22° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Un giorno, mentre eravamo seduti su quelle poltroncine di pelle marrone del corridoio, mi guardasti dritto negli occhi e mi prendesti il viso tra le mani. Ricordi, nonno?

Mi raccontasti dell’immensa gioia, mista ad emozione, del giorno in cui mi vedesti per la prima volta. Ero in ospedale, il lettino di metallo messo vicino alla mia giovane mamma, indossavo solo una camiciola bianca di cotone e dei calzini perché avevo tentato di dimenarmi quando mi avevano fatto indossare la classica tutina.

Ti sporgesti verso di me, avevo gli occhi aperti, tu mi sorridesti ed io cominciai a muovere le braccia e le gambe come a salutarti. Poi entrò la suora, mi sollevò dalla culla, mi prese in braccio e portandomi in trionfo su e giù per la corsia, esclamò dicendo che non aveva mai visto una pupa come me, così sveglia, attenta e vigile ad appena un giorno di vita. Mi mise sul lettino ed io quasi stavo ritta sui piedini, tu allora, per paura che mi facessi male, mi prendesti tra le tue braccia e pronunciasti il mio nome con gli occhi che ti brillavano.

Quella luce non si è mai spenta, neanche quando, qualche giorno prima della morte, mi facesti segno di avvicinarmi a te per stringerti la mano. Ci siamo subito piaciuti io e te, siamo entrati immediatamente in sintonia, il nostro primo incontro è stato un incontro d’anime.

Sono sempre stata fiera di averti come nonno, lo dicevo a tutti che quell’uomo in divisa sulla bicicletta nera era mio nonno, una persona speciale. Ricordo quando tentavo, in ogni modo, di trovare una somiglianza con te, spulciavo le foto della tua infanzia e, avvicinandole al mio volto, chiedevo alla nonna e alla mamma se non eravamo proprio uguali. Loro due si guardavano e sorridevano bonariamente, dicendomi che era ovvia e scontata la somiglianza giacché io ero tua nipote!

Riguardando quelle immagini in bianco e nero ed analizzandole bene, non era poi così netta la somiglianza di cui andavo alla disperata ricerca ma sono stata contenta di essere cresciuta con questa certezza.

Dal giorno della mia nascita io ero diventata la tua bella bambina, mi chiamavi spesso così, anche dopo la lettura di un articolo o il voto di un esame universitario. Nulla era cambiato dal giorno della mia nascita, l’amore che ci legava cresceva ogni giorno di più. Era talmente palese da sforare l’obiettivo della macchina fotografica: rivedendo tutte le foto non ce n’è una nella quale non ci cerchiamo con lo sguardo, non siamo uno accanto all’altra, non poggi la tua mano sulla mia spalla. La più bella in assoluto, però, rimane quella che ci ritrae il giorno del mio primo compleanno: siamo seduti l’uno accanto all’altra, ci teniamo per mano, tu mi stai guardando ed io sto facendo lo stesso con te. Indosso il vestito bianco e verde, quello goffrato, tu sei elegantissimo con il cardigan color ruggine e le scarpe lucidissime.

Il mio mondo da bambina era tutto concentrato lì, tra le mura della tua casa, la più bella visuale ce l’avevano solo noi, con quegli alberi di pino che si stagliavano fieri all’orizzonte e con quel cielo che ricordava quelli dei presepi allestiti nelle chiese durante il periodo natalizio.

21° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Da quel giorno in cui piantammo le piantine nell’orto, parlammo sempre più spesso di noi due, delle nostre giornate trascorse assieme e si celava, dietro i nostri sguardi, il desiderio di riviverle ancora una volta.

Ma non c’era più tempo, non sarebbe arrivata un’altra estate con te che tornavi dalla campagna abbronzato e con le ceste di vimini pieni di pomodori, non ci sarebbe stata la vendemmia da fare, tutti assieme, come nei film, nella cantina sotto la nostra casa, non ci sarebbe stato più il tuo compleanno e la lettera che ti scrivevo abitualmente, non ci sarebbero stati i pomeriggi di novembre con noi due nello studio, a leggere una poesia, non ci sarebbe stato il Natale con i piatti della nonna, non ci sarebbe stata Pasqua con il casatiello e la benedizione che impartivi con l’acqua santa e con il ramo d’ulivo a tutti noi.

Anzi, a dire il vero, Pasqua ci attendeva proprio dietro l’angolo, perché era caduta alta quell’anno. Quante volte, nonno, mi spiegasti perché, a differenza delle altre feste comandate, la festività pasquale arrivava ogni anno in un giorno diverso! Se non ricordo male, bisognava basarsi sull’equinozio di primavera, ebbene, devo confessarti che ho lasciato passare infruttuosamente 28 anni della mia vita per capirlo, perché, nonostante tutto, non mi entrava in testa.

Forse il motivo di questa mia “chiusura mentale” nei confronti di quei calcoli era di natura psicologica: se avessi compreso, definitivamente, com’era fissata la Pasqua, come avrei potuto chiederti di nuovo la spiegazione che tu puntualmente mi davi nel tuo studio, sotto la luce calda della lampada verde, tirando fuori quei tuoi libri ingialliti?

Per nulla al mondo avrei mai potuto perdermi questo spettacolo, di te che mi aspettavi fuori al balcone, prendendomi sotto braccio per entrare assieme nello studio da dove si poteva ammirare lo splendido arbusto del petto d’angelo, che proprio in quel periodo stava mettendo le prime gemme.

Ecco, lo ricordo chiaramente: mi facevi segno di accomodarmi sulla sedia con il cuscino a fiori, mentre, inforcando i tuoi occhiali, ti mettevi alla ricerca del libro che conteneva la spiegazione in maniera dettagliata. Con il tuo: “Oh, eccolo qua!”, richiudevi l’elegante anta di vetro molato della libreria e ti sedevi dietro la scrivania fatta a mano, quella che avevi regalato alla mamma in occasione del suo primo giorno di scuola alle elementari. Sistemavi poi il tappeto giallo sotto i tuoi piedi perché e, una volta scelta la giusta inclinazione di luce, cominciavi a spiegarmi l’annosa faccenda gesticolando con le tua mani come solo tu eri solito fare.

Ce l’ho ancora stampate davanti agli occhi, credo che non riuscirò a dimenticarle mai quelle mani grandi mentre, durante la spiegazione, le univi spingendo le dita della mano sinistra contro quelle della mano destra facendole poi dondolare in su ed in giù. Io ero rapita dalla tua voce, dal tuo sorriso, dalla tua cultura, dalla tua eleganza. Dopo ore trascorse nello studio tu mi chiedevi se quella volta sarebbe stata l’ultima, se avevo effettivamente capito, ogni anno dicevo sempre di sì ma ricordo ancora quella volta nella quale tu mi costringesti a spiegare quello che avevi concluso appena di dirmi. Tentennai, presi tempo, poi scoppiammo tutte e due in una sonora risata perché avevi capito che, anche quell’anno, avevo trovato la scusa di starti vicino, di ascoltare la voce, senza comprendere poi molto di quella spiegazione.

20° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poi, sulla strada del ritorno, mi vennero alla mente frammenti di discorsi di quando ero bambina, di quando ero costretta a rimanere a letto per la febbre causata dall’influenza stagionale.

Ricordo che, di ritorno dalla consueta passeggiata pomeridiana con la nonna, tu venivi sempre a farmi visita per augurarmi la buonanotte. Entrando poi, con grande riverenza nella mia cameretta e vedendomi pallida ed affannata, ti sedevi sulla sedia della scrivania, poggiavi il cappello sulle ginocchia e, passandomi una mano sulla fronte per accertarti se avessi ancora la febbre, non riuscivi a non lasciarti andare a questa amara considerazione: “Ho visto fuori le tue compagne di scuola giocare in strada. Erano tutte scalmanate e tu…”. Avresti voluto continuare dicendo: “E tu, costretta a stare a letto, tu, la mia Alessandra, forte e solare, sempre pronta a sorridere, tu, avvolta in queste tristi lenzuola, con la fronte madida di sudore”.

Ma non le pronunciavi mai quelle parole e continuavi dicendo: “E tu… cosa hai fatto di bello tutto il giorno? Lo hai letto quel libro che ti ho portato ieri? Appena ti passa la febbre, anche se non puoi ancora uscire perché ti senti debole, vieni giù nello studio e vediamo se i passi che ti sono piaciuti di più sono gli stessi che io amo tanto”.

Allora mi consolò che quei pensieri fatti su quegli uomini anziani incontrati al mercato del giovedì, li avevi fatti anche tu, quando ero bambina, quando stavo a letto, mentre le mie compagne di scuola giocavano in strada tutte scalmanate. Tu amavi me quanto io amavo te, avresti desiderato, in quei momenti, vedermi libera di correre e scherzare, quanto io avrei voluto incontrarti per strada, al mercato, quel giovedì, tra le gente mischiata ai banchi chiassosi e ai vestiti appesi su tristi stampelle.

19° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ma torniamo a quel giorno, a me che tornavo dal mercato con le piantine sistemate nel polistirolo, ben attenta a non farle cadere e con la gioia di ritrovarti lì, in giardino, seduto sulla panchina dalle minuscole mattonelle blu.

Sulla strada del mercato, gremita di gente, il mio sguardo si posò su diversi uomini anziani che trascinavano dietro di loro pesanti carrelli, seguiti a ruota dalle proprie mogli. Non erano felici, avevano il volto scuro e non si lasciavano sfuggire l’occasione per litigare con qualche passante distratto che intralciava il passaggio del loro carrello.

Pensai, però, che nonostante tutto, loro erano lì, in mezzo alla strada, a scegliere il banco di frutta più conveniente, a controllare la taglia di quel pantalone blu dato a pochi soldi, a misurarsi le ciabatte di plastica, a chiedere il prezzo di quella pentola, proprio mentre tu stavi con la testa reclina e le spalle incurvate, con il respiro affannoso e soprattutto con la consapevolezza che non saresti mai più andato al mercato settimanale con me o con la nonna, nonostante ti fosse sempre piaciuto farlo.

Tu non avresti più camminato per la città, nessuno più ti avrebbe incontrato in piazza, togliendosi il cappello in segno di rispetto per salutarti, non saresti più andato a scegliere i quadri e gli oggetti d’argento, non saresti andato più a comprare il pane e quel formaggio che serbava ancora il ricordo dell’infanzia. Non ci sarebbe stato più niente di questo e più riflettevo su quanto dura da accettare fosse la verità, più provavo un malcelato senso di rabbia verso quelle persone che al mercato erano persino arrivate a lamentarsi del tiepido sole primaverile che tu tanto amavi.

Era la prima volta che mi succedeva ciò, non mi ero mai soffermata più di tanto sugli altri perché io avevo te. Fu un attimo, poi dissi a me stessa che non avrei dovuto più pensare a ciò.

Tu, nonno, eri così unico e speciale proprio perché la vita ti aveva regalato tante gioie, gratificazioni e soddisfazioni ma anche tanti dolori, a te piaceva il sole e la libertà proprio perché per tanti anni non avevi potuto decidere quando andar fuori a giocare o quanto tempo studiare, amavi la tua casa perché serbavi gelosamente dentro te il senso sacrale della dimora domestica, eri gentile e rispettoso perché troppi non lo erano stati con te. Allora pensai che ciascuno riesce a raggiungere un grado di godimento della vita e questo dipende strettamente dal passato, dal modo di affrontare il presente e dal modo di guardare al futuro.

18° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Con la gioia di una bambina, i pantaloni sporchi di terra bagnata e gli stivali di gomma, corsi verso quel banco, dove per decenni ti eri servito, e chiesi delle piantine di melanzane, di zucchine e di peperoni.

Non so come fece a capirlo, ma quella signora mi chiese se ero tua nipote, la nipote del Cavaliere che tutte le mattine, prima di andare al lavoro, per decenni, era passato con la sua fedele bicicletta, con la sua cartella di pelle nera, a salutarli, cortese come sempre. Mi disse che da Natale non ti eri fatto più vedere, erano preoccupati per te, chiesero se stavi bene in salute.

Io rimasi ferma, davanti alla bancarella trasbordante di piantine verdi, avevo i soldi in una mano e con l’altra mi stavo aggiustando la visiera del berretto bianco. Non seppi cosa rispondere e così mi limitai a dire che andavo di fretta perché mi stavi aspettando in giardino per piantare zucchine, melanzane e peperoni, e che sarebbe stato necessario tornare subito a casa, da te, da te seduto sulla panchina, con le mani unite e gli occhi rivolti verso il basso. Compresi subito come quell’anziana coppia di coniugi aveva capito che non stavi bene, allora mi congedai da loro ma, prima di mandarmi via, mi pregarono di salutarti con tutto l’affetto possibile, mi dissero che somigliavo molto a te, in questo mio essere allegra e solare, forte e tenace, nel sapere usare la penna e la vanga, come si diceva di te.

Sì, sarei stata fiera per la vita di essere stata tua nipote, così come sarò riconoscente per sempre a Dio per avermi messo accanto un uomo come te, nonno. Impressa a fuoco nell’anima, la mia felicità quando discutevamo di Giulio Cesare o di Napoleone, o ripetevamo assieme le poesie di Manzoni, di Foscolo, di Carducci. Vestivi sempre elegantemente, anche quando non era un giorno di festa, il completo di pura lana vergine d’inverno, di fresco lana in primavera, di lino puro in estate, indossavi sempre la giacca e portavi sempre il cappello. Odoravi di pulito, di sapone di Marsiglia e di dentifricio alla menta, non guidavi l’auto se non per necessità, perché ti piaceva troppo assaporare ogni angolo della città, adoravi misurare una piazza o il lungomare con i tuoi passi, non alzavi mai la voce, eri profondamente rispettoso di tutto e di tutti. Non accendevi mai la televisione, se non per ascoltare il telegiornale o alla sera per guardare un film interessante…eri così, nonno…

17° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Dopo colazione mi dicevi di aspettare all’ingresso, mentre ti recavi in bagno per farti la barba con il rasoio elettrico.

Fuori il sole era già alto ed annunciava con gioia che, sì, ci era stato concesso un altro giorno da trascorrere insieme.

Era diventato il rituale delle nostre mattine: io preparavo la borsa con i piccoli attrezzi e poi, l’uno sottobraccio all’altra, uscivamo dalla casa e ci facevamo cullare da quei tiepidi raggi di sole che si posavano sul limone come sul nespolo, sul susino come sul petto d’angelo, e ci spronavano ad andare avanti e a pensare al futuro, un futuro che mi avrebbe visto da sola, senza di te al mio fianco.

E arrivò così anche il momento di mettere a dimora nell’orto le piantine di pomodoro che avevo acquistato dietro tua richiesta: le poggiammo sulla panchina, ti mettesti a controllarne una ad una mentre io, armata di vanga, cominciai a rovesciare le zolle che rotolavano le une sulle altre.

Fu un mattino indimenticabile, quello, nonostante la tua malattia ti avesse costretto ad essere solo uno spettatore di quei lavori nell’orto che da decenni facevi solo tu, eppure ti eri rilassato molto e più volte avevi chiuso gli occhi, volgendo il tuo viso verso il sole che riuscì a regalarti un po’ di colorito. Tu eri sempre abbronzato, ricordi? Era il sole della campagna a donarti quel viso aperto e schietto, con le guance rosse ancora sode, nonostante gli anni. Ci misi un po’ a capire come andavano sistemate le piantine nelle buche che avevo praticato nel terreno: qualcuna era troppo piccola, incapace dunque di ospitarle, altre erano troppo grandi. Una volta seguite le tue istruzioni, però, divenni impareggiabile nel capire quale fosse la profondità giusta, quanta acqua bisognava utilizzare, a quale distanza sistemarle le une dalle altre.

Riuscimmo a metterne a dimora circa cento e ci chiedemmo cosa avremmo piantato nell’altro fazzoletto di terra rimasto libero. Era giovedì quel giorno, lo ricordo bene ed ogni giovedì si tiene il mercato settimanale, allora tu entrasti in casa a prendere i soldi. Uscito in giardino mentre ero rimasta lì ad aspettarti, mi dicesti che potevo comprare le piantine che volevo, questa volta avrei deciso io.

16° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Dal rientro dell’ospedale non uscisti più da casa, ti limitavi ad andare in giardino per tagliare qualche ramo morto, per cogliere i limoni o per innaffiare le piante e i bulbi dei fiori. Durante quei mesi, mi svegliai presto anch’io tutte le mattine, mi sfilavo da sotto le coperte e, con accortezza, aprivo la porta di casa per scendere quelle scale che mi avrebbero condotto da te. Quando arrivavo in cucina, avevi già fatto colazione con il pane cotto a legna e con la caciotta di pecora, il cui gusto ti ricordava quella che acquistava per te tua madre, quando eri piccolo. Poi, ti pulivi la bocca con quel grande tovagliolo di cotone, quello che amavi di più faceva parte di una tovaglia che avevo regalato alla nonna: era a scacchi multicolori, un po’ sbiadito dal sole, ma rimaneva lo stesso il tuo preferito. Mi accomodavo attorno al grande tavolo della cucina mentre tu continuavi a pregarmi di assaggiare una fettina di quella deliziosa caciotta, io ti rispondevo che il formaggio al mattino non lo apprezzavo molto ma, giacché il mio diniego ti intristiva, ne portavo alla bocca un pezzetto e lo lasciavo sciogliere sotto al palato, per assaporarne il gusto. Sì, nonno, quella caciotta era veramente buona, sapeva di campagna e di lavoro, di vanghe e di vino rosso, di estati passate a cogliere i pomodori, di tralci di vite da sistemare, di uva da pigiare, sapeva di te, amante com’eri delle cose rurali, della libertà, d’ogni singola manifestazione della natura. Sapeva di te, sì, di te: uomo di cultura ma anche di lavoro, amante della storia antica, del greco e del latino, delle lettere, delle poesie, delle cravatte di pura seta, dei completi di lana vergine o di lino, di cappelli da indossare sempre, persino in estate. Tu eri questo, nonno, l’uomo che aveva sposato la donna di cui si era innamorato mentre camminava lungo il corso della città, perché colpito dalla sua bellezza, dal suo nasino che amavi sempre prendere tra le mani, dei suoi occhi verdi, l’uomo che era diventato il maresciallo ammirato e stimato da tutti, apprezzato per la sua correttezza, lealtà ed onestà, l’uomo che era stato nominato Cavaliere del lavoro, ma, soprattutto, l’uomo che era diventato nonno, mio nonno.

15° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Uscii dal bagno, nel frattempo avevi detto alla nonna di non voler mangiare più, d’essere sazio e stanco, di voler riposare un po’. Ti eri accomodato su quelle poltroncine di pelle del corridoio e mi stavi aspettando per salutarmi. Appena io chiusi la porta dietro di me esclamasti, come amavi fare da 28 anni,: “Bella bambina!”.

Quell’esclamazione la associo, ancora oggi, ad una immagine precisa di te: a quando, di ritorno dalla caserma, tutti i giorni alle due e mezza del pomeriggio, entravi in casa, con il capello nella mano destra e la cartella di pelle nera nella sinistra e, sventolando il berretto ci salutavi. Ecco, nonno, tu sei rimasto quell’uomo per me: la malattia, le sofferenze, la tua stanchezza, la tua incapacità a stare in piedi, le tue spalle ossute, le tue gambe fragili, il tuo bastone, le tue bretelle per tirare su i pantaloni che ogni giorno diventavano sempre più larghi, il tuo sonno pesante, il tuo respiro affannoso, la tua bombola dell’ossigeno, non sono mai esistite, neanche quando erano realtà.
In quei giorni difficili mi dicevi che tu c’eri ma già non c’eri più e che sarebbe stato per me più facile associare l’idea della morte a quell’uomo malandato, piegato a metà dalla malattia, piuttosto che a quel nonno forte e fiero. Ma io ti risposi, quella volta, che eri al tempo stesso forte e fragile, perché il ricordo che avrei avuto di te, sempre, sarebbe stato quello di un uomo ottimista, coraggioso, al punto di accettare in vita, la morte.

Dunque, quel giorno di ritorno dall’ospedale, dopo mangiato, andasti a dormire, io ti strinsi la mano e mentre preparavi il letto, aiutai la nonna in cucina. Poi salii su, mi chiusi in camera, e pensai che c’era concesso troppo poco tempo per sprecarlo in ricordi e tramortirlo di domande ed interrogativi. Decisi di accettare, seppur con immenso dolore, l’idea che di lì a poco mi avresti lasciato, e mi rincuorò l’idea che, dopo qualche settimana, sarebbe venuta Pasqua, una festa che tu amavi molto, perché dicevi che, dopo la passione, c’era la Resurrezione, per tutti.

14° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Entrai anch’io in casa con te, quel giorno di ritorno dall’ospedale, la nonna non osò dirti nulla mentre tu, mestamente, ti dirigesti verso la camera per sistemare i tuoi bagagli ma mi pregò, con gli occhi gonfi di lacrime, di essere sincera con lei, di dirle la verità. Io mi limitai a comunicarle quanto aveva detto il medico sul tuo stato di salute generale e la nonna, piegata a metà sulla poltrona dello studio, cominciò a piangere. Quando tu uscisti dalla camera, eravamo entrambe in cucina: la nonna a preparare il pranzo ed io ad apparecchiare la tavola. Tu dicesti che avresti mangiato un po’ di pasta solo se mi fossi seduta accanto a te, come avevamo fatto per tanti e bellissimi, indimenticabili anni. Non avrei potuto dire altro che sì, per nulla al mondo avrei rifiutato quel tuo invito.

Mangiammo assieme, come quando ero bambina, io e te, di nuovo vicini. Ti osservai per tutto il tempo del pranzo, vedevo quanto sforzo ti costava quel portarti alla bocca la forchetta che aveva catturato, dal piatto bianco di porcellana, tre penne di numero. Masticavi molto lentamente, poi ti fermavi, guardavi in su, gli occhi al soffitto, poi chinavi nuovamente la testa nel piatto, mentre la tua mano stava cercando un pretesto qualsiasi per evitare di prendere con la forchetta qualche altra penna rossa di sugo.

Dovetti trovare una scusa qualsiasi per alzarmi da tavola ed andare in bagno, per piangere un po’. Mi raggomitolai a terra, le spalle appoggiate all’armadio a muro, la testa tra le ginocchia. Scorrevano davanti a me quegli indimenticabili pranzi della mia infanzia, quando, tornata da scuola, avevo solo il tempo di sfilarmi il grembiule, di posare la cartella e scendevo giù per le scale, cantando le sigle dei cartoni animati che vedevo ogni pomeriggio con la mamma e la nonna, con la felicità nel cuore, talmente forte che delle volte mi sembrava di non essere in grado di contenerla tutta dentro di me. Bussavo alla porta-finestra del corridoio e tu, con quel sorriso che illuminava i tuoi bellissimi occhi, ti precipitavi ad aprirmi. Mi accomodavo vicino a te, mentre la nonna versava nei piatti le fettuccine con i ceci, i maltagliati con i fagioli, il riso al sugo, il brodo con i tortellini. La tua regola aurea dell’ora di pranzo era di osservare e soprattutto, di far osservare, un rigoroso silenzio, ma in nome dell’amore che provavi per me, derogavi a questo principio e mi lasciavi raccontare quanto era accaduto a scuola durante la mattinata appena trascorsa. Parlavo, parlavo e nessuno aveva il diritto di interrompermi, tu mi ascoltavi in silenzio e una volta terminato il pranzo, stringevi, tra il pollice e l’indice, la mia guancia destra e portavi quelle stesse dita alla bocca, baciandole, come si faceva con una statua della Madonna.

13° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Così scendemmo le scale e salimmo in macchina, il tuo sguardo si posava su tutti gli alberi che costeggiavano la strada del ritorno, i tuoi occhi stavano sorridendo: era arrivata la primavera, con tutti i suoi colori ed odori, i rami degli arbusti non sembravano più di cartapesta, né le gemme di plastica. Tu eri di nuovo accanto a me, nonno, ed io di nuovo vicino a te, potevamo godere ancora assieme dello spettacolo della natura, per l’ultima volta, certo, ma insieme.

Ci avrebbero aspettati mesi duri, lo sapevamo entrambi, ma eravamo fermamente convinti della necessità di non lasciarci sfuggire un solo secondo, non avremmo regalato alla morte che avanzava, neanche un minuto di più, a me erano concessi ancora tre mesi, solo tre mesi di te e del tuo sorriso, dei tuoi occhi, delle tua mani, del tuo amore.

Parcheggiammo l’auto davanti al piccolo cancello in ferro battuto, lo stesso che ti aveva visto uscire in divisa per tanti anni, con il cappello calato sulla fronte e la fedele bicicletta sulla cui canna legavi la cartella di pelle nera. Scendesti dalla macchina, non suonasti al citofono di casa dove la nonna ti attendeva, ma apristi tu quel cancello, sfilando dalla tasca quel pesante mazzo di chiavi.

Ricordi, nonno, quante volte ti ho chiesto quali misteriose porte aprissero tutte quelle chiavi. Tu, con tanta pazienza, mi facevi sedere sulle ginocchia, e mostrandomele una ad una, elencavi la loro funzione: questa era del cancello piccolo, quell’altra del cancello grande e poi, ancora, la chiave della campagna, quella del ripostiglio in giardino.

Un giorno ti chiesi quale fosse la chiave del tuo cuore, per poterci entrare e rimanere lì, per sempre, ma tu mi rispondesti che il tuo cuore, nonostante le difficoltà che la vita ti aveva posto davanti, si era spalancato il giorno della mia nascita, ed io da allora, pur senza saperlo, ero lì dentro, in ogni suo singolo battito.