33° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto, anche il mese di aprile ci stava lasciando e maggio ti avrebbe regalato le ultime calde giornate di sole, un sole benevolo per quelle piantine dell’orto che stavano rigogliosamente crescendo grazie alle mie cure. Anche il 1° maggio, così come avevo fatto per il mattino di Pasqua e di Pasquetta, decisi di trascorrerlo con te.

Quel giorno ti trovai seduto in cucina, indeciso se mangiare o meno quelle fettine di pane colorite da un sottilissimo velo di marmellata. Non avevi molta voglia di fare colazione, tanto che fui costretta a registrare come la tua perdita di appetito fosse diventata costante e stava, anzi, aumentando ogni giorno di più. Cercai di non farti pesare ciò e ti invitai ad uscire in giardino con me: avremmo ricreato fuori, tra gli alberi e le piante, quell’atmosfera gioiosa che molte persone avrebbero vissuto in quel giorno di sole, seduti sui plaid, stesi sull’erba o in spiaggia in riva al mare.

Noi ci saremmo sistemati sulla nostra panchina e sarei andata a prendere il tavolo pieghevole di legno nel ripostiglio di casa. La tovaglia da stendervi sopra doveva intonarsi con la giornata, nessuna tovaglia di lino ricamato, dunque, né di fiandra, ma una bella colorata, sullo scozzese, come quella che avevo regalato alla nonna qualche anno prima, in occasione del Natale. Sarei andata a comprare delle fave e del buon pecorino romano proprio nel negozio dove abitualmente ti servivi tu. Sarei poi scesa in cantina a prendere una bottiglia di vino, magari invecchiata, perché quel giorno doveva essere speciale.

Ti ubriacai di parole, di sorrisi, di progetti, d’ottimismo e tu, di fronte al mio entusiasmo, non riuscisti a tirarti indietro. Allora rimanesti lì, seduto sulla nostra panchina, ad assistere al mio buffo andirivieni con il tavolino, la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le fave, il formaggio, il pane fresco, il vino, il tuo vino. Invitammo anche gli altri a partecipare alla nostra celebrazione del 1° maggio ma rifiutarono l’invito perché vollero regalarci una giornata solo per noi.

Mi assentai per mezz’ora, giusto il tempo necessario per andare a comprare la pagnotta di pane cotto a legna, fragrante e profumata, il pecorino saporito, le fave fresche di campo. Apparecchiammo il nostro tavolino che prese un po’ di colore e vivacità grazie a quella tovaglia a quadri e vi sistemammo sopra i piatti, le forchette, i coltelli, il mio bicchiere, la tua fedele brocca in vetro. Cominciammo a prendere dalla busta di plastica color carta da zucchero, le fave e mentre le sgusciavi portandone alla bocca i semi, un velo di tristezza transitò per qualche secondo nei tuoi occhi: guardare questi ortaggi e pensare che la tua campagna era rimasta lì, da sola, senza che nessuno si prendesse più cura di lei, ti dispiaceva molto. Allora fu invitabile che il discorso scivolò su quella distesa di terra che ti aveva visto, per 20 anni, suo amico fedele.

La resilienza: una capacità essenziale per superare le avversità della vita  

 

Sempre più spesso si sente nominare nei servizi giornalistici, in televisione o in radio il termine resilienza; ma cosa si intende con esso? E perché è così importante nella vita?

La psicologia ha preso “in prestito” questo concetto dalla fisica, con il quale si indica la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi e di riacquistare un assetto più possibile simile a quello originario.

Come un pezzo di metallo può subire degli urti e ritrovare una nuova forma, anche gli esseri umani hanno in sé la capacità di fronteggiare e superare un evento traumatico od un forte stress. Ognuno di noi, chi più chi meno, ha dovuto fare i conti, nella vita, con un evento negativo: un lutto, una malattia improvvisa, la fine traumatica di una relazione amorosa, un tradimento da parte di una persona di cui ci fidavamo, un evento traumatico ed improvviso come un terremoto.

Una fotografia altamente simbolica: le increspature della vita dalla quali non dobbiamo mai farci travolgere e la bandiera che fluttua con il vento, non opponendosi ad esso…(Foto di Lorenza Fiorilli)

Quando l’essere umano si trova ad affrontare queste circostanze, le prime sensazioni sono impotenza, dolore, sconcerto, delusione, rabbia, frustrazione; alcuni si fanno abbattere da queste emozioni negative, altri no. Da cosa dipende ciò? Dal fatto di avere o no una personalità resiliente: ovvero, non solo di possedere la capacità di riuscire ad accettare e superare gli eventi negativi che la vita ci pone davanti, ma anche, e soprattutto, di vederli non come una sconfitta, non come una perdita di qualcosa o qualcuno, ma come una nuova opportunità da cui scoprire lati di noi che non sapevamo di avere, dalla quale rialzarsi e rinascere più forti di prima, dalla quale organizzare in maniera diversa la nostra quotidianità.

Non è semplice, e neanche immediato tutto ciò, ma come ha affermato lo psicologo statunitense George Bonanno : “Il genere umano è portato naturalmente alla resilienza”.

è essenziale, dopo una circostanza negativa o traumatica, non percepire noi stessi come vittime, non cadere nella trappola dell’autocommiserazione, non rassegnarsi con passività al corso degli eventi.

Ovviamente, ogni persona ha un proprio vissuto, ha un backgound culturale e sociale che può facilitare il mettere in atto un comportamento resiliente; ma ci sono alcuni fattori e risorse personali che possono contribuire a tutto ciò. Tra questi avere una rete sociale e affettiva di supporto, accettare i cambiamenti come parte della vita stessa, guardare agli eventi da un’altra prospettiva, perseguire sempre i propri obiettivi, nutrire l’autostima, prendersi cura di se stessi.

 

Non si può impedire agli eventi negativi di accadere, lo vorremmo tutti, ma la vita non va così: essa è piena di imprevisti, di sorprese, ma soprattutto di cambiamenti, che fanno parte della natura stessa:  come un albero non ha lo stesso aspetto in autunno e in primavera, il mare non ha lo stesso colore in Agosto o in Febbraio, il piumaggio degli animali muta al cambiare delle condizioni climatiche, noi non siamo le stesse persone di qualche anno o mese fa, e non saremo, tra qualche mese o anno, le stesse  persone che siamo oggi.

Facciamo in modo che gli urti che subiamo non ci spezzino, ma ci plasmino in una nuova forma.

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

 

 

 

32° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quella sera, prima di cena, scesi di nuovo giù da te: la nonna mi aveva avvertito che ti eri svegliato. Lungo le scale mi fermai a pensare che un sonno pomeridiano così lungo non lo ricordavo, ti eri sempre allungato un po’ sul letto dopo pranzo, lo avevi fatto sempre, anche da giovane, ma quel pisolino, quel breve lasso di tempo che dedicavi solo a te e alle tue lenzuola di lino ricamate, durava al massimo tre quarti d’ora.

Lo ricordo bene, nonno, quel rito al quale ci avevi abituate.

La scena era sempre la stessa ma capace, comunque, di non scivolare mai nella solita, noiosa routine.

Dunque, tu ti alzavi da tavola mentre la nonna preparava il caffè con la crema allo zucchero, la mamma sparecchiava e, dopo aver ringraziato Dio, il quale ci aveva regalato un altro giorno da passare insieme riuniti attorno alla tavola, salutavi una ad una le tue donne, come amavi chiamarci, alla nonna stringevi sempre il naso, come si fa con i bambini, e lo celebravi sempre ammettendo che quel delizioso nasino e gli occhi verdi erano state le cose che più ti erano piaciute di lei, alla mamma mettevi una mano in testa carezzandole i capelli castani e a me stringevi la mano, talvolta mi regalavi il saluto militare ed io ti rispondevo portando la mano tesa davanti la fronte.

Poi ti recavi in bagno e alla tua uscita, lungo il corridoio si poteva sentire il profumo inconfondibile del tuo dentifricio alla menta, che era ormai diventato un tuo odore caratteristico, attraverso il quale ti avrei riconosciuto tra mille, anche ad occhi chiusi. Chiudevi la porta della camera da letto e sistemavi il cuscino, ma non ho mai saputo se indossavi il pigiama o ti coricavi solo sulle coperte, è un segreto, questo che è rimasto tale. Questo rito si compiva introno alle due e mezza del pomeriggio, ma solo da quando eri andato in pensione perché a quell’ora, quando prestavi servizio come maresciallo presso la caserma, rientravi a casa brandendo nell’aria il tuo cappello e salutavi me, la mamma e la nonna che eravamo rimaste a tavola ad aspettarti, nonostante avessimo già finito di mangiare.

Ma noi non ci saremmo perse per niente al mondo lo spettacolo di quando sollevavi il piatto piano da quello fondo che la nonna aveva messo per non far raffreddare la pasta, di quando tentavi di dare una forma a quegli spaghetti, che, complice il vapore acqueo, erano diventati un blocco unico. Allora chiedevi alla nonna di ripassarli nella padella, magari con un po’ di burro e in attesa che gli spaghetti riprendessero forma, sbirciavi nel piatto riservato al secondo il contenuto dello stesso. Poteva ospitare la fetta di carne arrostita con la lattuga, la mozzarella di bufala con l’insalata mista, il pesce con le patate ma mai il pollo perché non riuscivi proprio a mangiarlo. Mentre attendevi che la pasta ti fosse messa davanti, io, te e la mamma parlavamo un po’ della mezza giornata trascorsa, poi terminavi il pranzo con l’immancabile arancia, se d’inverno, o le pesche giallone se d’estate.

Quando il bullismo non aveva questo nome: la storia di Franca

 

“Un istante, un solo istante e la vita vira, modifica la sua rotta. Tutto cambia…specie per chi rimane e deve continuare. E così diventai, un mattino di settembre, orfana di padre a causa di un incidente sul lavoro. Mia madre dovette andare a servizio e mi ritrovai a dover accudire i miei due fratelli più piccoli. Io ero la più grande…ma avevo appena dieci anni…dieci anni ed ero diventata la capofamiglia: pulivo casa, preparavo il pranzo e la cena, lavavo i panni di tutti”.

Ancora tanto il dolore nelle parole di Franca, oggi donna di 50 anni, madre di tre figli e prossima a diventare nonna.

Quello che è successo durante la sua infanzia, ce lo racconta lei stessa, davanti ad un ottimo ciambellone.

Frequentavo la quinta elementare quando mio padre morì e, oltre al dolore, allo sconcerto, arrivarono anche le difficoltà economiche. I miei genitori stavano costruendo una casetta in campagna, dove ci saremmo trasferiti l’anno successivo ma, con la scomparsa di papà, dovemmo bloccare tutto. Fummo persino costretti a lasciare l’appartamento dove eravamo in affitto per andare in un sottoscala umido e dal quale vedevamo soltanto le scarpe delle persone che passavano in strada”.

Non furono le privazioni e le restrizioni ad abbattere Franca, quanto quello che dovette sopportare a scuola.

Cominciarono a farmi pesare le mie scarpe vecchie, il fatto che non avevo più un diario, perché tutto, in quel momento, anche pochi spicci, facevano la differenza tra mangiare o restare digiuni. Meno che mai potevo acquistare gli album delle figurine che tanto andavano di moda in quegli anni. E la mia merenda non era più il pezzo di pizza rossa acquistata al forno vicino scuola, ma una fettina di pane con un formaggino. Fu così che i miei compagni di classe cominciarono a farmi sentire diversa, a prendermi di mira, a chiamarmi “la pezzentella”. Nessuno più voleva venire a casa mia, anche se io, di tempo da dedicare alle compagne di classe, ne avevo sempre pochissimo”.

Un disegno di Franca realizzato in quinta elementare: un albero con choime di fuoco viola, un sole nero, delle nuvole blu, dei lampi e quella casa sbiadita, disegnata e cancellata più volte…

Quando un giorno l’insegnante formò i gruppi per la consegna di un cartellone di geografia, nessuno la volle nel proprio, adducendo il fatto che i suoi abiti puzzassero di chiuso.

“Nessuno voleva sedersi accanto a me al banco, nonostante l’amorevole intervento della maestra la quale decise, un giorno, di  farmi mettere vicino alla cattedra  con banchetto singolo,  ma questo non migliorò la situazione, tanto che i miei compagni si divertivano, appena l’insegnante si voltava per scrivere alla lavagna, a lanciarmi, con la biro di plastica, dei pezzetti di carta. Fu  un anno durissimo, e di questo non potevo ovviamente parlare con mia madre, già oberata di lavori pesanti e sfiancanti”.

Poi le cose lentamente migliorarono quando i nonni materni decisero, l’anno successivo all’incidente, di trasferirsi da loro, riuscendo a finire anche i lavori di quella casa tanto agognata; nel frattempo, la madre ottenne un lavoro fisso da operaia in fabbrica.

“Eppure, ancora oggi sento addosso  quel disprezzo che mi vomitavano addosso tutti i giorni i miei compagni di classe. Era bullismo… anche se all’epoca non aveva questo nome. E quando oggi leggo storie di bambini vittime dei bulli mi sento impotente e triste, perché sono cose che rimangono impresse a fuoco nell’anima, per sempre”.

Franca ha parlato per tutto il tempo con la voce rotta da dolore antico eppur presente, stringendo le mani, una nell’altra, in maniera ritmica. E, nonostante  oggi la sua casa sia piena di luce, con un bel terrazzo pieno di piante che cura lei personalmente, e nonostante i tre figli e il nipotino che arriverà tra breve, dentro di sé quelle ferite, di quando per gli altri era “la pezzentella”,  urlano ancora nella notte dei ricordi con la loro voce stridula, sgradevole, perché dal bullismo non si guarisce mai completamente, perché il passato torna, anche se a chiamarlo è un minuscolo, impercettibile dettaglio.

Alessandra Fiorilli

 

 

31° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il sole era particolarmente caldo quel giorno di Pasquetta del 2001, allora ti invitai ad uscire fuori, in veranda, per accomodarci attorno al tavolo dalle piastrelline arancioni, sotto l’albero del cachi e del nocciolo che proprio in quei giorni stavano mettendo le giovani e verdi foglie alla loro chioma e così, per non scontentarmi, accettasti il mio invito e appoggiandoti a me, scendemmo i gradini del balcone.

Poi, quella richiesta…quella richiesta che non avresti mai fatto se non avessi sentito vicino la tua fine: chiamare qualcuno per far portare via le reti richiudibili che per decenni avevi conservato in cantina. Sì, proprio quelle reti… le stesse che per anni avevano accolto il bisnonno, gli zii, i vostri parenti. Le avevi conservate per così tanto tempo che sembravano far parte di te, della tua vita, della nostra storia.

Le tenesti giù in cantina per anni, tra le botti e le bottiglie, perché la vita è anche questo sperare che qualcuno ti venga a trovare, è anche questa disponibilità verso gli altri, questa ospitalità che sapeva di brande pieghevoli e di pranzi preparati dalla nonna, di sonnellini e di caffè pomeridiani, di pizza napoletana mangiata insieme in veranda, sotto un cielo stellato.

Quel giorno, invece, capisti che la morte avrebbe trascinato tutto con sé, come fa un’alluvione, e prima ancora che qualcuno si prendesse il disturbo di buttare quelle reti, lo facesti tu, chiedendo a me di cercare qualcuno per portarle via, tanto, dicesti, non sarebbero servite più a nessuno. Non ti saresti mai disfatto di quelle reti se solo avessi avuto il minimo sentore di poter continuare a vivere, non avresti mai negato la possibilità a qualche parente di stare un po’ con te e con la nonna, anch’ella meravigliata da questa inaspettata richiesta.

Cercammo, così, quell’uomo che guidava un vecchio camioncino con il quale andava a svuotare le cantine di oggetti, di cose di cui la gente voleva disfarsi. Venne da noi un pomeriggio di primavera, entrammo nel locale sottostante la casa per prelevarne una ad una come fossero state prigioniere di un speranza, ma erano incastrate tra loro e non volevano saperne di lasciare per sempre la tua cantina. Erano malconce ma sembravano essere felici, felici di averti reso lieto per tutti quegli anni. Ora, però era il momento dell’addio, tu eri poggiato con le braccia sulla balaustra del balcone di casa, la cantina era proprio lì sotto e stavi aspettando di vedere uscire da lì quelle brande.

Tu le guardasti una ad una quasi a riconoscerle, quasi a volerle salutare amorevolmente. Se per molti erano solo delle reti di ferro malandate, per te rappresentavano la vita che ti stava lasciando, la vita che avevi trascorso con tua moglie, le estati della tua età matura quando davi ospitalità ai bisnonni, e poi agli zii. Prima di dirigermi verso il camioncino che non aspettava altro che di caricare le brande, mi girai verso di te come a chiederti se volevi ancora che si compisse quel gesto, quasi a sperare che ti fosti pentito nell’affidare le tue reti a quell’uomo.

Lui era lì, ad aspettare e, vista la mia titubanza, non ci pensò su due volte a venirmi incontro per levarmi di mano le reti. Le addossò una all’altra, malamente, le legò strette con una corda di fortuna, si accertò che non cadessero lungo il tragitto, chiese i soldi e se ne andò. E noi rimanemmo lì, tu, affacciato al balcone, io, fuori il cancello a vedere il vecchio camioncino che si stava allontanando dalla nostra casa, portando via, per sempre, quelle reti che sembravano salutarci. La rete più piccola, quella a una piazza, aveva persino tentato di rimanere in cantina, essendosi incastrata più volte tra il torchio ed una botte, forse pensava che se avesse opposto resistenza, avremmo deciso di ospitarla ancora per un po’ nel locale sottostante la casa.

Credevamo entrambi, nonno, che anche le cose avessero un’anima, che sentissero, che percepissero le nostre emozioni. Lo credo ancora oggi.

30° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La notte successiva a quella lezione sugli alberi da te impartitami con grande amore, fu lunga, interminabile… e così, senza fare rumore, andai in soggiorno e presi dai cassetti tutti gli album delle nostre foto: dal matrimonio della mamma sino alle ultime, scattate nei tradizionali giorni di festa.

Mi soffermai a lungo sulle immagini che ritraevano noi due, o te e la nonna, o tutti insieme, e mi ricordai delle volte in cui chiedevi a qualche passante di scattare una fotografia per noi. Ti avvicinavi in maniera cortese al signore di passaggio, gli porgevi la macchinetta fotografica, gli spiegavi quale pulsante era da premere e ti stringevi forte a noi, alle nostre spalle, alle nostre mani, sorridendo con infinita gioia.

Noi eravamo così, capaci di celebrare anche una semplice passeggiata sul lungomare mentre io mangiavo la pizza calda fumante con la mozzarella filante e tu mi dicevi di stare attenta a non sporcare il prezioso capotto di lana marrone con gli alamari nocciola, capaci di venirci incontro in piazza come se non ci vedevano da anni, anche se ci eravamo separati dieci minuti prima. Dopo lo scatto della foto, anche se ci ritraeva in momenti quotidiani, scontati per gli altri, tu esprimevi sempre il timore che non uscisse bene, neanche se avessimo fotografato chissà quale parte sperduta della terra. Invece era una foto semplice, potevate esserci tu e la nonna davanti le balaustre del lungomare, tu e la mamma in giardino, io e te seduti sulla panchina dalle piccole piastrelle blu.

Scene di vita quotidiana, arricchite dall’amore, profondo e sincero che ci ha sempre unito. Continuai a sfogliare l’album delle foto, la prima immagine che mi venne incontro fu quella del matrimonio della mamma: eravate ritratti voi due fuori al cancello verde di ferro battuto, tu eri elegantissimo e visibilmente emozionato. Sin da bambina non ero mai abbastanza sazia di quelle immagini, di quel sorriso della mamma alla quale amavo dire che se la felicità avesse avuto un volto, avrebbe avuto il suo, il giorno delle nozze. Mi piaceva guardarvi prima che nascessi io, non so per quale recondito motivo, adoravo poi confrontare quelle foto con quelle successive alla mia nascita. Forse per vedere sui vostri volti, su dei miei genitori, su quello della nonna e sul tuo, quello sprazzo di gioia in più, una volta fatta la mia conoscenza.

29° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Mi limitai a scendere giù per le scale tra il trillo degli uccelli che svolazzavano felici tra i rami degli alberi in giardino, inconsapevoli di quanto stava accadendo dietro i vetri di quella persiana che tante volte avevano lambito durante i loro voli radenti.

La porta-finestra era socchiusa, già potevo intravedere la tua ombra proiettata, dalla luce dell’abat-jour, sul muro, vicino l’armadio. Non eri più a letto ma adagiato sulla poltrona e, per nascondere alla mia vista la magrezza delle tue gambe, te le copristi abilmente con quel plaid marrone.

Mi facesti segno di accomodarmi sul letto, era ancora caldo, questo vuol dire che avevi lasciato coperte e lenzuola solo per me, solo per parlare con me.

Facesti, come era nel tuo stile, un breve preambolo, riassumesti quanto avevamo fatto nell’orto, non senza esserti complimentato con me per l’ottimo lavoro svolto tra piantine e vanghe.

C’era un’ultima cosa che dovevo sapere: quando far potare gli alberi. Capii, solo in quel momento, che la tua morte era ormai sempre più vicina, più vicina ancora di quanto il tuo stato di salute potesse far presagire. Gli alberi, in 50 anni, avevano conosciuto solo la tua mano, a me permettevi, d’estate, di annaffiarli, e sempre sotto la tua super-visione.

Quante volte mi hai ripetuto, da bambina, che gli alberi sono come le persone: bisogna rispettarli, averne cura, conoscere le loro necessità per permettere una crescita sana e vigorosa.

Ricordi, nonno, quel caldo pomeriggio d’agosto, quando tu e la nonna andaste, come era vostra abitudine fare, a prendere il pesce di paranza al porto e al tuo ritorno mi vedesti che stavo bagnando, con il tubo di plastica, le foglie del limone in giardino?

Mi rimproverasti per aver procurato all’albero un fastidio che avrei potuto comprendere appieno solo se qualcuno si fosse comportato con me come io stavo facendo con il limone. Cosa avrei potuto mai provare se, dopo tante ore trascorse sotto il sole, qualcuno fosse venuto da me per bagnarmi con dell’acqua fredda? Non avrei avuto un sussulto, non avrei provato un profondo senso di fastidio? Allora perché, mi chiedesti, avevo inflitto tutto ciò al povero albero di limone? Lasciai cadere il tubo dell’acqua e ti chiesi scusa per la disattenzione e per non averti aspettato.

Ecco, l’unico intervento permesso sugli alberi del giardino era l’annaffiatura sotto stretta sorveglianza, come scherzosamente dicevo io, e nulla di più.

Adesso tu, invece, stavi insegnando a me quando intervenire su loro rami, consapevole com’eri che non sarebbe stata più la tua mano a potarli a fine stagione. Ebbi la sensazione netta di scappare, ma cosa mai sarei stata davanti ai tuoi occhi? Una codarda, una persona priva di coraggio, incapace di accettare la realtà. Tu prendesti fiato, io accavallai le gambe ma il nervosismo le stava facendo tremare eccessivamente, allora decisi di metterle giù.

Non fu solo una lezione di giardinaggio, quella che mi stava aspettando, ma un sunto della tua vita da bambino, un insegnamento su come il futuro esige la nostra volontà ed il nostro coraggio per diventare realtà. Dietro una terra ben arata, un orto ben coltivato, c’è sempre tanta fatica.

È una continua lotta, quella che l’uomo intraprende con la natura aspra e selvaggia, sempre pronta ad infestare di erbacce un campo coltivato, ma la soddisfazione di un bel raccolto lo ripaga di tutte quelle ore trascorse con la schiena piegata.

Eri uomo di cultura, indubbiamente, imbattibile in greco e in latino, insuperabile in storia, ineguagliabile in letteratura, ma avevi saputo conoscere anche la terra e le sue esigenze. La tua curiosità ti aveva sempre spinto oltre: oltre il dolore, la solitudine, la guerra, le privazioni, e questo tuo innato ottimismo ti aveva sempre ripagato. Quando portavi dalla campagna gli ortaggi invernali o la deliziosa frutta estiva, i fichi settembrini come l’uva, ringraziavi sempre Dio per averti concesso, anche quell’anno, la possibilità di poter condividere i frutti del tuo lavoro con la tua famiglia. Pur amando profondamente la vita non davi mai nulla per scontato, alla mattina come alla sera, ringraziavi il Signore che ti aveva donato un’altra giornata.

Terminasti a fatica la lezione sulla potatura degli alberi: io avevo compreso gli aspetti essenziali ma sarebbe stata poi la pratica a confermarmi se la comprensione era stata adeguata.

28° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La giornata continuò ad essere calda ed invitante e subito dopo pranzo, mentre eravamo affacciati al balcone della cucina, sfilarono tante persone, quasi tutte indossavano magliette colorate con le maniche corte, jeans rivoltati alla caviglia, scarpe leggere, a testimoniare che la primavera era veramente arrivata quel giorno di Pasqua del 2001.

I bambini erano sistemati nei passeggini ed i ragazzini più grandi sfrecciavano lungo la strada con le biciclette, le mamme richiamavano ad alta voce i propri figli, le macchine passavano, gli uccelli cantavano: ognuno continuava la propria esistenza e non nascondo che provai un senso d’invidia per loro, per quelle persone felici, inconsapevoli del mio dolore, del dolore di una nipote che stava per perdere il proprio nonno.

Ricordo quello che leggemmo un giorno nella Lettera sulla felicità di Epicuro che ti avevo regalato. In poche e semplici parole, Epicuro affermava che non dobbiamo avere paura della morte perché quando non c’è lei ci siamo noi e quando c’è lei siamo noi a non esserci più. Ci salutasti, terminato il pranzo, ringraziandoci uno ad uno come mai avevi fatto sino ad allora, per esserti stati vicino, poi andasti via nella tua camera da letto mentre la nonna era intenta a sistemare la lasagna che non avevi consumato in un piccolo contenitore d’alluminio, nella speranza che poi, la sera, l’avresti mangiata.

La nonna ragionava ancora basandosi sul passato, su quello che era stato ma non sarebbe stato più. Tutto stava tragicamente cambiando attorno a noi, a noi, che rimanemmo inebetiti da cotanto straziante spettacolo di un uomo di buona forchetta costretto dalla malattia a giocherellare mestamente con le posate e a far rimanere, per un tempo eccessivamente lungo, la deliziosa lasagna sui rebbi della forchetta.

Mi complimentai con la nonna per quell’ottimo pranzo, la strinsi a me e mi accorsi, così facendo, che stava tremando. Era impaurita, intimorita perché la vita senza di te le sarebbe sembrata troppo vuota ed inutile. Salutai tutti i commensali e corsi su nella mia camera dove rimasi a leggere per un po’ qualche passo di un libro preso a caso.

Solo più tardi salii in terrazzo ad ammirare il tramonto mozzafiato che quella tristissima giornata mi stava, in ogni caso, regalando. Il cielo passava senza soluzione di continuità dall’arancione al rosso vivo mentre gli uccelli sembravano rincorrersi e trillavano felici e liberi.

Tu invece eri ancora nel letto e non avevi ancora lasciato quelle lenzuola. Avevo persino pensato di non scendere da te quella sera, per lasciarti riposare ma, proprio mentre stavo riflettendo su ciò, la nonna venne a chiamarmi: tu volevi parlare con me.

Quel giorno avrei ascoltato senza fiatare, perché avevo terminato tutte le parole ed i pensieri che pure sino ad allora mi avevano, a tratto, fatto compagnia. Non immaginavo neanche cosa volessi dirmi, dopo una giornata così faticosamente trascorsa tra le nostre speranze e la cruda realtà, tra le nostre paure ed il tuo stato di salute sempre più malfermo.

27° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mattina di Pasqua scesi di corsa le scale per venirti a dare il buongiorno: eri già seduto sulla poltrona della camera, in attesa che fosse trasmessa la Santa Messa.

Con dolore ammettesti che quella era la prima volta che non assistevi di persona alla messa di Pasqua e quanto ti piaceva farlo, con tutti i preparativi che concerneva! La nonna si lasciò sfuggire un: “Sarà per l’anno prossimo”.

Io e te ci guardammo, poi ognuno girò la testa verso la parte opposta a quella dell’altro, come a dire che non ci sarebbe stata nessuna altra volta, nessuna altra Pasqua.

La giornata era splendida, il sole caldissimo, era una di quella mattine che tanto ci piacevano, con il cielo spazzato da ogni nuvola, con gli uccelli che, vibrando a mezz’aria, sfrecciavano davanti le finestre di casa per andarsi poi ad appoggiare sugli alberi del giardino. Ma preferii, nonostante l’invitante giornata, rimanere in casa con te, per assistere alla Santa Messa in tua compagnia, mi misi seduta sul tappeto, vicino ai tuoi piedi e per tutto il tempo ti strinsi la mano.

Sembravi sereno, meno addolorato del solito, sentivi caldo, tanto che ti levasti anche il gilet e rimanesti in camicia e calzoni: questo tuo privarti degli abiti superflui offrì al mio sguardo il tuo corpo magro. Nel frattempo erano rientrati tutti dalla messa e dalla passeggiata sul lungomare: ebbero la gradevole sorpresa di vederci uno accanto all’altra, intenti nell’apparecchiare la tavola di Pasqua.

La tovaglia era quella destinata alle occasioni speciali, il servizio era quello di porcellana bianca, immancabile, poi, la bottiglia del vino prodotto da te con l’uva della tua campagna, sistemata al centro della tavola, tra la caraffa dell’acqua ed il cestino del pane che stavo affettando. Eravamo pronti ad andare a tavola quando ci invitasti a disporci in fila lungo il corridoio per celebrare l’usuale rito della benedizione: prendevi una boccettina di vetro trasparente con l’acqua benedetta, un rametto d’olivo distribuito durante la messa della domenica delle Palme e con rapidi gesti della mano cospargevi con quell’acqua, aiutandoti con il rametto d’ulivo, il capo di tua moglie e dei tuoi figli.

A me spettava ricevere quelle gocce di acqua benedetta dalle mani della mamma e di papà, ma esigevo sempre che anche tu, nonno, cospargessi il mio capo. Potevamo, dopo la conclusione del rito, accomodarci a tavola mentre la nonna sistemava nei piatti la prelibata lasagna, della quale tutti chiedevano sempre il bis.

Quella volta gli occhi erano rivolti a te, seguivamo con trepidazione ogni tuo gesto e tu, pur di non deluderci, tentasti di mangiarne un pezzo. Stentavi ad inghiottire quel boccone mentre nervosamente giravi nel vuoto la forchetta che cercava di tagliarne un altro pezzetto. Fu così anche per la pastiera di grano. Tu notasti la nostra preoccupazione ma ci invitasti a godere di questa giornata di festa.

L’uovo di Pasqua fece, al termine della sfilata delle portate, il suo ingresso sulla tavola e proprio in quel preciso istante avrei voluto fuggir via, con le lacrime agli occhi, ad urlare il mio dolore in faccia al mondo che continuava la sua vita, senza sapere nulla di noi, ma rimasi lì, accanto a te, a te che stavi distribuendo a tutti i commensali un pezzo di cioccolata.

La Pasqua in Sicilia: a Ragusa arrivano in tavola le Cassatedde e la Scaccia

 

Senza passato, il futuro è una nebulosa dai contorni sfocati. Senza tradizioni, chi ci ha preceduto nel percorso della vita terrena, scompare nel susseguirsi di giorni privi, ormai, di radici.

E’ per questo che, quando nel corso delle mie interviste, antichi usi e consuetudini, ma anche gesti carichi di una profonda valenza, non solo emergono, ma assumono fattezze di una quotidianità ancora semplice, sono lieta di parlarne.

E’ quello che accade ancora in Sicilia, ad Ispica, in provincia di Ragusa, dove vive la signora Giusy, la quale, insieme alla sua famiglia d’origine e alla sue figlie, onora la Pasqua di Resurrezione preparando rigorosamente in casa, due tipici piatti di questa Festività che accompagna l’inizio della Primavera: le “Cassatedde Ragusane”, o cassatine di ricotta, e la Scaccia.

Le Cassatine di ricotta appena sfornate dalla Signora Giusy

“Le cassatine di ricotta, da noi conosciute con il loro nome tipico di Cassatedde  ragusane– racconta Giusynascono proprio da un’antica tradizione pasquale, anche se oggi possiamo trovarle in ogni periodo dell’anno. Questi dolci noi li prepariamo tra il Giovedì e il Sabato Santo e li portiamo in tavola sia il giorno di Pasqua che quello di Pasquetta. La preparazione è semplice: la pasta viene divisa in panetti che vengono stesi e dai quali si ricavano, con un coppapasta, dei cerchi i cui margini vengono rialzati. All’interno si versa un ripieno a base di ricotta, uova, zucchero, cannella e gocce di cioccolato.   Una volta sfornate, sono una delizia per gli occhi e per il palato”.

Particolare delle famose “Cassatedde Ragusane”

Ciascuna  provincia siciliana ha le proprie Cassatedde: “E se a Ragusa si preparano come dei piccoli cestini di pasta  ripieni di ricotta, a Trapani e a Palermo differiscono per forma e per ripieno. Qui in Sicilia ci sono forti tradizioni locali strettamente legate alla provincia di appartenenza”.

Mentre le “Cassetedde” sono tra i dolci più consumati e graditi, lo scettro del rustico pasquale spetta alla Scaccia ragusana.

La Scaccia preparata dalla Signora  Giusy

La scaccia era rigorosamente preparata in casa, dove, chi aveva la fortuna di possedere un forno a pietra, lo metteva a disposizione anche delle altre famiglie. L’uso del forno serviva durante l’anno anche per  il pane, elemento principe di un’alimentazione comunque povera e legata soprattutto alla terra. Oggi i  tradizionali forni a pietra li si trovano soprattutto nelle case di campagne, ma non pochi, compresa la mia famiglia, continuano la tradizione-racconta Giusy, la quale aggiunge- “La scaccia ragusana è sinonimo di casa, di quando un tempo, prima delle festività, ci si riuniva tra famiglie e se ne preparavano in grande quantità, anche perché sarebbero state le protagoniste della Pasquetta: la Scaccia come torta rustica, le cassatine di ricotta  come dolce e davvero non avevi bisogno più di nulla per la scampagnata del Lunedì in Albis”.

…di nuovo la tipica Scaccia…

La tradizionale Scaccia ragusana è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale. Impastato il tutto e una volta fatta crescere, la si lavora nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva, la si divide  in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno,  la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, sono pronte per essere infornate per circa mezz’ora.

…e un suo particolare…

E se anche la Scaccia, così come le cassatine di ricotta,  sempre più di frequente la si prepara e la si trova durante tutto l’anno, quando la si mangia insieme alla propria famiglia, riunita  in occasione della Pasqua, allora sì che ha tutto un altro sapore…

Alessandra Fiorilli