo, lo dobbiamo anche  medici come il Professor Giovanni Battista Frisoni, appassionato, e che  a tanta scienza affianca un’umanità palpabile e una grande vicinanza alle famiglie e ai pazienti di questa malattia che viene ancora  chiamata quella “ del lungo addio”.

                                               Alessandra Fiorilli

L’olio d’oliva: esaltato da Omero e Ippocrate, oggi pilastro della dieta mediterranea grazie alle sua eccellenti caratteristiche e qualità delle quali ci parla il Professor Rolando Alessio Bolognino.

“Oro liquido”, “La grande medicina”: sono queste le definizioni con le quali, rispettivamente, il grande scrittore  Omero e Ippocrate, il padre della medicina, tributavano all’olio d’oliva.

Il condimento simbolo della dieta mediterranea, era infatti usato, nei tempi antichi,  anche per curare  dermatiti e per lenire la sintomatologia legata all’apparato gastrointestinale.

Per conoscere a fondo questo alimento abbiamo parlato con il Professor Rolando Alessio Bolognino, Ricercatore e biologo nutrizionista in campo oncologico e di prevenzione, esperto in alimentazione sportiva, Docente universitario a contratto presso l’università Unitelma La Sapienza di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, l’Università degli Studi di Catania, Istruttore Protocolli Mindfulness. Autore di libri e pubblicazioni scientifiche, divulgatore scientifico in radio e televisione.

Siamo abituati a vedere, sugli scaffali dei negozi, molti tipi di olio di oliva, ma ciascuno presenta delle caratteristiche proprie, come ci illustra il Professor Bolognino: “La Comunità Europea classifica le diverse tipologie di olio di oliva sulla base di tre elementi: la percentuale di acidità libera, il tipo di processo attraverso cui è stato ottenuto il prodotto e l’analisi organolettica. Ad esempio l’olio extra vergine di oliva deve presentare un tasso di acidità non superiore allo 0,8% e un gusto assolutamente perfetto. L’Italia è un Paese stupendo, ricco di diverse cultivar , capaci di dare all’olio EVO, così come al vino, diversi profumi e diverse fragranze”.

Nell’immaginario collettivo l’olio è considerato un condimento, mentre, invece, è classificato, per le sue peculiarità, un vero e proprio alimento: “In quanto presenta una composizione lipidica pari al 99%, oltre ad una frazione minore di sostanze che esercitano azioni protettive per il nostro organismo, come polifenoli e vitamina E. Può infatti essere considerato un alimento funzionale, ovvero un alimento che ha la capacità di influire su una o più funzioni fisiologiche”.

E se, come abbiamo già detto, Ippocrate usava le proprietà medicamentose dell’olio d’oliva, oggi continua a rivestire un ruolo fondamentale per la nostra salute, un prezioso alleato, come afferma il Professor Bolognino: “L’olio extravergine di oliva viene considerato l’“oro liquido” della dieta mediterranea. Gli effetti positivi derivano principalmente dalla presenza di polifenoli e vitamina E. Questi ingredienti svolgono un’azione antiossidante in quanto salvaguardano le membrane lipidiche, prevenendo fenomeni di ossidazione. Inoltre, i polifenoli mostrano proprietà ipocolesterolemizzanti, poiché, in sinergia con l’azione dell’acido oleico, promuovono un abbassamento del colesterolo LDL ed un innalzamento del colesterolo HDL”.

Ottimale è consumare l’olio a crudo, come sottolinea il Professor Bolognino: “In questo modo   viene mantenuto inalterato il patrimonio di sostanze antiossidanti, preziose per il nostro organismo perché permettono di combattere l’infiammazione e l’invecchiamento cellulare provocato dai radicali liberi. Invece l’olio cotto, come tutti i grassi in cottura, tende a subire l’ossidazione e perossidazione dei grassi, con produzione di sostanze tossiche, come i lipoperossidi. In più, a livello gustativo, il consumo a crudo ci permette di apprezzarne maggiormente le note e gli odori che caratterizzano questo straordinario prodotto. Dunque ne guadagna sia la salute che il palato!”.

Molti anni fa si ebbe un dibattito, che correva lungo il linguaggio pubblicitario, nel quale l’uso dell’olio d’oliva per le fritture casalinghe era particolarmente demonizzato, chiedo al Professor Bolognino se, al contrario di quanto si è detto, lo si possa usare anche per le fritture: “E’ un ottimo prodotto per friggere, ma ha un punto di fumo inferiore ad alcuni oli di semi, come quello di girasole . Inoltre la sua struttura renderebbe il prodotto finale un po’ pesante, quindi assolutamente non adatto a fritti vegetali o di piccoli pesci. Ricordiamo che al superamento del punto di fumo viene favorita la produzione di acroleina, sostanza nociva che esercita un’azione tossica per il fegato, ma anche irritante nei confronti della mucosa gastrica”.

Grande attenzione, negli ultimi anni, verso i prodotti Bio. Anche l’olio è da preferire biologico?

È sempre bene prediligere un olio biologico sia perché viene meno l’utilizzo dei pesticidi sulle olive, impiegati per contrastare l’azione dei parassiti, sia perché nelle grandi aziende produttrici vengono spesso utilizzate delle sostanze chimiche che correggono le impurità e i valori di rancidità dell’olio. In più, un olio biologico è garanzia che tutti i processi adottati per la realizzazione del prodotto, dunque dalla coltivazione della pianta fino all’ immissione in commercio, siano stati realizzati in un determinato territorio rispettando i processi di crescita e trasformazione dell’oliva”.

Da prestare attenzione, nel momento in cui lo si acquista, alla dicitura “spremitura a freddo” che dovrebbe comparire sull’etichetta: “Le alte temperature possono contribuire alla dispersione di sostanze fenoliche, vitamine termolabili (la vitamina C e le vitamine del gruppo B) e acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, ma anche al peggioramento dei caratteri organolettici. Attraverso la spremitura a caldo, alcuni caratteri come la piccantezza o l’amarezza vengono persi, facendo emergere delle note dolci “piatte”. In più, bisogna considerare che proporzionalmente all’aumento della temperatura impiegata durante processo di estrazione, vi è una maggior appiattimento dell’aroma fruttato”.

Essenziale anche il colore della bottiglia: “Anche il packaging influisce sulla qualità di un buon olio. È consigliabile che sia conservato in bottiglie di vetro scuro, in modo tale che venga protetto dall’esposizione alla luce. Questa, infatti, può provocare fenomeni di foto-ossidazione responsabili dell’irrancidimento dell’olio e della perdita di preziose sostanze polifenoliche, come l’oleuropeina e l’olecantale, sostanze molto attive anche nella prevenzione oncologica”.

Diete ipocaloriche e olio: vediamo qual è il giusto equilibrio : “L’olio di oliva è un alimento che non deve mancare all’interno di una sana e corretta alimentazione, dunque anche nelle diete ipocaloriche. L’importante è che la composizione dei macronutrienti (proteine, carboidrati e lipidi) sia ben bilanciata. Consideriamo che circa il 30 % del nostro fabbisogno energetico giornaliero dovrebbe derivare dai lipidi, di cui l’olio di oliva rappresenta la fonte primaria. Infatti, oltre ad apportare preziosi componenti, permette un corretto assorbimento delle vitamine liposolubili, l’assunzione di acidi grassi essenziali ed una maggiore lubrificazione del colon, favorendo così il transito intestinale. Tra le azioni benefiche più importanti dell’olio extravergine d’oliva è doveroso citare: prevenzione del diabete, contrasto dell’ipertensione e miglioramento del profilo lipidico HDL, contrasto verso le malattie neurodegenerative, azione antiossidante”.

Pane e olio: la merenda di un tempo. Anche oggi è ancora valida, se dopo facciamo un po’ di attività fisica, come i bambini di tanti anni fa? “Diciamo di sì, con le adeguate differenziazioni tra le persone. Nelle giuste quantità, costituisce una merenda sana e nutriente, poiché apporta sia carboidrati sia grassi “buoni” provenienti dall’olio. Rispetto al classico frutto o yogurt che troviamo alla voce “spuntino” in ogni piano alimentare ha più calorie…ma basta avere una vita attiva e muoversi quando si può e sarà un’ottima scelta da mettere nella giornata, soprattutto per i più giovani (che invece preferiscono le merendine, che hanno maggiori calorie ma di qualità molto inferiore)”.

Ringrazio il Professor Bolognino per aver, così esaustivamente, illustrato, in tutti i suoi singoli aspetti, le caratteristiche di un alimento tanto amato dagli italiani e che diventa l’immancabile elemento principe di moltissimi piatti.

Miomi e polipi uterini: ne parliamo con la Dottoressa Francesca Sagnella.

I miomi uterini o fibromi e i polipi endometriali sono due entità diverse per loro natura: i miomi presentano una struttura solida, che origina dalle fibre muscolari, e sono solitamente tumori benigni; i polipi sono invece neoformazioni della mucosa endometriale (quel tessuto ghiandolare che si sfalda durante le mestruazioni)” afferma la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana.

I miomi hanno un’incidenza elevata nella popolazione femminile: Circa il 70% delle donne tra i 40 e i 50 anni ne ha almeno uno. Si tratta quindi di una problematica molto comune. Fortunatamente la trasformazione maligna di un mioma è un evento rarissimo: circa 2 su 1000. In tal caso il tumore prende il nome di lemiosarcoma, che è molto aggressivo e presenta caratteristiche tali da crescere in poco tempo, grazie ad una ricca vascolarizzazione. Ecco perché, quando si riscontra per la prima volta un mioma durante una visita ginecologica, è bene effettuare un controllo successivo a breve, dopo 6-8 mesi.

I miomi possono essere asintomatici oppure dare segno della loro presenza attraverso diverse manifestazioni che dipendono dalla posizione e dalle dimensioni. :”I miomi sottosierosi, ad esempio,  accrescono verso l’esterno del viscere uterino, quindi verso l’addome e la pelvi e possono non dare sintomi; qualora le dimensioni fossero importanti, possono provocare alla donna un senso di compressione o la necessità di urinare frequentemente. I sottomucosi, invece, si localizzano in prossimità della cavità uterina e, anche se di piccole dimensioni, possono manifestarsi con perdite ematiche irregolari e mestruazioni abbondanti e purtroppo, possono avere ripercussioni sulla fertilità”.

E sulla necessità che un mioma debba essere asportato, così si esprime la Dottoressa Sagnella: “E’ importante personalizzare la terapia. Nel caso in cui il sottomucoso produca sintomi, l’intervento da effettuare è quello della resettoscopia, senza necessità di un taglio addominale. Nel caso in cui il mioma sia intramurale o sottosieroso, si deve ricorrere alla miomectomia, quindi con incisione dell’utero”.

Qualora la paziente debba sottoporsi a tale intervento e desidera avere un figlio: Dovrà attendere del tempo prima di cercare una gravidanza perché l’utero deve cicatrizzare bene”.

Ancora più importante, dunque, sottoporsi a controlli periodici in modo da scoprire la presenza di un eventuale mioma che possa compromettere la fertilità:” Scoprire un fibroma , ad esempio all’età di 38 anni, potrebbe incidere negativamente sul progetto di una gravidanza”.

 In che modo i miomi possono interferire con la fertilità? :”La presenza di miomi nella cavità uterina, in prossimità degli osti tubarici, ad esempio, può ostruire la via di accesso alla tuba, impedendo l’incontro tra spermatozoo e ovulo; inoltre può interferire con l’impianto dell’embrione e con la formazione della placenta”.

Quali sono i fattori di rischio dei miomi?” La familiarità. In questo caso è buona norma cominciare ad effettuare ecografie transvaginali già all’età di 20-25 anni. Esiste una correlazione anche con il colore della pelle: le donne di colore hanno, infatti, il triplo delle probabilità di sviluppare miomi rispetto alla razza caucasica. Sovrappeso e obesità rappresentano un ulteriore importante fattore di rischio”.

I problemi più comuni che possono scaturire dai miomi: “ Sono rappresentati soprattutto all’anemia indotta dalle emorragie e dai dolori durante le mestruazioni (dismenorrea) o durante i rapporti sessuali (dispareunia)”.

La menopausa segna il momento in cui I miomi regrediscono da un punto di vista volumetrico, questo perché crollano gli estrogeni. Durante la pre-menopausa, invece, quando i miomi tendono a crescere, è possibile ricorrere a farmaci quale la pillola anticoncezionale per contrastare dolori e emorragie”.

Terapie tradizionali si affiancano a quelle più innovative: “L’ embolizzazione dei miomi è una procedura che viene essere eseguita un radiologo, il quale inserisce dei cateteri che vanno a chiudere l’arteria dalla quale il mioma riceve il sangue che lo nutre. Chiusa l’arteria il mioma, senza più possibilità di crescere, va in necrosi e si rimpicciolisce. Recentemente si stanno perfezionando anche altre tecniche meno invasive, anche se ancora poco diffuse, come gli ultrasuoni focalizzati che colpiscono il “cuore” del mioma”.

Togliere un mioma è sempre necessario quando la paziente intende avere una gravidanza? “In presenza di miomi, la gravidanza è comunque da considerarsi “a rischio” perchè possono essere causa di abortività precoce, anomalie della placentazione ed altre complicanze ostetriche come il parto prematuro. A volte possono crescere molto rapidamente e raggiungere dimensioni notevoli nei primi mesi della gestazione, anche se questo non sempre accade e, purtroppo non è prevedibile a priori. E’ importantissimo, pertanto, che la donna portatrice di miomi, si affidi ad uno specialista esperto che possa informarla e consigliarla al meglio, sulla base di un’attenta valutazione di tutti gli aspetti: numero, posizione e dimensioni dei miomi ed età della donna”.

Altra patologia tumorale benigna sono i polipi: “Neoformazioni della mucosa endometriale (tessuto ghiandolare che si sfalda durante le mestruazioni). Possono variare da pochi millimetri a qualche centimetro. I sintomi tipici sono lo spotting, il sanguinamento durante i rapporti sessuali, cicli abbondanti e dolorosi. Anche i polipi, come i miomi, sono benigni ma possono talvolta degenerare in adenocarcinoma dell’endometrio. I polipi non vengono scoperti durante una visita, a meno che non fuoriescono dal collo dell’utero (polipi cervicali); per diagnosticarli quindi è necessario eseguire un’ecografia transvaginale, seguita da una isteroscopia diagnostica (esame endoscopico). L’asportazione chirurgica dei polipi avviene mediante isteroscopia operativa, che è una procedura semplice in quanto avviene per via vaginale, attraverso l’utilizzo di uno strumento che, sotto visione endoscopica (fibra ottica), va a recidere il polipo il quale viene poi sottoposto ad esame istologico”.

Le cause dei polipi: “Sono genetiche e ormonali; l’età maggiormente a rischio è quella tra i 40 e i 50 anni ed è difficile che si formino durante la menopausa. Altro fattore di rischio è l’obesità, specie per i polipi che degenerano in carcinomi, in quanto il grasso produce estrogeni, e quindi è buona norma contrastare obesità e sovrappeso”.

In merito ad una gravidanza: Rendono difficile l’annidamento dell’embrione e possono, come anche i miomi, ostruire l’ostio tubarico. Diversamente dai miomi, prima di progettare una gravidanza è sempre indicato asportare eventuali polipi endometriali.

                                                          Alessandra Fiorilli

Ipertensione: quanto è importante lo stile di vita. Ce ne parla il Professor Paolo Calabrò, tra i massimi esperti della cardiologia internazionale

Termini medici quali “pressione arteriosa” e “ipertensione” sono tra i più usati anche nel linguaggio quotidiano e se molti dichiarano di avere in casa uno strumento per la misurazione domiciliare, alcuni preferiscono recarsi in Farmacia e altri ancora si sentono tranquilli solo quando il Medico di famiglia, con lo sfigmomanometro, misura la pressione, ovvero :” La tensione, prodotta dal battito cardiaco, sulle  arterie”, come ci dice uno dei massimi esperti nel panorama della cardiologia internazionale, il Professor Paolo Calabrò, direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria e direttore del Dipartimento Cardio-vascolare dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, Professore Ordinario della Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione del Professor Paolo Calabrò)

Tenere la pressione sotto costante controllo è sempre una buona regola perché l’ipertensione, silente e subdola, può creare molti danni alla salute: “Esponendo il soggetto che ne soffre ad un rischio maggiore di andare incontro ad un ictus o infarto”.

Due sono i valori che vengono riportati nella misurazione:” La Minima, o diastolica che si ha nel momento in cui il cuore si rilassa, la Massima, o sistolica, che in realtà coincide con il momento della contrazione cardiaca del ciclo cardiaco, ovvero quando il cuore trasmette la sua massima forza sulle arterie”.

Non tutti sanno che, oltre al metodo più frequente e tradizionale della misurazione, “Non invasivo”, c’è ne è anche un altro:” Al quale si ricorre quando il paziente è ricoverato nei reparti di terapia intensiva o in degenza post-operatoria, dove è richiesta una misurazione continua e costante della pressione continua. Tale metodo richiede l’inserimento di cateteri direttamente nei vasi sanguigni”.

Nel caso della misurazione domiciliare, la regola da seguire è quella degli antichi latini “In medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo, ndr), perché, se è vero che la pressione arteriosa è da sottoporre a controlli regolari, è pur vero che la sua misurazione più volte al giorno può creare, a volte, inutili timori, come dichiara il Professor Paolo Calabrò:  “Il controllo domiciliare che molti fanno della propria pressione è una buona pratica da seguire, se si pensa che c’è una percentuale dei pazienti che fa registrare la cosiddetta “ipertensione da camice bianco”: trattasi soprattutto di soggetti ansiosi i quali, di fronte al medico tendono ad entrare in uno stato di agitazione tale da registrare dei valori pressori più elevati”.

E’ buona regola, però, anche nel caso della misurazione domiciliare:” Non fermarsi mai alla prima misurazione che spesso registra valori più alti

Non cadere, però, neanche nell’ossessione di controllare la pressione più volte al giorno: “Molto spesso ai miei pazienti consiglio di misurarla tre volte la settimana in orari diversi: il lunedì al mattino, il mercoledì all’ora di pranzo e il venerdì di sera”.

Da seguire, in caso di misurazione domiciliare, alcune semplici e basilari regole per non incorrere in una risultato falsato da possibili interferenze esterne:” Ovviamente anche il luogo dove si realizza la misurazione ha una sua importanza: l’ambiente deve essere, pertanto, confortevole e rilassante. Bisogna inoltre stare seduti e attendere alcuni minuti prima di procedere alla misurazione. Il braccio dovrà essere libero, non compresso da maglioni o camicie, che potrebbero inficiare una corretta misurazione”.

Una singola misurazione “fuori dalla norma”, non deve, però, mettere in allarme: “Non basta un singolo valore per parlare di ipertensione o di ipotensione.  I valori ottimali per la pressione, secondo quanto stabilito dalla Società Europea di Cardiologia, sono per la Massima, minori o uguali a 120 e per la Minima, uguali o minori a 80, e comunque sono da considerare normali fino a valori di 130/85. Quindi, tecnicamente, chi registra 130/85 non deve temere di avere la pressione alta. Inoltre, un dato fondamentale da tenere sempre in considerazione è che il singolo valore non è da considerarsi in assoluto, ma deve essere rapportato, di volta in volta, al singolo paziente. Ad esempio, per un anziano valori compresi tra 130/135 di Massima sono da considerarsi non patologici, in quanto, con il passare dell’età le arterie sono più rigide, andando incontro ad un naturale irrigidimento che rende il passaggio del sangue più difficoltoso, con un aumento conseguente della pressione. Gli stessi valori sopra menzionati, invece, se si dovessero riscontrare in un ragazzo di 15 anni richiederebbero un’attenzione particolare”.

Il valore della pressione, quindi:” Deve essere studiato nell’ambito di un quadro clinico più generale. In pazienti, ad esempio, con diabete mellito i valori devono essere più bassi, perché già il diabete espone il paziente a rischi più elevati”.

L’ipertensione, inoltre:” Si divide in essenziale che è quella che preoccupa di più i medici perché non si riesce ad individuare una chiara causa e secondaria, legata, invece a patologie come l’insufficienza renale, il rene policistico e le malattie endocrine e metaboliche”.

E quindi è sempre consigliato seguire una buona regola:” Il paziente affetto da Ipertensione Arteriosa deve essere consapevole dell’aumento del rischio cardiovascolare, ma non deve per questo sentirsi malato: è sufficiente, infatti, adottare alcuni accorgimenti o piccoli cambiamenti nello stile di vita. Ad esempio, è buona norma combattere l’obesità, ma anche il sovrappeso, evitando uno stile di vita sedentario. A volte un’attività fisica regolare, 2-3 volte alla settimana per circa mezz’ora, sarà sufficiente a riportare i valori nella normalità e tale attività è la prima “pillola” da prescrivere al soggetto iperteso insieme ad una dieta che vedrà la riduzione della quantità di sale  e condimenti, mai, però, abolire un alimento perché la dieta, soprattutto quella Mediterranea, deve essere sempre completa. Bene anche l’aumento del consumo di fibre e verdure perché aiutano ad eliminare le scorie e migliorano il transito intestinale, evitando quella tensione che rischia di essere una concausa dell’ ipertensione stessa. Ottimo anche il consiglio di incrementare l’introito di acqua e l’uso di tisane. Pertanto, possiamo concludere dicendo che prescrivere farmaci è la cosa più semplice ed ovvia, ma non sempre è la strategia più indicata come approccio iniziale al paziente con ipertensione arteriosa”.

Attenzione infine anche allo stress: “Molto diffuso, specie tra i giovani professionisti che lavorano anche 12-14 ore al giorno e che non sempre hanno la possibilità di seguire un’alimentazione sana e completa. In particolare, in questo periodo di pandemia COVID-19, si sta riscontrando un aumento dei casi di ipertensione collegati proprio al particolare momento”.  

Alessandra Fiorilli                                  

Curare l’artrosi con l’Ossigeno Ozono Terapia: ce ne parla un luminare in questo campo, il Professor Umberto Tirelli

L’artrosi è una malattia degenerativa che interessa le articolazioni. Quasi il 50% della popolazione oltre i 60 anni di età, soffre di questa patologia che può variare da forme più lievi a più gravi.

Tale percentuale aumenta anche  sino al 90% quando si  parla di soggetti con più di 80 anni. Tutto ha inizio da un’alterazione della cartilagine che conduce, successivamente, alla degenerazione dell’ articolazione”.

Inizia così la mia intervista con l’eminente Professor Umberto Tirelli, Specialista in Oncologia, Ematologia e Malattie Infettive, Past Primario Oncologo e attuale Senior Visiting scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN), Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group e tra i primi Top Italian Scientists dalla rivista Plos Biology del 2019.

Il Professor Umberto Tirelli (per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 Tra i primi fattori di rischio, dunque :  L’età avanzata, ma non sono da sottovalutare anche l’obesità, la familiarità, il diabete, il tipo di lavoro svolto: infatti è esposto ad un rischio maggiore chi sta molte ore in piedi e per le donne, un altro fattore determinante è la menopausa”.

La sintomatologia legata all’insorgenza dell’artrosi si manifesta: “Con dolore e limitazione dell’attività articolare, infatti, le articolazioni tendono a diventare rigide, quasi bloccate. L’anziano lamenta il fatto di avere dei dolori alle ossa e spesso di non riuscire a camminare”.

L’artrosi di divide poi in: Primaria, detta anche idiopatica, se legata ad una predisposizione genetica, secondaria se causata da traumi. E nel caso dell’anziano, si parla di artrosi localizzata se ad essere interessata è solo una singola articolazione, di solito quella del ginocchio, dell’anca o della spalla, oppure generalizzata se riguarda più articolazioni”.

Ad essere maggiormente interessate, sono il ginocchio e la colonna vertebrale: “Dove spesso si  notano anche delle profusioni discali”.

Alle prime avvisaglie di un’articolazione che tende a diventare sempre più dolorante e rigida, solitamente: “Si ricorre, come esame diagnostico, ad una semplice lastra che già da sola è in grado di mostrare  i segni dell’artrosi. A quel punto si potrà anche approfondire con una risonanza magnetica”.

Accertata la diagnosi di artrosi, segue la fase del trattamento:” Spesso si ricorre alla chirurgia, utilizzando protesi, specie se ad essere interessata dall’artrosi sono le articolazioni dell’anca, del ginocchio e della spalla”.

Anche per l’artrosi, però possiamo fare molto per evitare di soffrirne nella Terza Età, o comunque, per non incorrere nelle forme più gravi :” Svolgere regolarmente attività fisica è sempre una buna cosa, anche una semplice camminata va benissimo. Una grande attenzione, però, è da porre anche al peso corporeo: da evitare, quindi, di incorrere nel sovrappeso ma soprattutto nell’obesità”.

Al primo insorgere dell’artrosi :” Bene anche ricorrere alla fisioterapia”  e, per quanto attiene ai farmaci :” Solitamente si ricorre al paracetamolo e in genere ai Fans ma c’è da dire che non sempre i farmaci sono poi così efficaci per la cura dell’artrosi. Una cura, invece,  efficace e senza effetti collaterali è quella che prevede il ricorso all’Ossigeno Ozono Terapia che può essere somministrata in via sistemica, quando i dolori provocati dall’artrosi sono diffusi in tutto il corpo, oppure in via locale se invece, il dolore è localizzato ad una sola articolazione”.

Il gruppo di lavoro del Professor Umberto Tirelli (per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

Il motivo per cui  proprio l’Ossigeno Ozono Terapia  si è rivelata efficace nella cura dell’artrosi, ce lo spiega, a conclusione dell’intervista,  il Professor Tirelli :” L’ozono ha un elevato potere antinfiammatorio e proprietà antidolorifiche, andando a migliorare il microcircolo e quindi la sintomatologia legata all’artrosi.  L’Ossigeno Ozono Terapia, inoltre, è estremamente indicata per quegli anziani che non possono essere sottoposti a intervento chirurgico”.

Ringrazio il Professor Umberto Tirelli, il quale mostra sempre una grande disponibilità nei miei confronti, trovando del tempo da dedicare al giornale EmozionAmici, sul quale troverete una prima intervista al Professor Tirelli sulla fibromialgia, anch’essa curata con l’Ossigeno Ozono Terapia.

D’altronde, non c’è da stupirsi che il Professor Tirelli, un luminare della scienza, sia anche un esperto divulgatore, con ottime doti comunicative: nel suo curriculum di due pagine fitte fitte,  accanto alla sua attività di ricerca, spicca anche l’essere stato vincitore, nel 2003, del IV Premio Festival della Televisione Italiana per la comunicazione medico scientifica.

                                           Alessandra Fiorilli