64° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Si fece di tutto in quei ultimi cinque giorni trascorsi a casa per farti sentire bene, pulito, a posto, come amavi sentirti tu, nonno. Ma non era la stessa cosa, non fu la stessa cosa, non sarebbe stata mai più la stessa cosa.

Disteso su quel letto che trasudava dolore e presagi di morte, ti passarono davanti agli occhi tutti quei gesti quotidiani che non facesti mai per consuetudine stanca, ma sempre animati dall’amore e dalla passione per la vita.

Semplici gesti, quasi al limite dello scontato o dell’obbligatorio, come il cambio settimanale delle lenzuola, il ritirare i panni appesi sui fili fuori il giardino che quasi lambivano i lunghi rami del petto d’angelo, lo sciacquarti il viso con tanta acqua fredda, il lavarti i denti con il tuo solito dentifricio alla menta, erano stati ripetuti per anni, per decenni, eppure ogni attimo l’avevi assaporato come fosse prezioso ed irripetibile.

Mi dicevi spesso che una stessa azione che si compie ogni giorno muta il proprio significato e aspetto a seconda dei nostri stati d’animo.

Un pomeriggio d’inverno, con le gocce di pioggia che terminavano la loro corsa sul vetro della finestra dello studio, mi facesti riflettere su una cosa: quando si è in convalescenza, la brezza pomeridiana che tanto ci piace, che ci accarezza i capelli e ci sfiora il viso, non è poi così piacevole come quando godiamo di perfetta salute, anche il semplice posizionare le mani sotto l’acqua corrente ci procura un leggero senso di fastidio se si ha qualche linea di febbre.

Qual era, dunque il segreto della vita, se non quello di assaporare ogni attimo e soprattutto di non dare mai nulla per scontato? Detto così, con parole semplici e ripetute da molti, può passare per un’osservazione banale, ma solo chi ha tentato di mettere in pratica questi insegnamenti di vita può comprendere come, al di là di un apparente aspetto scontato, si cela una grande verità, che poi è la verità che accomuna tutti gli esseri viventi: siamo passeggeri su di un treno la cui corsa nessuno sa quando terminerà, ma non per questo non si gode dello splendido paesaggio che si vede scorrere fuori dal finestrino: dei tramonti come delle albe, dei torrenti tumultuosi come di una distesa placida e verdissima di fiori colorati.

63° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto erano iniziate le giornate nelle quelli l’infermiera avrebbe avuto cura di te, facendo quei gesti, quei medicamenti che noi non eravamo capaci di compiere con le dovute cautele e le necessarie accortezze. La vena del tuo braccio sinistro ospitava già un ago sottilissimo, la flebo scivolava nel tuo corpo lentamente, goccia a goccia, e mi sembrò, assistendo a quella scena che avevo già visto in ospedale, di annegare dentro quella soluzione cristallina, di scomparire, come quel contenuto liquido medicamentoso. ù

Anche le mie giornate stavano scivolando via lentamente ed inesorabilmente verso la tua fine, e mi sembrò di svenire. L’infermiera dovette accorgersi del mio stato, tanto che mi invitò a sedermi in cucina per sorseggiare un po’ di acqua e zucchero. Ma non riuscii a berla, quel sapore dolciastro mi nauseò, ma il motivo di ciò non era in quella bevanda zuccherina ma in quell’aria greve che si stava respirando il mattino del 29 giugno 2001, nella bella casa del Cavaliere.

Le finestre erano aperte ma nemmeno il vento sembrava voler più entrare in quella camera da letto. Di solito la brezza estiva amava far capolino nella camera con i marmi rosa per far vibrare le tende di lino e per passare poi sul letto appena fatto, sulla coperta bordeaux con le frange blu, ma quel mattino anche il vento sembrò rifuggire da quella scena, anche lui sembrò incapace di accettare che saresti morto, che non ci saresti stato più in quella casa impreziosita dai quadri che avevi scelto personalmente, dai mobili lucidi, dalla vecchia radio, dai tuoi libri esposti nello studio, dalla tua presenza, dalla tua figura, dalla tua voce che ricordo ancora così chiaramente, nonno.

Io ero ancora in cucina, laddove la mia incapacità di accettare l’ineluttabile mi aveva confinata, tenevo in mano quel bicchiere di vetro infrangibile dalla forma allungata, la nonna entrava ed usciva in continuazione, sembrava una trottola impazzita. Dalla tua camera da letto l’unica voce che arrivava chiaramente in tutta casa era quella dell’infermiera che chiedeva asciugamani puliti, bacinelle colme d’acqua tiepida, spugne morbide, salviettine profumate, lenzuola candide.

62° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

E fu così che la nonna andò avanti per l’intero pomeriggio a tagliuzzare le melanzane, ad affettare la mozzarella per preparare la sua famosa parmigiana. Ricordi, nonno, il ferragosto trascorso sempre insieme, attorno al grande tavolo della cucina?

Noi eravamo in pantaloncini e magliette e tu sempre impeccabile, con i pantaloni lunghi, la camicia di lino chiara a mezze maniche ed i sandali di cuoio intrecciato ai piedi… quante volte ho invidiato la tua eleganza nel vestire anche tra le quattro mura domestiche, il tuo bon-ton perfetto a tavola, anche se eravamo tra di noi! Il ferragosto rappresentava la cornicetta che ciascuno di noi pitturava attorno all’estate, era una sorta di consuntivo e di resoconto dei mesi caldi che stavano per lasciarci. Sino a quando siamo stati tutti insieme, le nostre estati sono state sempre delle bellissime ed indimenticabili, con le lunghe nuotate, con il portabagagli della tua adorata macchina carico di secchielli di plastica, formine, carriole, rastrelli, palette, salvagente e braccioli, con gli onomastici festeggiati sino a notte tarda in veranda, con la bisnonna che rallegrava le nostre giornate, con i frutti della tua campagna, con gli zii che venivano ogni sabato da noi, ma anche con il desiderio fortissimo di avventurarci dentro un altro inverno, con il camino da accendere, il Natale con tante portate, la Pasqua con la benedizione prima del pranzo, con me che speravo sempre ci fosse il posto a sedere a tuo fianco, alla tua destra.

Quell’estate del 2001, invece, si sarebbe conclusa senza di te, di lì a qualche giorno avremmo dovuto salutarti per sempre, tu non ci saresti stato più per noi, non avresti più riempito le nostre giornate con i tuoi sorrisi, i tuoi consigli, non ci sarebbe stata più la consapevolezza che qualsiasi ostacolo che avremmo potuto incontrate, tu saresti riuscito, con il tuo acume e la tua intelligenza, a farcelo superare. L’aveva capito bene la nonna, ecco perché stava affogando il suo immenso dolore tra quelle melanzane, in quel sugo denso, in quella mozzarella che appena tagliata faceva fuoriuscire dal prezioso involucro tanto buon latte. Continuò per tutto il pomeriggio a preparare una cena degna di un re che però, alle otto di sera, non l’avrebbe consumata nessuno, né lei, avvilita e prostrata, né noi, ammutolite, annichilite da un dolore che già allora ci stava sommergendo. Quella famosa parmigiana della nonna, quella compattezza unita alla morbidezza inimitabile degli strati, tutto, proprio tutto sarebbe rimasto lì nel forno, coperto da un foglio di carta d’alluminio, aspettando inutilmente che qualcuno lo aprisse per prelevare quella delizia e portarla in tavola, attorno alla quale, quella sera, non si sedette nessuno.

61° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Dopo aver pronunciato con grande difficoltà quelle poche parole, cariche però di un profondo significato, tu mi chiedesti se potevo massaggiarti un po’ le gambe e le ginocchia, perché ti dolevano molto. Al primo contatto che ebbi con le tue gambe, mi venne spontaneo ritrarre la mia mano, poi però la poggiai subito nuovamente su di te, perché non avrei più dovuto o potuto sfuggire davanti al dolore e alla tua malattia.

Allora cominciai a far scorrere dolcemente, attenta a non far nessuna pressione, la mia mano destra sulla tua gamba e fu così che provasti sollievo per quello che non fu un massaggio, ma solo una carezza. Era da poco passata l’ora di pranzo, l’orologio segnava le due e mezza, l’ora nel quale per tanti anni rincasavi trionfante e sorridente con la tua divisa. Fu estremamente doloroso per me riconoscerti in quella tua debolezza, in quel tuo dolore ma eri tu: il mio forte, coraggioso e saggio nonno.

Poi arrivò il medico: ti visitò e quando uscì dalla tua camera aveva gli occhi abbassati in terra, quasi a voler sfuggire i nostri sguardi smarriti che andavano alla disperata ricerca di una parola di conforto, di una rassicurazione che, però, non arrivò.

Fummo costretti ad ascoltare parole pesantissime, ad assistere impotenti ad una sentenza inappellabile: era certo, ormai, dato il tuo quadro clinico, che di lì a qualche giorno saresti morto.

Ecco, tutte le mie speranze, il mio desiderio di vedere miglioramenti anche dove oggettivamente non ve ne erano, la mia tenacia nel volerti trattenere con me, la mia incapacità nell’accettare l’inevitabile, tutto, ma proprio tutto era lì, davanti a me, era davanti ai miei occhi e stava lentamente crollando… non potevo fare altro che farmi forza.

Nessuno parlò dopo il medico, né io, inebetita dal dolore lancinante che mi spezzava il respiro, né la mamma, né la nonna che fu talmente colpita da quelle parole che non riuscì nemmeno a dar sfogo alla sua disperazione ed andò in cucina a preparare la cena. Dopo aver accompagnato il medico sin fuori casa, rientrai dalla nonna: era tranquilla, sembrava quasi non avesse compreso pienamente la gravità di quelle parole. Infatti quando si girò verso di me, disse che non saresti morto, che non avresti mai potuto abbandonarci.

Fu apparentemente incomprensibile la sua reazione, sembrava non rispondere a nessuna logica, poi riflettei a lungo su quanto stava accadendo e pensai di aver trovato la risposta ad un quesito così pesante: sino a quando c’era stata una flebile speranza di guarigione, lei aveva permesso al dolore di andare via, di farsi lavare dalle lacrime, poi però quando non si poteva più sperare, tutta la disperazione aveva indossato la maschera della tranquillità e dell’apparente serenità, perché il dolore della nonna era talmente grande in quel momento che non sarebbero bastati anni di lacrime a trascinar con sé il profondo senso di smarrimento che stava prendendo il sopravvento su di lei. Lei, così fortemente dipendente da te, lei, che dopo 50 anni di matrimonio lavava ancora a mano i tuoi indumenti, lei che ti serviva sempre per primo anche se a tavola c’era l’ospite di riguardo, lei che sapeva, allungando la mano di notte, di trovare la tua, grande, forte, lei che da sola non avrebbe neanche più apparecchiato la tavola né cucinato perché tutto il senso della sua vita era condensato in te, in te che ci stavi per lasciare.

60° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Di ritorno dall’ospedale, con la pioggerellina che bagnava le mie spalle, il tuo pigiama a righe, le ciabatte della nonna, la tua valigia di pelle, dovetti affrontare la realtà, dovetti scendere a patti con la morte per averti almeno qualche giorno in più. Ma quest’ultima fu inclemente: era un giovedì quando rientrasti a casa e il martedì mattina eri già pronto per essere vestito con l’abito più bello, con le tue scarpe lucide e stavolta non ti sarebbero servite per uscire con la nonna e camminare per il lungomare.

Nel trambusto del primo pomeriggio, tra le cose da acquistare in farmacia, l’infermiera che andava avanti ed indietro per tutta casa, in modo da organizzare il lavoro nella maniera più funzionale e fruttuosa possibile, con la valigia ancora da disfare, con la nonna che cercava di rendersi utile, pur se sommersa da un mare ormai incontenibile di lacrime, tra tante cose da fare, dunque, io mi ero dimenticata, per un istante, che tu eri finalmente rientrato a casa.

Lasciai il lavoro agli altri e mi diressi verso la tua camera, e nel preciso momento in cui varcai la soglia della tua stanza da letto, trovasti la forza per chiamarmi vicino a te e per dirmi: “Vedi, ce l’ho fatta… sono riuscito a tornare a casa per vederla un’ultima volta. Prima ero in prigione, ora sono libero”. La tua grande forza d’animo, il tuo coraggio, il tuo ottimismo, il tuo vedere, come dicevi spesso, il bicchiere sempre mezzo pieno, è condensato in queste parole che riuscisti a pronunciare, anche se con la voce appannata, di ritorno dall’ospedale.

Parlasti di libertà ma ad occhio nudo nessuno avrebbe potuto vederla: non eri libero perché non potevi muoverti, non potevi mangiare… non potevi fare nulla di quello che più amavi, eppure… eppure parlasti di libertà.

Dove era celata? Nel tuo essere a casa, tra quelle lenzuola di lino ricamate a mano, nelle finestre che potevi chiedere a noi di aprire o di chiudere, in quel vedere fuori la finestra non strade a te sconosciute, ma luoghi a te cari, misurati ogni giorno con i tuoi passi.

Eri libero, nonostante chiunque avrebbe potuto affermare il contrario, senza essere in errore. La tua libertà era la tua casa, il tuo giardino, era la nostra presenza in ogni momento della giornata. Ecco cosa ci rende liberi: l’amore, solo l’amore.

59° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il giorno stesso del tuo ritorno a casa, nonno, seppi che non ti specchiavi da mesi, da quando il tuo corpo stava cominciando a perdere peso, a diventare leggerissimo ma anche pesante, da quando il tuo viso con la pelle sempre abbronzata, aveva perso il suo tipico turgore.

Ti chiesi come avevi potuto mai raderti con il tuo fedele rasoio elettrico senza l’ausilio di uno specchio e tu mi avevi risposto a gesti, mimando il percorso delle lame sul viso come a dire che, dopo tanti anni, andavi a memoria, e non avevi più bisogno di un pezzo di vetro che riflettesse la tua immagine. La barba poi era cresciuta inesorabilmente durante quelle tre settimane in ospedale, e nonostante tutti noi ti avessimo chiesto se volevi farla radere da qualcuno, tu avevi sempre rifiutato l’offerta, al limite dello sdegno.

Lo so, nonno, quello che per gli altri era una conseguenza della malattia, quello che agli altri sembrava essere una cosa inevitabile e da accettare, per te rappresentava una violazione del tuo corpo, un’interferenza non voluta e tanto meno cercata. Si, perché il raderti tutti i giorni con l’elegante rasoio dall’impugnatura blu, celava un profondo significato, era un voler dire a te stesso che ti rispettavi, che eri capace di coccolarti.

E riflettevo su come anche un gesto quotidiano, semplice, compiuto da tutti gli uomini del mondo a volte controvoglia, come il radersi la barba, l’avevi trasformato in un rito piacevole, da gustare in tutte le sfumature.

Ricordo ancora come si svolgeva questo particolarissimo e personalissimo rito: prelevavi dal tuo comodino il rasoio elettrico che ancora custodivi nell’incarto di plastica e nella sua originaria scatola, prendevi dall’armadio l’asciugamano di lino bianco con le frange, infilavi la spina e cominciavi a far scorrere le lame rotanti sul tuo viso: eri bravissimo, non sbagliavi un movimento, quel rasoio elettrico sembrava accarezzarti la pelle, avvolgerla in un abbraccio. Controllavi se la rasatura era di tuo gradimento, solo dopo aver visionato il risultato finale e solo se questo era da te ritenuto soddisfacente, sfilavi la spina, riavvolgevi il filo attorno al rasoio e lo risistemavi nella sua custodia. Poi prendevi l’asciugamano di lino bianco e te lo passavi sul viso, non dopo averlo sciacquato con abbondante acqua fresca. Ricordi, nonno, quante volte, da bambina, ti ho chiesto di assistere a questo rito? Tu non sapevi dire di no, anche perchéti assicuravo che sarei stata lì, buona e senza proferire parola… e così appoggiavo il capo reclino sull’anta aperta e ti ammiravo. Sentivo la leggiadria di quei gesti, percepivo la leggerezza di quelle lame, il lieve suono del rasoio elettrico, la mobilità del tuo sguardo attento, il tuo specchiarti fiero. E stavo lì a pensare a quanto ti amavo, a quanto eri importante per me, a quanto la tua presenza fosse così forte nella mia esistenza quotidiana.

58° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto tu fremevi, nonno, e stavi tentando di farci capire che volevi metterti a letto, nel tuo letto, stavolta. La difficoltà maggiore fu quella di superare la barriera dei gradini che dal cancello portavano sopra casa.

10 gradini, erano solo 10 gradini, erano gli stessi che avevi, con leggerezza e gioia, salito e disceso tante volte per recarti giù in cantina e poi per passare da lì alla veranda, erano gli stessi sui quali mi piaceva sedermi ad ammirarti mentre facevi il vino, ed erano gli stessi che avrebbero rappresentato per noi una personalissima, dolorosissima versione della salita al Golgota.

Sai, nonno, ricordo ancora quel tuo sorriso, appena accennato, che mi regalasti quando ti accorgesti che finalmente avevi varcato la soglia di casa ed eri lì, finalmente, nel tuo corridoio, con le poltroncine ed i quadri che avevi personalmente scelto ed acquistato, sistemato ed appeso a quella stanza dai soffitti alti. La promessa era stata mantenuta, e tu avevi avuto la tenacia, la forza, la determinazione necessaria per resistere in quella stanza d’ospedale, pur di rivedere la casa per l’ultima volta. Poi ti sistemammo sul letto e solo allora tirasti un gran sospiro e, regalando ad ognuno dei presenti un lieve sorriso, dicesti a stento: “Stavo in prigione ma ora, per fortuna, è tutto finito”.

Non c’era tempo da far passare infruttuosamente, era necessario chiamare un’infermiera per organizzare tutto il lavoro che la presenza di un malato grave in casa richiedeva. Lei arrivò subito e ci consegnò una lista di tutto l’occorrente da acquistare.

Mi avvicinai e, forse per smorzare la tensione delle ore precedenti, cominciai a parlarle e le chiesi se ti conosceva, se mai ti aveva visto per le strade della città, con la tua bicicletta, con la nonna sottobraccio. Era un modo, questo, per farle comprendere che tu eri stato forte, bello, coraggioso, che la tua vita passata nulla aveva da spartire con un presente fatto di dolore, di sofferenza, di stanchezza, di immobilità.

L’infermiera mi rispose di sì… sì, nonno, anche questa donna bionda che stava prendendosi cura di te ti conosceva, e soprattutto, ti aveva conosciuto nel tuo massimo splendore e questo mi rincuorò non poco. Eri bello, nonno, eri figlio dell’amore e della sofferenza, di un sorriso e di un rimbrotto, della guerra e della speranza, della solitudine e della gioia nello stare insieme con la tua famiglia. Solo chi riesce a condensare tutto ciò e ad amalgamarlo con la passione per la vita, è in grado di trasmettere fascino e bellezza, come tu sapevi fare, nonno.

57° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” Romanzo

Non sarei più andata via, nonno, e non sono andata via, infatti, quel giorno fuori dall’ospedale, con la valigia da sistemare nel portabagagli mentre tu, sulla sedia a rotelle, aspettavi che ti mettessimo sull’auto, nel posto vicino al guidatore. Intanto dal cielo stava scendendo una fastidiosissima pioggerellina che fece diventare quel momento ancora più triste di quanto già non lo fosse.

Dunque, tu eri sulla sedia a rotelle, sfuggivi gli sguardi degli altri ma cercavi, con dei rapidi gesti delle mano di incitarci a far presto, perché era necessario lasciare quello spiazzale dell’ospedale e ritornare a casa.

Non parlavi quasi neanche più e le poche parole che riuscivi a pronunciare, apparivano pesanti, appannate, cavernose. Nulla sembrava essere rimasto del tuo timbro sonoro e sicuro, suadente ed elegante che riempiva ormai solo i nostri ricordi.

Lo zio salì al tuo fianco e partì, così come facemmo io e la mamma che prontamente vi seguimmo con l’auto. Vidi per tutto il breve tragitto che ti avrebbe riportato a casa, la tua testa reclina che sembrava non riuscire neanche più a stare ritta sul collo.

Non parlasti durante il viaggio, non dicesti una parola, né davanti la caserma, né davanti la chiesa, né quando arrivammo a casa dove la nonna ci aspettava, affacciata al balcone.

Appena riconobbe le nostre auto girare l’angolo, si precipitò in strada e senza nemmeno salutarti mi afferrò per un braccio e cominciò a piangere, a straziarsi, a chiedermi come avrebbe potuto mai fare senza di te, come sarebbe stata la sua vita, se mai avesse avuto un senso continuare. Io la rimproverai dolcemente per quelle parole crude, vere ma crude, e le dissi che eri tornato a casa e quello era l’importante. Ora avremmo dovuto unire le nostre forze, concentrare i nostri sforzi per rendere lieti e sereni gli ultimi giorni di una vita così piena e ricca d’amore come era stata la tua, nonno.

La pioggerellina che ci aveva accolti appena fuori l’ospedale era divenuta, intanto, lungo il mesto tragitto, più insistente e cadeva sulle nostre spalle, sul vestito della nonna, sulla valigia che avevo sistemato fuori il cancello, sul tuo pigiama a righe. La natura intera sembrò piangere quel giorno, davanti a quel tristissimo spettacolo, persino i gatti in giardino si fermarono nel loro allegro rincorrersi e si misero a guardarti con la testolina fuori dai riccioli di ferro battuto del balcone di casa.

56° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Arrivai in ospedale, entrai nella tua stanza, io presi la tua valigia mentre la mamma era andata a parlare con i medici per le ultime istruzioni da seguire una volta giunti a casa. Io ti strinsi la mano, tu stringesti la mia e poi…e poi piangemmo tutti e due, solo un po’, giusto il tempo per capire che sapevamo ormai entrambi che ci saremmo dovuti salutare per sempre, non ci sarebbero stati buonanotte ed arrivederci, ma solo un addio.

Durò poco il pianto perché era inutile sprecare forze ma necessario, invece, era il convogliarle tutte verso un unico scopo: tornare a casa. Intanto, attorno al tuo letto arrivarono gli altri degenti che ti avevano coccolato con lo sguardo, controllato di notte se il tuo respiro era regolare, o avvertito i medici se qualcosa non andava.

Furono tutti molto solidali con te, partecipi della tua sofferenza, avviliti che una mente così brillante, un animo così grande fosse costretto ad abbandonare per sempre questo mondo.

Tutto era pronto per l’uscita: avremmo potuto trasportarti in ambulanza, ma tu al solo sentire quel nome ti agitasti: desideravi invece regalarti un ultimo viaggio in macchina, saresti passato ancora una volta davanti a quella caserma che serbava i ricordi di una vita lavorativa, saresti sceso lungo quella strada che percorresti per tanti anni con la tua bicicletta… agile, veloce ma soprattutto libero. Innanzi a questa tua ultima richiesta, la mamma si precipitò ad avvertire lo zio che, trafelato, arrivò prestissimo.

Noi lo aspettammo fuori il reparto e lo informammo di tutto, lui con gli occhi velati di lacrime disse che era un atto dovuto l’esaudire questo tuo desiderio, anche se ci sarebbero stati notevoli problemi per il trasporto. ù

Fosti subito messo su di una sedia a rotelle e dopo aver salutato tutti con un gesto della mano, chiedesti la tua valigia, volevi tenerla in seno, trattenerla con le mani sulle ginocchia ma anche quel semplice gesto sembrava essere diventato impossibile. La lasciasti cadere per terra, io la raccolsi mentre vi dirigeste verso l’ascensore.

Le pesanti porte color carta da zucchero si chiusero dietro la tua sedia a rotelle, ad annunciarci che di lì a poco avresti portato con te tutti ricordi, tutte le gioie, tutti i dolori, tutte le speranze di una vita vissuta come credevi che fosse giusto viverla: nell’amore.

E quanto ne hai regalato, nonno, elargendolo a piene mani: ogni tuo semplice gesto, ogni tuo sguardo, ogni tuo sorriso, persino ogni rimprovero, trasudava d’amore. Non c’è gesto da te compiuto che non sia stato carico d’amore, né una parola, né un pensiero. Il tuo amore, nonno, era nella fetta di pane tagliata accostando la pagnotta cotta a legna al tuo ventre, era nel piatto di pasta e ceci che ci porgevi a tavola, era nella bottiglia di vino che regalavi alla mamma, era nell’aprirmi l’ombrello fuori dalla scuola, era nel venirmi incontro per le scale per aiutarmi a portare su la spesa, era nei pomodori che ci offrivi di ritorno dalla campagna, era in una pagina di un libro letto assieme nello studio, era nei compiti di latino che mi correggevi, era in uno sguardo severo di rimprovero, era in quel tuo gesto della buonanotte che ci regalavamo ogni sera. Ma era anche in quel tuo andare via sulla sedia a rotelle quando, poco prima che ti sistemassero su di essa, mi dicesti che mi sarei potuta allontanare da te, se non riuscivo a sopportare quella scena, nonostante tu avessi voluto fortemente che rimanessi accanto a te. Ma io rimasi lì, nonno…rimasi con il cuore straziato, con le lacrime che appannavano i miei occhi…rimasi perché non volevo perdere neanche un istante di te.

55° Puntata del Romanzo Arri Arri Cavalluccio di Alessandra Fiorilli

La notte non passò mai, ti confesso, nonno, che quella è stata l’unica notte in cui non ho realmente chiuso occhio. Sono rimasta distesa, immobile sul letto, con l’orologio sul comodino in attesa che arrivassero le otto del mattino.

Non pensavo più ormai che dopo qualche giorno saresti morto, quello che contava era di portarti cosciente a casa.

Non pensai a come sarebbe stata la mia vita senza di te, alle stanze senza i tuoi passi, alle feste con la tua sedia vuota, ai tuoi sandali di cuoio riposti tra le altre scarpe, ai tuoi vestiti che non avrebbero più fatto compagnia alle tue giornate, ai tuoi libri, alle tue piante, alle tue cesoie, ai tuoi guanti da giardino, ai tuoi cappelli, alla tua presenza che non avrebbe più colmato le nostre esistenze. Tutte le mie forze erano ormai concentrate sul mattino successivo che fu più difficile da gestire di quanto potessi credere.

Arrivò l’alba di quel giorno, e non potei trattenermi dallo spalancare le finestre appena la prima luce del sole entrò tra le imposte della mia finestra. In 28 anni, nonno, non ho mai osservato il sorgere del sole come quel tuo ultimo mattino in ospedale. Non avevo mai avuto occasione di svegliarmi così presto, solo le volte in cui dovevo sostenere un esame all’università, ma in quei momenti ero tesa e non avevo il tempo sufficiente per ammirare attorno a me quello che succedeva alla natura al suo primo risvegliarsi dopo la notte.

Ma quel mattino…quel mattino decisi di vedere con attenzione quello che avevi visto tu per quasi 80 anni: gli uccellini cinguettavano allegramente passando da un ramo all’altro degli alberi del giardino, si rincorrevano, svolazzavano, poi scendevano in terra e andavano a rubare qualche mollica di pane fuggita via da qualche tovaglia scossa, le foglie brillavano di rugiada, il prato era leggermente bagnato, i gatti acciambellati gli uni sugli altri, le strade deserte.

Era come mi avevi sempre detto tu, nonno: gli unici suoni delle prime ore del mattino ce li regala solo la natura, l’aria è fresca, si posa delicatamente sulla pelle scoperta e pensando alle ore successive, al caldo soffocante, allo smog, al vociare delle persone, vorremmo rimanere lì, a goderci lo spettacolo della natura. Quel mattino ti sentii forte dentro di me, e quelle stesse cose che tu amavi tanto fare, già le stavo facendo io per te, attraverso te, grazie a te e a quello che mi avevi insegnato nei nostri 28 anni di vita vissuta assieme.

Lo spettacolo del volo degli uccelli, della rugiada sulle foglie e sul prato, stava continuando a far bella mostra di sé nel nostro giardino ed io avvertii quasi che le tue piante, gli alberi mi incitavano ad andare, a correre da te, perché saresti uscito dall’ospedale: la lunga prigionia, come la chiamasti poi tu, era finita e con essa la mia speranza di salvarti e di tenerti ancora un po’ con me.

Gli ignari uccellini continuarono a volare da un ramo all’altro, di lì a poco il rumore sarebbe tornato con le auto, le persone che si apprestavano a recarsi al lavoro: tutto sarebbe stato come sempre, ma non per me. Mi vestii, non di fretta, ma accuratamente, evitando di indossare i colori che non ti piaceva vedermi addosso, vivacizzai i ricci con la gelatina, misi gli orecchini, e presi la borsa. Ero talmente triste, infelice, addolorata, straziata, avvilita, che mi sembrò di star bene e mi apparvero del tutto normali quelle azioni compiute con leggerezza, come se fossi dovuta uscire per una passeggiata. Invece stavo venendo da te, così impaziente di andar via da quelle corsie, così impaziente di tornare nella tua casa.