In questa Pasqua “sospesa” arrivano in aiuto i ricordi…

In questa Pasqua di abbracci vuoti di affetti e pieni di  distanze, di campanelli di casa muti, di notizie che ci incalzano con la loro drammaticità, ecco, proprio ora abbiamo bisogno di aggrapparci, con tutte le nostre forze, all’immagine di giorni felici, nella speranza, da far  diventare certezza, che tutto torni com’era prima dell’emergenza sanitaria.

In questa Pasqua così lenta, quasi “sospesa”, senza i piatti del servizio buono da sistemare sulla tavola, senza l’immancabile tovaglia bianca che ha un profondo valore simbolico, ancora più forte è la nostalgia…e stamane, allora, non le ho opposto resistenza e mi sono lasciata trascinare da essa.

Il Casatiello con tanto di uova (Foto per gentile concessione di Rosa Umili)

Eccomi: ho nove anni, scendo giù dai nonni e li trovo entrambi in cucina, sorridenti e amorevoli.

Li abbraccio forte, forte, forte e sembra così impossibile che possa arrivare un giorno in cui ci sia proibito farlo.

Nell’aria, i sapori della festa e, sul piatto grande di porcellana bianca, il casatiello della nonna è già lì, che ci attende, ci attende per abbracciarci con i suoi sapori che rimarranno impressi nel cuore.

Il Casatiello (Foto per gentile concessione di Maria Umili)

Il nonno sta già tirando fuori dalla vetrinetta del soggiorno il servizio dei giorni di festa, tra poco arriveranno tutti gli altri e saremo quello che si dice, “una bella tavolata” e sembra davvero incredibile che un giorno ci sia impedito di riunirci con parenti ed amici.

Il Casatiello è  lì, sembra mi chiami…la tentazione è forte, ma so che dovrà far bella figura di sé intatto, quando sarà portato a tavola.

Lo guardo con insistenza: quel colore dorato, quell’odore inebriante, e quel cuore morbido, saporito, umido che mi aspetta.

Sono la prima nipote, i nonni non riescono a dirmi di no e me ne tagliano una fetta…chiudo gli occhi e quasi mi commuovo.

Questa torta rustica, che la nonna prepara ogni Pasqua,è il simbolo di questa festa, delle tradizioni che i nonni hanno portato dalla loro terra casertana, di un rito ormai irrinunciabile per la nostra famiglia.

“Quando sarai grande ti dirò come prepararlo”, mi svela dolcemente la nonna.

Lei, che non ha la ricetta scritta, ma sa tutto a memoria, come sua madre, sua nonna, vuole insegnarmi un’arte a me sconosciuta.

Il Casatiello ornato da un ramoscello d’ulivo (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

So già che non sarò mai brava come la nonna ad impastare tutti gli ingredienti e poi…poi come farei a mangiarne una fetta senza di lei, senza i nonni?

Oggi quel Casatiello mi manca ancora di più, perché a colmare il vuoto di presenze così care, non ci saranno gli abbracci e i baci degli amici, la lunga tavola apparecchiata con cura, il servizio buono dei piatti, l’allegria di un giorno di festa che si preannuncia con il sole e con le temperature di una primavera inoltrata.

Ma a darmi forza torna sempre il ricordo del nonno, il quale, quando mi vedeva un po’ abbattuta mi diceva con il suo perfetto latino: “Sursum Corda”, ovvero, “In alto i cuori”.

E oggi, carissimi lettori di EmozionAmici, permettetemi di dirlo io a tutti voi, a tutti noi, a tutti gli Italiani divisi, separati, lontani, ma sorretti  da quella forza che ci ha ci sempre contraddistinto: “Sursum Corda”, dunque, e tanti affettuosi auguri di Buona Pasqua, carissimi lettori di EmozionAmici

                                                Alessandra Fiorilli

La Pigna di tarallo: la sua storia e il suo significato simbolico

Tipica della città di Caserta e della sua provincia, la Pigna di Tarallo è l’altro dolce simbolo, accanto alla Pastiera, della festività pasquale in terra campana.

Può essere considerata la sorella dell’altro immancabile protagonista della tavola di Pasqua, il tortano o casatiello: non  a caso, la Pigna è anche conosciuta con il nome di “casatiello dolce”.

Grande manualità ed esperienza, quella che viene richiesta per la preparazione della Pigna, il cui impasto dovrà essere senza grumi e soffice.

E’ un dolce che racchiude in sé una profonda simbologia, come quella che si cela dietro la durata richiesta per la lievitazione: 72 ore, proprio il tempo che va dalla morte di Gesù alla sua Resurrezione.

 Al suo interno nessuna farcitura, e questa sua peculiarità, sino alla prima metà del secolo scorso, significava avere la colazione garantita per i più piccoli almeno per una paio di settimane: con il passar dei giorni, il dolce, infatti,  induriva e questo lo rendeva ideale per inzupparne una fetta nel latte.

Quello che invece, migliorava, era l’aroma sprigionato: un misto di vanillina e di limone in grado di regalare al palato un trionfo di sapori.

Qualche curiosità sul nome:  sembra che derivi da “pignata”, un recipiente di coccio usato per la cottura dei fagioli, e la cui forma era proprio ricalcata da questo dolce pasquale.

Il secondo appellativo, “tarallo”, è legato, invece, alla consistenza, alquanto simile a quella  dei rustici pugliesi, che assume dopo qualche giorno dalla preparazione.

Solitamente è  ricoperto da una glassa bianca,  ma c’è chi lo preferisce senza glassatura per godere della vista delle “fresature”, ovvero  aperture che ricordano le crepe sui fianchi di un vulcano e che non sono delle imperfezioni, quanto piuttosto un effetto della crescita della Pigna stessa.

E con la storia di questo dolce tipico pasquale, la rivista EmozionAmici augura a tutti i suoi lettori una Serena Pasqua, nonostante il difficile periodo che stiamo vivendo.

Ce la faremo, distanti fisicamente ma vicinissimi nel cuore.

                                                                                   Alessandra Fiorilli

La Lasagna: non un piatto della Festa, ma la Festa stessa.

E’ il simbolo della Festa e della famiglia che prende posto intorno alla tavola imbandita.

E’ gioia, voglia di stare insieme, è felice condivisione di momenti.

E’ la regina della gastronomia italiana: è la lasagna.

La sua origine sembra affondare le radici in epoca romana, quando si preparava il “laganon”, una sottile sfoglia con farina di grano e cotta direttamente sul fuoco: non a caso l’altro termine, “lasanum”,  dal quale potrebbe derivare il nome attuale,   indicava  proprio il treppiede che si portava sul fuoco per cuocere i cibi.

Apicio parla di una “lagana” descrivendola come un insieme di sfoglie sottili di pasta che venivano, poi farcite con carne. Il piatto degli antichi romani differiva, però, dal nostro, in quanto non si presentava come quello che siamo soliti portare in tavola: somigliava, infatti, più ad un pasticcio di pasta farcita.

Il Medioevo è l’epoca d’oro della lasagna, non a caso viene menzionata in molte opere di scrittori: da Jacopone da Todi a Cecco Angiolieri.

L’epoca successiva, quella rinascimentale, vede nel nord Italia, in particolare nell’Emilia Romagna, l’aggiunta delle uova all’impasto e l’accurata preparazione della lasagna la ritroviamo in una ricetta del XIV secolo, dove si parla di : “Strati di pasta e formaggi alternati”.

L’aggiunta del pomodoro, però, avverrà solo intorno al 1660, quando la  famosa “salsa napoletana” regalerà alla lasagna quel tocco in più.

E’ della prima metà del XVII secolo una ricetta contenuta in un libro pubblicato proprio a Napoli, dove si legge di : “Lasagne stufate, condite con mozzarella e cacio e poi messe in forno”.

Tradizione vuole che uno dei più ghiotti in assoluto della lasagna fosse proprio un re di Napoli, Francesco II di  Borbone, al quale venne dato persino il nomignolo di “re lasagna”, per indicare quanto fosse forte la sua predilezione per questo piatto.

Ippolito Cavalcanti, noto cuoco napoletano, nel suo ricettario del 1837, descriverà minuziosamente questo piatto a base  di: “Strati di pasta intervallati da un sugo di carne, piccole polpette, fette di mozzarella o provola, formaggio grattugiato”: la lasagna che tutti conosciamo ed apprezziamo è già nata.

Sarà un evento storico importante, quello dell’Unità d’Italia, a far accendere l’interesse di molti, attorno a questo piatto che diventerà, per gli italiani, il simbolo della festa per eccellenza.

Eppure, quando nel 1891 è pubblicato il volume “La scienza in cucina” del notissimo Pellegrino Artusi, lo stesso gastronomo, non menziona, nella sua opera, la lasagna.

Le variazioni che vengono apportate alla ricetta base fanno trasparire l’importanza che alcuni ingredienti rivestono nella tradizione gastronomica delle regioni italiane: in Liguria, ad esempio, il ragù viene sostituito con il pesto, in Veneto si ha l’aggiunta del Radicchio rosso IGP, mentre nelle regioni adagiate sugli Appennini si preferisce infarcire la lasagna con i funghi porcini e il tartufo, mentre in Sicilia non mancheranno, nel ripieno, le melanzane.

Dal Nord al Sud della nostra penisola, dal mare alla montagna, le variazioni alla ricetta originaria nulla tolgono al significato che la lasagna riveste nella tradizione, e non solo gastronomica, italiana.

                                Alessandra Fiorilli

Mie amatissime Alpi, fate da eco al nostro grido “ANDRA’ TUTTO BENE”…

Mie amatissime Alpi,

è su di voi che ogni giorno il mio pensiero indugia con un velo di profonda nostalgia. I miei primi passi non sono stati mossi sui vostri prati,  perché, come ben sapete, sono nata in una cittadina sulla costa e credevo,  nella mia ingenuità di piccola bimba, che tutte le città avessero il proprio mare, quasi fosse un diritto “non scritto” della geografia.

Poi, grazie alla cartina geografica,  scoprii la variegata bellezza naturalistica della nostra Italia  e, più tardi, a scuola, la maestra parlò di voi come della  corona posta sulla testa della nostra meravigliosa nazione.

Piansi insieme ad Heidi, quando, la piccola protagonista del cartone animato fu portata a Francoforte, e da qui non riusciva a scorgere, nemmeno in lontananza, le sue amate montagne. La sua struggente nostalgia, oggi, in questi giorni di reclusione forzata, è anche la mia…e quando indugio sulle foto che mi ritraggono vicino a voi, mie carissime Alpi,   io a stento riesco a trattenere le lacrime, perché queste foto sembrano essere immagini di una vita così lontana…

 E così, per sentirmi più vicino a voi, vi immagino, giganti buoni solitari, senza turisti, senza il via vai delle cabinovie, e, ad occhi chiusi, percepisco il silenzio irreale che domina da voi, in questi giorni.

Allora m’immagino lì, al vostro cospetto,  apro le braccia e urlo a squarciagola: “ANDRA’ TUTTO BENE, ANDRA’ TUTTO BENE” e l’eco rimanda questo messaggio di speranza che attraversa, da nord a sud,  la nostra Italia.

Questo parole, però, a differenza dei primi giorni dell’epidemia, custodiscono in sé anche le lacrime per le decine di migliaia di nostri connazionali che non ce l’ hanno fatta, per quelle bare trasportate da mezzi militari, per quei necrologi che riempiono decine e decine di pagine dei quotidiani, per le famiglie spezzate, per gli abbracci che mancano ogni giorno di più, per le difficoltà economiche di padri di famiglia disperati.

E spero che questo virtuale “ ANDRA’ TUTTO BENE”,  che la mia immaginazione grida davanti a voi, giunga più facilmente al cielo e squarci il velo di tristezza che invece, voi, mie amatissime Alpi,  sapevate cancellare con la vostra maestosità, con i vostri prati sterminati, con le vostre vette innevate e incontaminate, con i vostri ghiacciai perenni.

                                                     Alessandra Fiorilli                                                            

Il radicchio rosso trevigiano: la carta d’identità di questo prodotto italiano IGP

L’Italia è una nazione che può vantare un grande numero di prodotti DOC, DOPIGP:  tra questi ultimi, anche il Radicchio Rosso di Treviso, la cui zona di produzione è esplicitamente dichiarata nel Disciplinare dell’ Indicazione Geografica Protetta e comprende 24 comuni  tra le province di  Treviso, Padova e Venezia.

IGP è il marchio che identifica il territorio il  quale, grazie a specifiche caratteristiche, è in grado di dare, a un prodotto qualità che lo differenziano da altri della stessa specie.

I terreni dei 24 comuni compresi nelle tre province venete suindicate, sono fertili e ricchi delle acque purissime di falda che provengono direttamente dalle Dolomiti. Scorrendo sotto la ghiaia, risalgono in superficie, originando corsi d’acqua quali il Sile, il fiume che si può ammirare passeggiando per la città di Treviso.

E proprio da questa  città, la storia vuole che tutto abbia inizio: si narra, infatti, che il vivaista Francesco Van Den Borre, giunto dal Belgio nel 1870 per realizzare un giardino nel trevigiano, abbia fatto arrivare, in terra veneta, la tecnica di imbiancamento che veniva usata per le cicorie belghe, nonostante la coltivazione del radicchio fosse già avviata nella zona di Treviso, già nel XVI secolo

La sua famiglia d’origine è quella della comune cicoria, ma a rendere questo prodotto così unico ed apprezzato, è la  particolare lavorazione cui viene sottoposto.

Il Radicchio  rosso si divide in due categorie: il Precoce e il Tardivo, quest’ultimo è molto più pregiato e  richiede un trattamento complesso.

Già il nome con il quale è conosciuto, “re dell’inverno”, ci fa comprendere come il suo sviluppo sia legato al freddo: non a caso, lo stesso Disciplinare di Produzione prevede che la raccolta del radicchio debba avvenire dopo due brinate.

Vediamo insieme come nasce il radicchio trevigiano IGP: messi a dimora i semi nei vivai, le piantine vengono, successivamente, collocate nel terreno, tra luglio e metà agosto.

Con l’arrivo della prima brinata, verso il mese di novembre, si ha la raccolta delle piante che vengono, così, ripulite delle foglie più esterne, legate tra loro e immerse in vasche con acqua risorgiva per ottenere l’imbiancamento, periodo, questo, che dura 20-25 giorni, durante il quale le radici del radicchio diventano bianche e assorbono le sostanze nutritive dell’acqua stessa.

In questo lasso di tempo, le piante, grazie al buio e alla temperatura che si aggira intorno ai 10-13° C, germogliano di nuovo.

Dopo la  fase della “toelettatura”, il radicchio viene lavato ed è pronto ad arrivare in tutto il mondo.

E così, sui banchi ortofrutticoli,  si offre, languidamente, con il suo rosso scuro intenso delle foglie attraversate da striature bianche.

Ricco di antiossidanti, con un basso contenuto calorico, essendo composto per circa il 92% da acqua, il radicchio aiuta a contrastare i radicali liberi e l’invecchiamento, oltre a rappresentare un’ottima fonte di vitamina A, B1, B2.

Il sapore piacevolmente amarognolo e la sua consistenza croccante lo rendono ideale per il consumo sia crudo, in insalata, che cotto alla griglia.

Ottimo come ingrediente principe del risotto al formaggio Asiago, il radicchio trevigiano è un prodotto d’eccellenza italiano e il simbolo di un’antica tradizione capace di regalare un prodotto unico.

                                                   Alessandra Fiorilli

Alla riscoperta della pasta fresca fatta in casa: oggi parliamo di orecchiette pugliesi e “pettole” casertane

I Social, in queste settimane, si stanno riempiendo di foto e video che ritraggono gli italiani alle prese con pane, pizza, pasta, dolci.

I nostri connazionali ci stanno regalando, così, l’immagine di un’Italia che sembrava scomparsa da tempo, e, in un istante, siamo tornati tutti bambini, quando le nonne o le bisnonne impastavano, con grande maestria e passione, acqua e farina per portare in tavola la pasta fresca fatta in casa.

Ciascun prodotto appartenente alla tradizione italiana ha una storia da raccontare: oggi, in questo articolo, parliamo delle orecchiette pugliesi e delle “pettole” casertane.

Tipiche della Puglia ma diffuse anche in Basilicata, varie sono le ipotesi sulla loro comparsa: c’è chi le ritrova persino in un testo del grande poeta latino Varrone, vissuto tra il 116 e il 117 a. C., il quale, in un suo testo, parlava di una pasta, le “lixulae”, di forma tondeggiante con un incavo nella parte centrale e che ricordano proprio le odierne orecchiette. 

Un’altra ipotesi sembra essere legata, invece, al Medioevo, quando, tracce di una pasta prodotta con il grano duro delle Tavoliere, si hanno nella città di  Bari e nel suo entroterra. Sembra, però, che fosse una tradizione importata dalla Provenza, località, questa, dalla quale la pasta a forma di orecchiette, partì alla volta della Puglia, insieme agli Angioini, i quali intorno al XIII secolo, ebbero il controllo di gran parte del suddetto territorio.

 La forma data a tale tipo di pasta in terra francese, aveva una sua motivazione molto profonda, legata alle carestie che si dovevano, spesso, fronteggiare in epoca medievale: l’incavo che si faceva al centro del piccolo disco di pasta spessa, serviva, infatti, a rendere più facile l’essiccazione e, di conseguenza, anche la conservazione.

Un’altra corrente di pensiero, invece, vuole che le orecchiette abbiano avuto i loro natali nel territorio di Sannicandro di Bari, tra il XII e il XIII secolo, periodo, questo, della dominazione normanno-sveva nell’attuale Puglia.

I Normanni, infatti, proteggevano la comunità ebraica che risiedeva in terra pugliese e gli ebrei erano soliti preparare dei dolci, con un incavo al centro, note come le “Orecchie di Haman”, da cui scaturì la classica forma del formato di pasta delle orecchiette, appunto.

Una data è certa: quella del 1500, quando, negli archivi della chiesa di San Nicola di Bari,  in un atto notarile di cessione di un  panificio dal padre alla propria figlia, fosse indicata, alla voce “dote matrimoniale” anche la famosa ricetta delle “reccjetedde”, nome, questo, con il quale le orecchiette sono ancora oggi chiamate a Taranto e provincia

A Bari, invece, sono note con il nomignolo affettuoso di “L strascnat”, termine, questo che indica la modalità con la quale la pasta viene lavorata, strusciandola, appunto, sulla spianatoia.

Con la superficie esterna ruvida e spessa, e il cuore più liscio, le orecchiette si sposano alla perfezione con le famose cime di rapa, ma non disdegnano neanche cavolfiori, broccoli o altri tipi di verdura mentre, in altre zone della Puglia, come il Salento, si usa condirle con un sugo corposo e cosparse di ricotta di pecora.

Altra tipica pasta fatta in casa sono le pettole casertane, le cui origini sono legate alle tradizioni contadine dell’agro aversano. Si narra, infatti, che un piatto di pettole e fagioli non mancasse mai sulle tavole dei contadini i quali, dopo una lunghissima e faticosa giornata trascorsa sui campi, potevano trovare sollievo in questo piatto tipico che vedeva il connubio perfetto tra le pettole, pasta fresca a base di farina e  acqua e i fagioli, la cosiddetta “carne dei poveri”.

Noto come “Pettl’e fasul”, ancora oggi è un tipico piatto della zona di Caserta, riscoperto in particolar modo, in questo periodo di reclusione forzata, quando il tempo a disposizione permette di rispolverare piatti dei nostri avi, la cui preparazione poco si addice alla fretta nella quale eravamo soliti vivere prima dello “stop” impostoci dall’emergenza sanitaria in corso.

In attesa che tutto torni alla normalità, intanto, le mamme impastano acqua e farina, proprio come facevano le massaie di una volta, mentre i ragazzi di oggi possono, così, assaporare dei piatti di pasta fresca che custodiscono in sé una storia antica, fatta di consolidate usanze e di preziose tradizioni.

                                           Alessandra Fiorilli

…e il TEMPO rivolle indietro il tempo che aveva regalato agli uomini

Privi di libertà e pieni di tempo…un tempo che, talvolta, ci sembra infinito, rallentato da una non-azione a cui ci ha costretto l’epidemia.

Da settimane, ormai, non diciamo più : “Ti chiamo io dopo, ora non ho tempo”, “Semmai ci vediamo un’altra volta, adesso devo correre”, Appena mi sarà possibile, verrò a trovarti, tempo permettendo”.

Ecco, ora il tempo abbonda in queste nostre vite trasformate, piene di interrogativi e di paure:  paura del contagio, paura dell’altro, paura di ammalarci, paura di diventare uno dei numeri che, quotidianamente, affollano l’ormai consueto e triste bollettino della Protezione Civile.

In questa dimensione mai sperimentata prima d’ora, in bilico tra l’assenza di libertà e l’assoluta necessità di questa “prigionia” forzata che è l’unico mezzo per lottare, tutti insieme, contro il virus, lui, il TEMPO sembra essere lì, in un angolo a guardarci, sembra che ci voglia dire: “Voi fermi e io che trascorro libero, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora. Quanto tempo  vi ho dato, nei mesi e negli anni passati… e quanto ne avete sprecato, buttato via, in sterili litigi, in vane lamentele, in fumosi chiacchiericci. E ora che ne avreste in abbondanza, e che vorreste riempirlo di abbracci, incontri, baci, strette di mano….ecco, ora siete lì, immobili, in attesa. E io, allora, mi prendo il mio tempo, il tempo che voi avete riempito con le vostre sciocchezze insulse, con le promesse che sapevano di falsità. Il tempo che non avete assaporato, quel tempo che non vi sarà più reso. Ricordatevelo, uomini, quando ne diventerete di nuovo padroni”.

                                                   Alessandra Fiorilli 

La tipica graffa napoletana e la sua “sorella”, la classica e golosa ciambella fritta

Una ciambella fritta…calda, morbida, cosparsa di zucchero.

E così, in questo periodo in cui l’emergenza sanitaria ha azzerato la nostra quotidianità, quanto ci manca una ciambella fritta mangiata in strada per celebrare un incontro casuale tra amici, un esame universitario andato bene, una serata dal cielo terso.

E quante volte quella stessa ciambella fritta mangiata in strada ci ha consolato, ha asciugato quella lacrima, ci ha addolcito l’animo stanco.

Nell’impossibilità di gustarla seduti ad una bar, in pasticceria, è sempre possibile prepararla in casa, anche perché la ciambella fritta è più di un semplice dolce: è un’amica, una confidente, una parentesi tra gli impegni quotidiani, una coccola.

Le sue origini, nonostante sia tra i dolci più apprezzati e consumati in Italia, sono, invece, austriache: si narra che sia giunta nella nostra penisola insieme agli Asburgo, i quali dominarono il Regno di Napoli che divenne parte integrante dei loro domini  con il Trattato di Utrecht del 1713.

Fu così che gli austriaci portarono con sé dei bombolotti fritti e cosparsi di zucchero: i Krapfen.

Sull’origine del nome ci sono due ipotesi: la prima, è quella legata a una certa pasticcera austriaca, Cecilia Krapf, la quale, alla prese con la preparazione di un impasto, lo fa,  accidentalmente, cadere in una padella di olio pronta ad accogliere altri alimenti da cuocere. Si rende, però, conto di aver creato un dolce gustoso e saporito che prenderà da lei il nome con il quale sarà noto in tutto il mondo.

La seconda ipotesi vuole che la parola Krapfen abbia origine dal termine austriaco “Krafo”, ovvero uncino, perché un’altra tradizione vuole che l’originaria forma ricordasse proprio quella di un uncino, appunto.

Con molta probabilità e per una chiara assonanza, da “Krafo” deriverebbe il nome con il quale le ciambelle fritte sono conosciute in Campania: graffe, che, a differenza delle classiche ciambelle consumate nel resto d’Italia, vengono preparate con le patate, oltre ai classici ingredienti quali la farina, le uova, il burro, il latte, la scorza di limone.

Qualsiasi sia il suo nome o la sua origine, quanto è bello gustare una ciambella calda ad occhi chiusi con quello zucchero che rimane sulle labbra e ai lati della bocca?

                                                   Alessandra Fiorilli

La Basilica Palladiana di Vicenza, simbolo della città e del genio artistico di Andrea Palladio

Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1994 e Monumento Nazionale dal 2014, la Basilica Palladiana a Vicenza, oltre ad essere il simbolo della città veneta, rappresenta il genio artistico di Andrea Palladio, architetto rinascimentale, il quale ebbe proprio nel Veneto il centro nevralgico della propria attività.

La Basilica, che domina la centralissima Piazza dei Signori sulla quale si affaccia, è in realtà frutto di una serie di progetti volti a modificare il preesistente Palazzo della Ragione, realizzato tra il 1449 e il 1460, che, così come il suo omonimo padovano, aveva la copertura a carena di nave rovesciata e ricoperta di lastre di rame.

L’edificio, prima dell’intervento di Andrea Palladio, ospitava, al primo piano, le Magistrature pubbliche di Vicenza e, al piano terra, le botteghe.

La facciata, caratterizzata da rombi in marmo rosso e gialletto di Verona, era ispirata volutamente al Palazzo Ducale di Venezia.

In seguito ad un crollo, le autorità cittadine vicentine passano al vaglio le proposte che giungano dai più eccelsi nomi dell’architettura veneta, ma, nel 1546, il Consiglio decide di affidare i lavori ad Andrea Palladio, giovane architetto di appena 38 anni, il quale propone di riprogettare il preesistente Palazzo della Ragione aggiungendovi delle logge in marmo bianco e serliane.

Gli interventi sull’iniziale struttura sono quelli che ancora oggi possiamo ammirare: una struttura al tempo stesso imponente ma agile, dinamica, caratterizzata dalle serie delle cosiddette serliane che si ripetono, ovvero una struttura composta da un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari architravate.

In seguito al restauro che si è avuto tra il 2007 e il 2012, è visitabile anche la terrazza superiore, dalla quale si può ammirare la vista sulla città e sui monti che la circondano. Il perimetro della balaustra è ornato di statue realizzate, agli inizi del 1600, da Albanese, Grazoli e Rubini, fedeli ai disegni del Palladio.

La Basilica Palladiana, nonostante il nome evochi per i cristiani una funzione religiosa, è stata così chiamata dallo stesso Andrea Palladio per rendere  omaggio alle tradizioni dell’antica Roma, dove, nell’edificio chiamato appunto basilica, si discuteva di politica e di affari.

Intatta, invece, è rimasta la Torre detta dei Bissari, risalente al XII secolo e che è ben visibile dalla terrazza della Basilica

Il Salone del Consiglio dei Quattrocento, al piano superiore, si sviluppa su un’altezza di 24 metri e vanta una superficie di circa 1500 metri quadri , spazio, questo, utilizzato per allestimento di mostre.

Visitare la Basilica Palladiana significa diventare testimoni del  genio artistico di Andrea Palladio, uno tra i grandi nomi dell’arte italiana, ammirata ed invidiata in tutto il mondo.

                                              Alessandra Fiorilli

La storia della Zeppola di San Giuseppe, dolce tipico della Festa del Papà

La prima ricetta scritta della Zeppola di San Giuseppe la troviamo nell’opera “La cucina teorico pratica” redatta da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nato ad Afragola, paese in provincia di Napoli, dove poi è morto.

Parente del famoso poeta Guido e di nobili natali, la sua opera più nota, da lui rivista ed aggiornata più volte , è un omaggio alla cucina napoletana e, non a caso, tra le ricette spiccano quella della parmigiana di melanzane, della pizza fritta, dei vermicelli con le vongole, della minestra maritata.

Tra i dolci, invece, sono menzionate la famose Zeppole di San Giuseppe, che, nel trattato di Ippolito Cavalcanti, le troviamo preparate con farina, acqua, liquore d’anice, marsala o vino bianco, sale, zucchero e fritte nell’olio.

La zeppola che oggi conosciamo è arricchita, al suo interno, di crema pasticcera, la cui aggiunta successiva deriva, con molta probabilità, dalla dominazione francese sul territorio napoletano.

Mentre, invece, l’amarena sciroppata , si badi bene, e non la ciliegia, che viene posta alla sommità della zeppola  come decorazione, serve a regalare quel tocco di asprigno necessario a “spegnere” l’eccessiva dolcezza dell’impasto unito alla crema.

Così come per gli altri cibi fritti e che venivano solitamente mangiati in strada, anche le zeppole erano preparate sul momento, fritte da venditori che avevano, sino alla metà del secolo scorso,  i loro banchetti davanti la propria abitazione.

L’origine della zeppola legata ai festeggiamenti della Festa del Papà (anche se da anni ormai, compare dietro i banconi delle pasticcerie già durante il periodo di Carnevale, accanto alle tradizionali frappe e castagnole) sembra essere religiosa: alcuni, infatti,  narrano che  San Giuseppe, dopo la fuga dall’Egitto insieme a Maria e a Gesù, si diede alla vendita di frittelle per mantenere la propria famiglia.

Nell’antica Roma, invece, l’usanza di consumare frittelle fritte era legata alle feste delle Liberalia, che si tenevano proprio intorno alla prima metà di marzo, periodo nel quale si festeggiavano Bacco e Sileno, con fiumi di vino e, appunto, cibo dolce fritto.

Se la classica Zeppola di San Giuseppe ha origini napoletane, in altre parti d’Italia si è soliti preparare altri dolci che, in comune con quello campano, hanno i classici ingredienti per l’impasto e la crema come ripieno, ma non sono decorati con l’amarena, , come il Bignè di San Giuseppe, tipico di Roma.

In Toscana e in Umbria, molto diffusa è la frittella di riso, mentre in Emilia Romagna, è la raviola, simile al bignè romano di San Giuseppe.

Tanti auguri a tutti Papà dalla rivista EmozionAmici.

                                       Alessandra Fiorilli