Prima di andar via da quella stanza, nonno, mi dicesti: “Portami tu qualcosa… delle piccole scaglie di parmigiano, un uovo alla coque… vieni tu all’ora di pranzo per aiutarmi a mangiare.”
E così capii, da queste parole, che non avrei potuto mai mollare, che sarei dovuta essere forte, non tanto per me, quanto per te, che chiedevi insistentemente la mia presenza in quella stanza d’ospedale.
Il giorno successivo, come promesso, venni da te con la mamma: avevamo il permesso di entrare al di fuori dell’orario di visita perché le tue condizioni di salute richiedevano che ci fosse qualcuno negli orari di pranzo e cena per aiutarti a mangiare.
E fu così che ti porgemmo delle minuscole scaglie di parmigiano e tu le prendesti dalle nostre mani come fanno i bambini…in quell’istante gli altri degenti ci osservarono con un misto di tenerezza ed ammirazione, fino a quando il tuo vicino di letto mi disse che eri un uomo fortunato, perché avevi due figlie amorevoli ed affezionate come me e la mamma.
Io gli risposi che non ero tua figlia ma tua nipote e l’uomo di rimbalzo non si perse in giri di parole: “Tu lo ami come un padre e lui ti considera una figlia. E questo è tutto”.
E questo era proprio tutto, nonno, per noi che continuavamo a sperare e per te che, non potendoti più da alzare dal letto, ci aspettavi, chiedevi l’ora agli infermieri e pregavi il tuo vicino di letto di andarsi ad affacciare fuori dal reparto per vedere se arrivavamo. Era giugno, nonno, o almeno così diceva il calendario ma nei nostri cuori non era arrivata l’estate, la nostra estate quell’anno per noi non giunse mai.