54° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

E fu così che arrivò il giorno delle tue dimissioni e con esso il tramonto di ogni nostra speranza, nonno. Fui io a comunicarti, una sera, che il giorno dopo saresti tornato nella tua casa e tu, con voce appannata, mi chiedesti di prepararti la valigia.

Ti risposi che mancavano più di dodici ore alle tue dimissioni, ma dovetti piegarmi davanti alla tua insistenza. Ti comportasti come un bambino, nonno, quella volta, credevi che solo se avessi tirato fuori la valigia portandola dall’armadietto, sistemandola poi vicino al letto, saresti uscito. Fu l’unica occasione in cui mi sentii più grande di te, e fu una sensazione che non mi piacque affatto perché eri tu la sola persona della famiglia che poteva riprenderci, segnalarci un errore, spronarci a fare del nostro meglio… tu, sempre e solo tu, come era avvenuto in tutti quegli anni.

Dovevo andare via, l’infermiera ci stava avvisando che l’orario delle visite era terminato ma tu non volevi lasciare andare la mia mano, perché eri impaziente di abbandonare quel letto d’ospedale, forse avresti voluto farlo quella sera stessa ma ciò non era possibile.

Ci salutammo nel nostro modo, tra le lacrime di un’intera corsia che si era commossa davanti alla nostra storia così speciale, a quel legame d’amore fortissimo e viscerale, a quel nonno che sembrava un padre, nei modi di fare e di guardare, a quella nipote che sembrava una figlia nel modo di piangere ma anche di risollevarsi da terra per infonderti coraggio, quando ormai non ce n’era più a sufficienza.

Dunque io ti salutai con la mano augurandoti: “ Buonanotte nonno”.

Tu portasti alla bocca la mano sinistra, due sole dita della mano sinistra, l’indice ed il medio, per lanciarmi il bacio dell’arrivederci. Io poi ti voltai le spalle e mentre correvo giù per le scale per fare più in fretta possibile, per far correre di più il tempo, in modo che venisse subito l’indomani mattina, pregai affinché quell’arrivederci fosse realmente tale, sperai che la notte non lo avrebbe trasformato in un addio.

53° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La giornata mia e della mamma iniziava presto al mattino, per venire a darti la colazione in ospedale e finiva tardi… poi c’era la notte, che sembrava pesare come un macigno, che sembrava interminabile, angosciante, carica di presagi perché avevamo il timore che proprio all’alba arrivasse quella telefonata dall’ospedale.

Una sera, uscii fuori il balcone del piano superiore: del vento passò tra le chiome folte e verdissime dei pini, allora chiusi gli occhi e mi feci coccolare da quel fruscio inconfondibile che tanto piaceva assaporare anche a te, nonno. In quell’ondeggiare di fronde rividi i nostri ricordi più belli, i momenti trascorsi a parlare di storia nel corridoio, le nostre risate.

All’improvviso mi ricordai di quell’altalena che avevi ingegnosamente fissato sul balcone di casa. Ricordi, nonno, come la chiamavo io l’altalena? Si, proprio così: pittatata. L’avevo coniata così quella corda gialla intrecciata e fissata con due ganci ad un segmento di ferro e con il pianale di legno chiaro. Quel nome strano, pittatata appunto, da piccola mi evocava libertà, vento che accarezzava i capelli, gioia nello stare lì, in quella casa, in quel giardino, su quel balcone, vicino a te. Tentasti varie volte di correggermi, di insegnarmi che quella si chiamava altalena, scandendo bene ogni singola sillaba ma poi demordesti anche tu di fronte alla mia ostinazione di chiamarla così, a modo mio.

Adoravo da piccola coniare nuovi termini, tanto che tu eri diventato nonno Maccano e non Pasquale, una macchina uguale alla tua era agaca agaca a Maccano, ovvero uguale uguale a Pasquale, io ero Iaia, ma la mia fantasia toccò l’apice quando personalizzai la pubblicità di un famoso detersivo in grado di regalare un bianco imbattibile: Mattuenno paito, ovvero due parole strampalate che significavano il massimo grado del pulito.

Ricordo ancora le innumerevoli volte in cui tu, nonno, seduto sulla sedia della cucina, poggiavi una mano sulla fronte e cominciavi, con carta e penna, a scomporre quelle frasi coniate da me per tentare di capire da dove potessero scaturire. Allora scomponevi pazientemente la parola esatta e quella creata da me, le avvicinavi, ci riflettevi un po’ su e poi desistevi dal tentativo, perché io ero troppo testarda ed orgogliosa di quella lingua tutta mia che nessuno riusciva né a parlare né a capire.

52° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Prima di andar via da quella stanza, nonno, mi dicesti: “Portami tu qualcosa… delle piccole scaglie di parmigiano, un uovo alla coque… vieni tu all’ora di pranzo per aiutarmi a mangiare.”

E così capii, da queste parole, che non avrei potuto mai mollare, che sarei dovuta essere forte, non tanto per me, quanto per te, che chiedevi insistentemente la mia presenza in quella stanza d’ospedale.

Il giorno successivo, come promesso, venni da te con la mamma: avevamo il permesso di entrare al di fuori dell’orario di visita perché le tue condizioni di salute richiedevano che ci fosse qualcuno negli orari di pranzo e cena per aiutarti a mangiare.

E fu così che ti porgemmo delle minuscole scaglie di parmigiano e tu le prendesti dalle nostre mani come fanno i bambini…in quell’istante gli altri degenti ci osservarono con un misto di tenerezza ed ammirazione, fino a quando il tuo vicino di letto mi disse che eri un uomo fortunato, perché avevi due figlie amorevoli ed affezionate come me e la mamma.

Io gli risposi che non ero tua figlia ma tua nipote e l’uomo di rimbalzo non si perse in giri di parole: “Tu lo ami come un padre e lui ti considera una figlia. E questo è tutto”.

E questo era proprio tutto, nonno, per noi che continuavamo a sperare e per te che, non potendoti più da alzare dal letto, ci aspettavi, chiedevi l’ora agli infermieri e pregavi il tuo vicino di letto di andarsi ad affacciare fuori dal reparto per vedere se arrivavamo. Era giugno, nonno, o almeno così diceva il calendario ma nei nostri cuori non era arrivata l’estate, la nostra estate quell’anno per noi non giunse mai.

51° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Per uno assurdo scherzo del destino, nonno, anche questa volta eri nascosto alla mia vista, essendo il tuo letto proprio quello dietro la porta, ma non mi feci bloccare dai miei timori e dalle mie paure: entrai spavalda, sicura di farcela. Entrai, dunque, salutai i tuoi compagni di stanza, passai in rassegna, con una rapida occhiata i loro volti, e poi poggiai gli occhi su di te: anche quella volta ebbi la sensazione di scappare codardamente, ma riuscii a mantenere la promessa di non fuggire più via davanti alla realtà seppur dolorosa.

Ma non fui io a darmi il coraggio sufficiente a rimanere vicino a te quanto te, nonno, perché riconoscesti la mia voce mentre stavo parlando con la mamma, apristi gli occhi, nei quali si potevano ancora ammirare quelle pagliuzze dorate, e con un gesto dolcissimo del braccio mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi. Il desiderio di parlare con me ti diede persino la forza di dire : “ Bella bambina, vieni qua” e mi indicasti il posto del tuo letto dove mi sarei dovuta sedere. Ora eri lì, e mi chiedesti di voler andare via perché…perché sapevi ormai non c’era più salvezza per te, lo sapevamo entrambi, l’avevano capito già da Natale quando non lo celebrammo con il tradizionale cenone ma con il pranzo, trovammo conferma di ciò nei mesi successivi, nella stanchezza di quel carnevale, in quella Pasqua senza la visita ai Sepolcri, in quel 1° maggio, in quel tuo onomastico. Allora mi invitasti a prelevare dal tuo armadietto di ferro la piccola valigia di pelle color nocciola, i tuoi sandali di cuoio, in modo da poter andar via subito da quell’ospedale, senza attendere un minuto di più. Io esaudii le tue richieste e presi i tuoi sandali di cuoio e li posizionai ai piedi del letto.

Tu li guardasti amorevolmente, e tentasti così, di muovere le gambe, di buttarle fuori dal letto e di calzarli, ma non riuscisti a fare nulla di tutto ciò.

Tu non ti scomponesti, non dicesti nulla, perché oramai sapevi… sapevi che non ci sarebbe stata per noi un’altra estate, un’altra vendemmia, un altro ottobre con le castagne, un altro Natale. Rimanesti immobile nel letto e mi invitasti a riporre nell’armadietto i tuoi sandali di cuoio.

Li presi e li posizionai vicino a quella valigetta che tante volte avevo preso alla stazione quando, di ritorno da un viaggio, sempre molto breve, venivamo a prendervi con la macchina. La tua meta preferita era Padova con la Basilica del Santo… ricordi, nonno, i frati ti inviavano sempre la rivista curata e diretta da loro, il calendario all’inizio dell’anno e tu rispondevi sempre con tanta generosità ai loro appelli.

Non amavi molto Venezia ma eri affascinato da Verona che tu pronunciavi con la o molto aperta.

Ti piaceva viaggiare, vedere, conoscere, camminare, farti abbagliare da una bellezza naturale e commuovere da un dipinto, ma più di tutto amavi il tuo giardino, i vialetti con gli arbusti, la tua casa…quella stessa casa dove volevi tornare.

50° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna e la mamma mi stavano aspettando fuori da quella minuscola cappella con le panche scure, dove io mi rifugiai per espiare la colpa di non essermi avvicinata a te. La mamma poi mi disse di aver compreso appieno il mio tormento, l’angoscia di quella mattina, quel rimorso così forte da togliere il fiato, quel senso di smarrimento che avevo provato davanti a te, nonno. Parlammo proprio di questa mia inaspettata reazione una volta tornate a casa, la mamma mi disse che avremmo dovuto farci forza vicendevolmente, che era necessario superare quell’angosciante barriera del dolore perché solo così saremmo potute stare vicino a te sino all’ultimo. Se mai ci fossimo fatte trascinare dalla corrente della paura e della disperazione, chi si sarebbe preso cura di te, chi ti avrebbe dato il buongiorno al mattino, nel freddo di una corsia d’ospedale, chi ti avrebbe aiutato a mangiare all’ora di pranzo e alla sera, chi avrebbe parlato con i medici, chi avrebbe potuto confortarti del fatto che stavi in ospedale ma che avevano la ferma intenzione di colmare ogni attimo, ogni istante con la nostra amorevole presenza?
Era proprio così, proprio come mi aveva detto la mamma che diventò forte come lo eri stato tu, nonno.
Quelle ore che mi separarono da te furono interminabili e le vissi con dolorosa angoscia. A pranzo non riuscii a mangiare nulla e alle due e un quarto ero già fuori la porta del reparto. L’attesa la colmai recandomi nella cappella dell’ospedale, feci così per tutte le tre settimane del tuo ricovero perché mi sembrava che quella preghiera fatta in ginocchio davanti al Cristo sofferente sulla croce e con il capo reclino, riuscisse a darmi un po’ di sollievo e di coraggio, lo stesso che avrei dovuto infonderti durante i nostri numerosi incontri in corsia. Poi la porta del reparto si spalancò ai visitatori ed io fui la prima ad entrare, mi diressi forte e sicura verso il tuo letto ma con grande inquietudine vidi che non c’eri più, le lenzuola erano state tirate via dal materasso ma sul cuscino c’era ancora la forma della testa…chiesi, con un tono disperato della voce, dove fossi e l’infermiera mi disse che ti avevano trasferito in un altro reparto. Giunte davanti alla porta dai vetri sabbiati, il cuore quasi non lo sentivo più, le tempie stavano battendo come tamburi, la fronte era madida di sudore ma il ricordo della vigliaccata del mattino stesso mi impedì di tentennare sull’uscio dell’entrata. La tua stanza era l’ultima sulla destra, quella di fronte alla saletta dove si riunivano i medici, gli stessi medici che tentarono di regalare a te qualche istante di vita in più, e a noi la sensazione che, fino a quando fosti stato ancora in vita, tu rimanevi la nostra luce, nonostante il buio attorno a te e la nostra forza, nonostante la tua estrema debolezza fisica. Sentii il rumore dei miei passi rimbombare sin dentro le meningi e tutto quello che era intorno appariva essere avvolto in una irrealtà fatta di camici bianchi, di tute verdi, di zoccoli di legno, di ciabatte di plastica colorata, di odore di alcool e di disinfettante, di rumori metallici, di macchinari con lunghi tubi, mentre fuori di lì, al di là di quelle finestre era giugno, il mese che più amavano entrambi perché segnava il preludio dell’estate, delle nostre estati da trascorrere fuori in veranda, al mare, o in campagna a raccogliere la frutta estiva così gustosa e dolce. Mentre davanti agli occhi mi passarono, come in un caleidoscopio, tutte le immagini di me e di te, seduti in giardino o ad innaffiare le piante di pomodoro, mi accorsi di essere arrivata a destinazione: ecco l’ultima stanzetta a destra, dove ti trovavi tu, nonno.

49° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna fu la più coraggiosa di tutte e tre… la mamma ed io potemmo capire dalla sua reazione in quali condizioni versavi. La borsa di pelle color cuoio, a bauletto e con i manici rigidi, le scivolò in terra, si portò le mani al viso e poi si coprì gli occhi mentre copiose lacrime le bagnarono le guance, scendendo sin sotto al mento.

Compresi, così, davanti a quella scena di profonda angoscia, che non ci sarebbe stata più vita da vivere con te accanto. Anche la mamma quando ti vide trattenne a stento le lacrime ed io… io ero ancora lì, dietro l’angolo, potevo scorgere la nonna e la mamma ma non te, non ti avrei voluto vedere in quel letto che non era il tuo, ma la mamma mi trascinò vicino a sé e così ti vidi anch’io.

Ti vidi anch’io…poi i tuoi occhi si spalancarono all’improvviso e con un gesto della mano tentasti di chiedere dell’acqua, limitandoti, però, ad indicare solo il bicchiere sul comodino: fu la mamma che esaudì la tua richiesta. Scusami nonno, ma non accettai l’idea che quella persona attaccata per un millimetro solo alla vita eri proprio tu, il mio consigliere, il mio maestro, la mia fonte di forza e di coraggio, la mia enciclopedia vivente, la mia stella polare, il mio vanto, il mio orgoglio, il geloso custode dell’immenso amore che ancora oggi nutro per te. Credo che la mia inaspettata reazione, quel mattino in ospedale, rimanga il mio peccato più grande. Dunque io stetti lì, in piedi, a debita distanza dal tuo letto e proprio nell’istante in cui la mamma si chinò su di te, l’infermiera ci pregò di uscire dal reparto.

La nonna ti baciò sulla guancia, la mamma strinse le tue mani tra le sue ed io non ti salutai neanche. Proprio mentre le nostre gambe ci stavano portando via da te, e noi eravamo seguite a ruota dall’infermiera, io ebbi un impeto di disprezzo verso me stessa e mi chiesi che cosa avessi fatto e pensato mai, quanto grande sarebbe stato il mio rimorso se tu fosti morto di lì a poco, senza un mio sorriso, un mio bacio, una mia stretta di mano, un mio abbraccio.

In cosa mi stava trasformando la sofferenza? Cosa mai significava quel senso di estraneità che provai davanti al tuo letto? Tu eri sempre tu, il mio grande nonno ed io ero sempre io, tua nipote, la tua bella bambina. Nulla avrebbe potuto spazzare via quei meravigliosi 28 anni trascorsi al tuo fianco. Ebbi l’impeto di girarmi, di invertire il mio percorso e di correre verso di te, per chiederti scusa per la mia vigliaccheria, per il mio egoismo, per abbracciarti e stringermi a te, ma non mi fu possibile perché la nostra presenza in quella corsia, a quell’ora, era incompatibile con il lavoro degli operatori sanitari.

Implorai di poter tornare da te, ma nessuno riuscì ad esaudire la mia richiesta.

Mi rimase solo una cosa da fare: recarmi in gran fretta nella cappella dell’ospedale, inginocchiarmi e pregare Dio affinché avessi un’altra opportunità, una sola, per poterti vedere il pomeriggio stesso e dirti che non era cambiato nulla, che né la malattia né la morte avrebbero potuto trasformare quel nostro rapporto così speciale in qualcosa di superficiale, di intercambiabile, di scontato.

48° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Alle otto del mattino successivo la nonna, la mamma ed io eravamo già in ospedale, alla disperata ricerca di qualcuno che potesse darci notizie sul tuo stato di salute.

Qualcuno si limitò ad indicarci il piano dove ti trovavi, non una parola di più, e noi tre, non un battito di ciglia in più, ci dirigemmo come forsennate verso di te. Io ero avanti di una rampa di scale la mamma e la nonna, addolorata e stretta in quel suo vestito di seta a fiori, ma dovetti attenderle proprio fuori dal reparto dove eri ricoverato perché non ce l’avrei fatta mai ad entrare da sola e vederti steso tra anonime lenzuola.

Ed infatti lì, affannata, madida di sudore, le mani che tremavano dal nervosismo, le gambe che quasi non sentivo più, stetti fuori da quella grande porta con i vetri smerigliati che indicava l’ingresso del reparto.

Tentai anche di appoggiare la mano su quella maniglia fredda, volevo bussare, chiedere di poterti vedere, ma e non lo feci e sbagliai, perché in quel frangente avrei dovuto essere io la più forte, non la nonna ormai piegata a metà dal peso di un’assenza di in solo giorno, non la mamma che in tutta la sua vita aveva pensato a te come ad un dio, capace di vincere persino sulla morte, la stessa che mi sembrò di vedere seduta al tuo fianco su quella seggiola con l’anima in ferro e dallo schienale di plastica color verde acqua che vidi, quando l’infermiera di turno ci accompagnò da te.

Non fui io a bussare alla porta, non fui io la prima persona ad affacciarsi in corsia per vedere che aspetto avevi, non fui io a parlare con il medico, non fui io a fare coraggio alla nonna e alla mamma, non fui io a prenderti la mano quando tu ci cercasti con gli occhi, non fui io a porgerti il bicchiere d’acqua che ci indicasti, appena entrate in corsia.

Non feci niente di tutto questo ed ancora oggi ne provo vergogna. Mi limitai a volgere lo sguardo verso la rampa di scale per vedere se arrivavano la nonna e la mamma e spronai quest’ultima, con coraggiosa paura, a bussare e a chiedere di te. Non era orario di visita ma all’accettazione un medico che sapeva del tuo arrivo in ospedale, il giorno precedente, ci aveva invitato ad entrare in reparto per cercarti e chiedere ulteriori informazioni sul tuo conto. Un’ infermiera aprì la porta quel tanto per poter accertarsi chi fosse fuori e poi ci fece strada scusandosi altresì per il disordine che c’era in quel reparto, disordine causato dal fatto che quelle stanze stavano ospitando solo temporaneamente i letti di quel reparto perché altrove erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Allora pensai a come fosse tutto transitorio in quel momento.

Mi sembrò di far parte in quel preciso istante, di un gioco sinistro nel quale tutto sembrava attendere una sistemazione definitiva cosicché tutto quello che era presente diventava ancor più velocemente passato, ed il futuro appariva così più vicino.

Percepii me stessa, la mamma, la nonna, ormai scioltasi in un pianto dirotto, come nipote, figlia e moglie solo temporaneamente, lo saremmo state ancora per poco, qualche settimana ancora e tu non ci saresti stato più, non avremmo più potuto pronunciare quelle parole che amavamo tanto: nonno, papà, Pasqualino. Ricordi, la nonna amava chiamarti così, tu non lo disdegnavi quel diminutivo perché così ti aveva chiamato tua madre e così si era rivolta a te la nonna in 50 anni di matrimonio, specie nei momenti di tenerezza. Mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente talmente velocemente da farmi mancare le forze, l’infermiera ci fece segno con il braccio teso che ti avremmo potuto trovare lì, dietro l’angolo, nel primo lettino a destra, vicino alla finestra. Cosa c’era dietro quell’angolo di un muro dipinto in fretta di bianco?

47° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mamma, nello stesso momento in cui mi stavo crogiolando nella piega di un dolore mai provato sino ad allora, stava offrendo un bicchiere d’acqua fresca alla nonna, tremante ed in lacrime.

Quel modo della mamma di porgere il bicchiere alla nonna, ti fece rivivere per un breve istante in quella cucina: tu non c’eri in quella casa eppure non solo tutto parlava di te ma anche un semplice gesto portava impressa una tua abitudine, una tua consuetudine.

Tu eri ancora vivo, nonno, ma quella casa ti stava piangendo come se già non lo fossi più. Erano trascorsi appena dieci minuti da quel suono della sirena dell’ambulanza, erano solo dieci minuti che non ti vedevamo e già ci sembrava di impazzire. Ci recammo in ospedale e qui aspettammo per un tempo che sembrò lunghissimo… poi una porta si spalancò, si spalancò sulle nostre paure, sulla nostra disperazione. Ci chiesero se eravamo noi i tuoi congiunti.

Ti confesso, nonno, che il tuo cognome, da tutti e da sempre pronunciato con rispetto ed ammirazione, sembrava risuonare, in quelle tristi stanze di un ospedale, come un qualcosa di vuoto, senza significato, cinque sillabe legate tra loro che celavano dietro di sé tutta la gloriosa storia dei tuoi antenati. Il bollettino medico che scaturì da quella visita non sembrava aver risolto molto degli iniziali dubbi, poiché il quadro generale era molto nebuloso ma un ricovero era quanto mai necessario.

Tutto finì lì quel pomeriggio di giugno, non ci fu concesso il vederti. Nonostante il consulto fosse finito già da qualche minuto, noi rimanemmo immobili, quasi inebetite da quelle parole che non avevano sciolto né i dubbi né le nostre lacrime, compresse nei nostri occhi, quasi a voler scacciare la realtà di una situazione che da sola avrebbe giustificato tutte le lacrime che un uomo può piangere nel corso della propria esistenza. In questo dolorosissimo limbo i nostri passi divennero pesanti, il respiro sembrava di piombo, fu una sensazione strana quella che provai di ritorno dall’ospedale, mi sentii, di colpo, come allinearmi a te, al tuo stato di salute, alla tua debolezza, alla tua difficoltà di tenere gli occhi aperti. Le nostre anime, compagne e complici, stavano collimando anche in quel momento di profondo dolore e mentre la nostra macchina passò proprio davanti alla caserma, dove avevi prestato servizio per così tanti anni, pensai alla forza dell’amore ma anche alla sua grande impotenza.

L’amore vince tutto e su tutto anche sulla morte, è vero, ma non sul momento che la precede: l’amore non può vincere sulla sofferenza, né sul decadimento fisico…qui l’amore deve abbassare il capo, anzi diventa una cassa d’amplificazione del dolore, perché più ami e più soffri nel vedere la persona, oggetto di così tanto amore, costretta a giacere in un letto. Avrei voluto piangere quel pomeriggio, di ritorno dall’ospedale ma non potevo farlo davanti alla nonna e alla mamma, avrei avuto bisogno di piangere perché tu eri in quel reparto d’ospedale senza le tue lenzuola, senza i tuoi sandali di cuoio, fedeli compagni di tante passeggiate, ma non era quello il momento di lasciarsi andare, perché le forze richiedevano di essere concertate e concentrate su di te che avevi bisogno di me, in quei tristi giorni, forse più di quanto io ne avessi di te.

46° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Spostammo tutti i mobili che potevano dare ingombro al passaggio e così scomparvero, all’improvviso, il tavolino con l’alzata verde che ospitava il telefono, le due poltroncine di pelle marrone, quelle di velluto della camera da letto.

Era così arrivata, nonno, l’ora nella quale nel quale gli oggetti a te più cari, i mobili più belli, le sedie più confortevoli, i tuoi sandali, erano diventati superflui, inutili.

Mi lasciai andare sulla sedia della veranda, profondamente sconfortata e scossa da questa amara considerazione: tutto non serviva più a niente. Gli operatori del 118 uscirono per il balcone…quello che provammo nel vederti andare via, nonno, era condensato sui nostri volti profondamente rattristati ed increduli, in quelle lacrime, in quei baci che ti stava lanciando la nonna dal balcone, in quel mio non far niente di fronte alla tua persona che stava entrando nell’ambulanza.

Dopo di te salirono gli operatori sanitari e via, allora, a sirene spiegate. Io rimasi immobile e ti seguii con lo sguardo fin dove mi fu possibile vedere quella vettura bianca ed arancione con quella luce azzurrognola che vi girava sopra. Tutto quello che fu d’ingombro al passaggio della lettiga l’avevamo accatastato in cucina e quando vidi i tuoi sandali di cuoio, li presi e li portai in camera da letto, posizionandoli dove erano sempre stati, vicino al tuo comodino, seminascosti sotto il letto, come a credere che bastasse la ripetizione di un semplice gesto a far tornare le cose come invece, non sarebbero state più. La stanza più triste e desolata era proprio la stanza da letto, il tuo materasso infossato, le lenzuola gettate all’aria, la coperta scivolata sino a terra, quasi a voler scomparire, a non voler assistere a quella scena straziante che si era consumata in quella stanza poco prima. Non c’erano solo i tuoi sandali a testimoniare la tua assenza, ma anche il tuo orologio con il cinturino d’acciaio che non era al tuo polso, il tuo mazzo di chiavi dietro la porta, la tua penna sul comodino, la tua borsa di pelle nera su quel poggiapiedi rivestito in seta damascata che avevi da sempre usato per poggiarci i tuoi libri, le tue riviste. Io ero lì, nella tua camera, per la prima volta in 28 anni, senza di te al mio fianco, io ero lì in quella casa, senza sentire la tua voce risuonare in quelle stanze, io ero lì, a chiedermi se quella stessa casa, quelle foto sul comò, quelle lenzuola di lino ricamate a mano, quei sandali di cuoio li avresti rivisti o ne avresti portato con te solo l’immagine di un ricordo.

45° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poco prima che le sirene dell’ambulanza squarciassero l’aria, mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi e di sedermi vicino a te, non sillabasti chiaramente le parole anzi, la tua bella voce stentorea sembrava soffocata, ma io riuscii, nonostante tutto, a ricomporre questo dolorosissimo puzzle di frasi a metà e capii che volevi avermi accanto, volevi vedermi. 

Poi, l’ultima tua richiesta, proprio mentre l’ambulanza stava voltando nella nostra via: “Non lasciarmi”.

Quante volte, nonno, ero stata io ad implorarti di restare ancora un po’ con me, nelle sere d’inverno quando, per non farmi prendere freddo, salivi tu da me per darmi la buonanotte. E così, incerta, piangente, addolorata, ero vicino a te, a stringerti le mano.

D’improvviso, sentimmo una sirena: era destinato a te quel suono sgradevole, lo stesso che avevamo sentito tante volte mentre eravamo comodamente seduti sul dondolo, mentre innaffiavamo le piante o mentre chiacchieravamo nello studio. E sempre ci chiedevamo, con il cuore stretto in una morsa, chi andasse a prelevare quell’ambulanza, in quale casa sarebbero entrati gli infermieri, chi avrebbero trovato a piangere, chi avrebbe lasciato la propria abitazione, senza neppure sapere se quella volta sarebbe stata l’ultima. Ma quel giorno di giugno, caldo, caldissimo, che faceva sciogliere quasi l’asfalto sulla strada, l’autoambulanza si sarebbe fermata sotto la nostra palazzina gialla, gli operatori del 118 sarebbero entrati dal grande cancello e saremmo state noi a piangere, a preoccuparci, a chiedere informazioni sul caso, a disperarci all’idea di saperti lontano da noi, mentre un interrogativo mi dilaniava l’anima: e se quella fosse stata l’ultima volta che vedevi la tua casa? Cosa avresti portato con te nell’aldilà? Forse l’immagine di noi due seduti sulle poltroncine di pelle marrone del corridoio, forse l’incantevole scenario di verde che si godeva dalla finestra della tua stanza da letto, forse il volto improvvisamente invecchiato della nonna, forse il mio viso da bambina che, mi dicevi spesso, ti appariva davanti agli occhi nei momenti di difficoltà? Mentre tutte queste idee affollavano la mente, affogandola in un mare senza risposte, l’ambulanza rallentò mentre si stava avvicinando a casa. E fu così che si fermò sotto la nostra palazzina, che normalmente a giugno era già pronta per l’estate, con il mattonato della veranda tirato a lucido, il dondolo con i morbidi cuscini colorati, l’ombrellone incastrato nella base di cemento, con le sdraio, con il braciere pronto ad accogliere le melanzane e quei saporitissimi peperoni della tua campagna. Invece quel giugno del 2001 iniziava tristemente così, con un’ambulanza che si fermava sotto il grande cancello di ferro battuto.